Honduras: una resistenza che rivela i limiti della repressione
di Francesca Gargallo Celentani, traduzione italiana di Lucia Cupertino
La mattina del 30 novembre 2017, la poetessa onduregna Melissa Cardoza, femminista radicale e attivista del movimento indigeno, nero e contadino del suo paese, mi dice: “Stamattina hanno dato fuoco alla Casa-Museo del Hombre, luogo emblematico della vita culturale di Tegucigalpa. Il giorno precedente gli/le artisti/e e intellettuali dell’Honduras avevano mandato un segnale forte alla popolazione, per indurla ad uscire di casa e difendere lo stato di diritto. Oggi alle 6 del mattino è cominciato l’incendio nel Museo, è stato bruciato tutto. Il poeta Fabricio Estrada ha scritto: Hanno dovuto incendiare un museo per illuminare la loro era di barbarie”.
Quattro giorni fa le elezioni presidenziali erano rimaste in sospeso, senza un verdetto sul vincitore, le tendenze favorivano il candidato dell’opposizione, Salvador Nasralla. La minaccia di brogli, dopo che col 57% dei voti contati Nasralla era avanti con un margine del 5%, si insinuava negli animi di tutti. La popolazione onduregna metteva in dubbio un sistema elettorale che, dopo il golpe del 2009, è stato utile solo per il mantenimento dello status quo. Il sistema di calcolo del Supremo Tribunale Elettorale, prima di offrire i risultati, è collassato e, quando è stato ripristinato, mostrava Juan Orlando Hernández vincitore per un risicato 1%. Non ci ha creduto nessuno.
La notte del 30 novembre, nel porto di La Ceiba, i militari gettarono da un ponte José Abilio Soto uccidendolo, perchè aveva una bandierina che diceva “Fuori JOH”.
La mattina dopo un altro morto per mano dei militari, sullo stesso ponte, un ragazzo di 16 anni, José Fernando Melgar a cui spararono da lontano. E percosse brutali, violenze verbali, lancio di gas asfissianti in tutto il paese. Alle 23 dell’1 dicembre del 2017, quelli di noi che continuavano a seguire le sorti onduregne ricevemmo la notizia che, per evitare di verificare i risultati della contesa elettorale del 26 novembre, José Orlando Hernández aveva decretato 10 giorni di coprifuoco. Quindici minuti dopo, l’esercito uccise con un colpo alla testa una giovane che aveva provato ad avvisare suo fratello, Kymberly Dayana Fonseca Santamaría.
Sull’Honduras aleggia da sempre un silenzio mediatico che ha ridotto il secondo paese più grande e popolato dell’America centrale ad un enigma. Sfortunatamente, ha costruito anche il disinteresse per decifrarlo. Cosicchè quando un golpe (e l’Honduras, dopo la Bolivia, è il secondo paese con più colpi di stato nel continente americano) fa momentaneamente uscire dall’anonimato l’Honduras, molti analisti politici (e parlo al maschile, perchè sono quasi sempre uomini) ricorrono a luoghi comuni che non sono stati messi in piedi solo dalla borghesia locale e dalla politica imperialista degli Stati Uniti, visto che sono stati riciclati e ripetuti dalle frange poco critiche della sinistra.
Secondo questi analisti, l’Honduras non è nientr’altro che il paese da cui venne fuori la coalizione militare capeggiata dagli statunitensi con l’appoggio di truppe centroamericane per far cadere il legittimo governo di Jacobo Árbenz nel 1954; il paese che alberga la base aerea di Soto Cano, la più grande dell’America centrale, a Palmerola; il territorio in cui si rifugiava la controguerriglia nicaraguense durante la guerra sucia condotta contro la Rivoluzione Sandinista; il paese il cui l’esercito è stato riformato da un ambasciatore statunitense, John Dimitri Negroponte, negli anni ‘80 per garantire l’appoggio incondizionato alle truppe del suo paese quando portano a termine operazioni nell’Istmo centroamericano o spostano i militari del Comando Sud verso l’America meridionale.
Tutto ciò è vero, ci mancherebbe. Così come è vero che è stato il paese in cui le destre mondiali hanno messo alla prova le loro politiche. Come in Cile con Pinochet si sperimentò l’imposizione del neoliberalismo, in Honduras nel 2009 venne testato il modello dei golpes morbidi o parlamentari che si sono susseguiti senza risultati in Ecuador, e con successo in Paraguay e Brasile, la seconda economia del continente.
Dopo le affermazioni retoriche post-caduta del muro di Berlino, era molto difficile che il mondo unipolare tornasse al pugno duro senza contravvenire i suoi stessi postulati secondo cui, laddove non vi erano minacce comuniste, erano inutili governi duri e colpi di stato militari. Nel 2009, esattamente 20 anni dopo la dichiarazione della fine della guerra da parte dei dirigenti neoliberali, in Honduras i colpi di stato si ripetevano.
Contro un presidente che aveva osato alzare il salario minimo più basso del continente e che aveva messo su una consulta popolare per riformare la costituzione attraverso un’Assemblea Costituente, si sollevò un settore della destra parlamentare, appoggiato da cupole religiose cattoliche e neoevangeliste, che spinse l’esercito al palazzo del presidente, a tirar fuori dal letto Manuel Zelaya e la sua famiglia e costringerli all’esilio in pigiama.
Dopo il golpe militare del 28 giugno 2009, le donne onduregne hanno promosso manifestazioni per le strade del paese e hanno riunito attorno alle loro figure di madri, lavoratrici dei mercatini, contadine, energiche animatrici, maestre, avvocatesse, scrittrici, femministe e non, tutte indignate, non solo decine di organizzazioni popolari e giovanili, quanto lo stesso sindacato che le aveva storicamente marginalizzate.
Fino alle nuove elezioni, il 29 novembre 2009, elezioni che nel bizarro clima politico dell’Honduras che resisteva al golpe rappresentavano di fatto un abuso di potere, le donne e i sindacati onduregni organizzarono una protesta visibile, camminata, gridata, di corpi presenti, ogni mattina per le strade della capitale, Tegucigalpa, e di San Pedro Sula.
Il 15 settembre, giorno in cui si commemora l’Indipendenza dell’America centrale, quasi l’8% della popolazione partecipò alle manifestazioni: 600mila persone che sfidavano il Congresso che aveva decretato lo stato d’assedio e sospeso le garanzie dei cittadini. Motociclisti, pedoni, signore che frapponevano le proprie auto tra le autoblindate della polizia e i e le manifestanti. L’Honduras disse no al golpe. Riuscì ad ottenere il sostegno dell’OSA, che sospese l’Honduras come suo membro fino alla restaurazione di un “governo democratico” (che solo sarebbe potuto essere quello di Manuel Zelaya).
Allo stesso tempo, El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Venezuela e Svezia annunciarono sanzioni economiche contro l’Honduras: la Banca Interamericana di Sviluppo e la Banca Mondiale sospesero il sostegno finanziario dato in precedenza. Tutte le delegazioni diplomatiche dell’Unione europea si ritirarono, mentre molte femministe appoggiavano i sit-in della poeta Amanda Castro nella Plaza Morazán e le marce in sostegno del popolo onduregno.
Contro il Golpe, la Poesia convocò all’azione, che contemplava letture ad alta voce, scritture collettive, abbracci alla popolazione, scioperi dagli acquisti, distribuzione di donazioni ricevute dalle mani di altri poeti ed editori di libri e riviste. Il riconoscimento della legittimità delle elezioni del novembre 2009 da parte degli organismi internazionali inflisse un duro colpo alla resistenza onduregna che, poco a poco, si ritirò dalle strade.
Il paese è sprofondato per otto anni in un clima di repressione, accompagnato da un critico incremento della delinquenza più letale. In Honduras si registrano più di 90 morti assassinii ogni 100mila abitanti, 11 al giorno, dato che l’ha collocato, nel 2013, al primo posto al mondo per numero di omicidi. La repressione contro sindacalisti, attivisti dei diritti sessuali e, ancor più, leader del settore indigeno e contadino, è dilagata. I femminicidi hanno sfiorato cifre impressionanti, dopo il golpe sono infatti incrementati del 65%.
Ogni mese circa 53 donne vengono ammazzate, nella maggior parte dei casi in seguito a violenze fisiche, torture, sequestri. Il 3 marzo del 2016, la leader lenca Berta Cáceres, femminista ed ecologista indigena, è stata uccisa nella sua casa, alla presenza dell’ambientalista messicano Gustavo Castro, il quale è sopravvissuto all’assalto solo perchè considerato già morto. I funzionari e i dirigenti della ditta di servizi energetici DESA sono complici dell’assassinio.
“Le evidenze raccolte circa la partecipazione di numerosi impiegati dello Stato (poliziotti, militari, funzionari), così come di direttori e impiegati della DESA nella pianificazione, esecuzione e occultamento sono irrefutabili”, è quanto sostiene il rapporto di 92 pagine intitolato Diga di violenza: il piano che ha ammazzato Berta Cáceres, che è stato redatto da giuristi di vari paesi (Colombia, Stati Uniti, Guatemala e Olanda). Il piano per uccidere l’attivista, che cercava di paralizzare la costruzione dell’idroelettrica Agua Zarca che riguardava il fiume Gualcarque, da cui dipendono varie comunità dell’etnia lenca, era stato tramato nel novembre 2015. Berta Cáceres aveva subito due tentativi di assassinio nei mesi inmediatamente precedenti alla sua scomparsa, nonostante il riconoscimento internazionale giunto col premio Goldman nel 2015 (il discorso della Cáceres è leggibile qui: http://www.lamacchinasognante.com/sulle-orme-di-berta-caceres/) non aveva sufficiente protezione.
La repressione in Honduras è brutale, allo stesso tempo è anche un paese dotato di una tenace vitalità, aspetto spesso completamente invisibilizzato dai media. Sei gruppi indigeni e afro, assieme ad una densa popolazione urbana compongono il mosaico dei 9 milioni di abitanti del paese, che nel tempo hanno resistito alle più spietate politiche di annichilamento delle proteste e dell’organizzazione collettiva e comune. Se negli anni ‘70 e ‘80 non sorse una guerra di liberazione nazionale lo si deve al fatto che i suoi gruppi politici armati furono decimati sul nascere, con un grado di letalità militare paragonabile solo a quella messicana attuale.
Nonostante tutto questo, i gruppi femministi -diversi, più autonomi che istituzionali- sono stati tra i più irriverenti nel contrasto alla cultura patriarcale, al controllo delle famiglie nucleari, al dominio delle norme di cattolici e neoevangelici, alla separazione tra le necessità delle donne urbane e con studi e quelle delle donne indigene, contadine e garifuna, che promuovono la difesa del territorio dall’impatto dell’industria turistica, lo sfruttamento idrico e agroindustriale. Interclassista e interculturale, l’insieme dei femminismi onduregni si compagina come un coro di voci autonome, capaci di analisi e descrizioni variegate dei sentimenti politici e sociali delle donne.
Ad esempio, Melissa Cardoza (che abbiamo ospitato en La macchina sognante con questo racconto: http://www.lamacchinasognante.com/sandra-carcamo-una-mamma-nel-golpe-dellhonduras-a-cura-di-l-cupertino/) ha scritto che la seconda notte di coprifuoco, quando una marea di gente si era armata di fiaccole per sfidare i militari, fu anche la notte delle pentole che gridavano il loro scontento. “Ed ecco che da qui, dal più umile angolino di una qualsiasi cucina, tra le cianfrusaglie lavate e ordinate lasciate in ordine dalle donne, un coperchio, una pentola per la fagiolata, una padella per i pancakes, un comal per le tortillas vennero a salvarci dal naufragio nel quale ci getta deliberatamente una dittatura che ci spinge all’emozione antica della disfatta fino a cercare di devastarci totalmente. Utensili della vita quotidiana entrarono nelle piazze col loro suono per ravvivare il fuoco che resta vivo in questo territorio chiamato Honduras, in cui la scintilla della speranza non si spegne, benchè sia schiacciata sotto gli stivali militari”.
La mattina del 5 dicembre, l’Honduras si svegliò con una sopresa stupefacente e trascendente. Centinaia di poliziotti della squadra antisommossa, chiamata Cobras, assieme ai membri della polizia metropolitana si autodeterminarono come popolo che non può reprimere il popolo. Dal lunedì 4 dicembre, i Cobras, un corpo d’elite della polizia rimpiazzata da Juan Orlando Hernández mediante la creazione della Polizia Militare, erano apparsi nelle strade di Tegucigalpa per manifestare il loro no contro l’ordine di repressione della popolazione. Molti civili li hanno accolti con applausi, alcune signore gli hanno passato bottiglie d’acqua, cibo e perfino fiori. Il volto coperto, per evitare d’essere riconosciuti dalle autorità e dalla polizia militare (che continua a reprimere i e le manifestanti e ha cominciato a sparare nei quartieri in cui in tempi di pace non si faceva viva, insinuando forti dubbi circa gli obiettivi della pulizia sociale della repressione), hanno preso a gridare che non vogliono reprimere la gente, “Siamo stanchi di combattere contro la gente”.
Subito dopo marciarono assieme ai e alle manifestanti, rivendicando il riconteggio dei voti e la fine del coprifuoco. Uno di loro ha detto alla scrittrice femminista Jessica Isla che non ricevono alcuna protezione contro le sparatorie, questo da quando il presidente Juan Orlando Hernández, alla ricerca della rielezione, ha agito in modo anticostituzionale. Fino al 2015 era illegale aspirare a un secondo mandato per la presidenza, ma una sentenza della Corte Suprema ha rimosso tale proibizione costituzionale, fatto che ha provocato l’ira dell’opposizione. La ribellione della polizia antisommossa, così come la violazione del coprifuoco tutte le notti da parte di masse di giovani, dimostrano che l’autorità di Juan Orlando Hernández è piuttosto fragile e che la maggioranza della popolazione vuole porre fine a questi 9 anni di vessazioni.
In questi giorni di ribellione contro i brogli elettoriali che garantiscono unicamente la continuità di governi di dubbia reputazione, tutti eletti a partire dalle condizioni instabili propiziate dal golpe del 2009, la stampa internazionale ha posto l’accento sul pericolo dello straripamento della rabbia popolare. La stampa locale, al contrario, ha messo in evidenza la partecipazione giovanile alle manifestazioni. Nelle pagine dei “memes” e delle caricature contro i brogli circolano immagini di giovani incappucciati, ragazzi indignati e, in generale, si parla molto della ribellione dei “millenials”.
Si tratterebbe dunque di una rivolta creata da persone che non hanno mai conosciuto la democrazione nell’arco della loro vita. Jessica Isla non nega l’enorme participazione dei giovani, tuttavia sostiene che più che circoscriverla ad una fascia d’età, bisognerebbe fare riferimento al peso delle donne, per dipingere un panorama sociale completo delle persone coinvolte.
“I media e altri spazi parlano tanto della partecipazione giovanile. Questo è giusto, non è mia intenzione negarla. Ma sotto questo velo si rendono invisibili le presenze femminili che, non lo dimentichiamo, assieme a quella dei giovani rappresentano la maggioranza dei votanti e una fetta consistente di quelli che stanno resistendo in casa e per le strade, com’è accaduto anche durante il golpe del 2009. Sono le donne ad aver regalato fiori ai poliziotti resistenti, sono loro quelle che si mobilitano, che abbracciano le forze della repressione per evitare le sparatorie, sono loro quelle che cucinano per la marea di gente che partecipa, sono loro che puliscono e, non per ultimo, quelle che assistono le vittime, cuciono le ferite e sotterrano i nostri morti”.
Francesca Gargallo Celentani, 2 dicembre 2017
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Foto in evidenza di Melina Piccolo