LE PARTITURE DELLA MEMORIA: QUATTRO POEMI, NUOVO LIBRO DI RAÚL ZURITA IN ITALIA (nota di lettura di Lucia Cupertino)

Relitto

Raúl Zurita, Quattro poemi, Valigie Rosse, 2019 (a cura di Lorenzo Mari, traduzione di Alberto Masala)

 

NOTA DI LETTURA A CURA DI LUCIA CUPERTINO

 

Gli scrittori, i poeti in particolar modo, nel loro costante lavoro di riscrittura, riordinamento e ripubblicazione danno spesso filo da torcere ai posteri, ancor più se filologi e studiosi della loro opera. Questo nuovo libro del poeta cileno Raúl Zurita per il pubblico di lingua italiana è un’antologia quadripartita che non ha pretese di esaustività, ma punta ad offrire, a partire da questi quattro punti cardinali, una bussola per orientarci nel suo intricato universo poetico. La selezione è appunto operata dall’autore che vuole interrogare e spartire i suoi crucci con le coscienze e i corpi politici dei lettori d’oggi, più che preoccuparsi del nugolo di specialisti del domani.

Come leggiamo nella splendida introduzione di Lorenzo Mari a Quattro poemi: “Il libro si apre con la sezione LVB, acronimo di Ludwig van Beethoven, soprannome affibbiato a un internato dei campi di prigionia del quale Zurita offre un’alta testimonianza poetica. A seguire, si aprono Le cateratte del Pacifico, visione sublime della Natura che, al tempo stesso, resta indissolubilmente legata anche alla fine tragica dei desaparecidos. La terza sezione è dedicata invece ai Barcaioli della notte, che svolgono le funzioni del Caronte dantesco, portando il lettore verso la visione finale del Canto al suo amore scomparso, l’immenso cimitero latinoamericano e mondiale nel quale Zurita stesso si confronta, a tutti i livelli, con l’ingiunzione etica, politica e letteraria, a dar conto delle migliaia di vite desaparecidas”.

La poesia di Zurita è carne viva, in ascolto, empatica. Se l’infanzia è il serbatoio primordiale, il luogo a cui incessantemente ritorniamo e dove si abbozzano le prime domande sul vivere attorno a cui, paradossalmente, ci tocca spendere una vita alla ricerca di plausibili risposte, allora ha senso credere che la febbrile immaginazione del Zurita bambino, assieme alle sue prime navigazioni nel mare magnum delle versioni orali della Divina Commedia, sorte tra le pareti domestiche e per mezzo della voce della nonna italiana, ebbero il loro peso, come spesso l’autore ha dichiarato, nella formazione di un intimo ed indivisibile modus vivendi, un agire e scrivere impregnati di una speciale e innata attenzione per la memoria, la tragedia, l’allegoria, la testimonianza, l’anelito dell’amore e le sfide del nostro mondo distopico. Non solo raccontare l’io che soffre, che pure è stata la sua esperienza di vita in piena dittatura cilena, quanto piuttosto raccogliere nell’io l’epica postcoloniale di un noi, all’interno di un mondo arcano, lugubre, più prossimo all’inferno, ma ancora in lotta e con la sete d’altro: di una umanità più in equilibrio con se stessa e col contesto a cui è indissolubimente legata.

Acuta la connessione stabilita nel testo introduttivo tra due geni, quali Beethoven e Celan, al fine di mettere in evidenza la matrice estetica ed etica di Quattro poemi. Da una parte i limiti auditivi e dall’altra i limiti dettati dal tempo storico, in entrambi i casi superlativamente superati, forse perché così apparentemente insormontabili, tramite una rifondazione dei linguaggi musicali e poetici. Nel caso di Zurita, se da una parte ci ritroviamo immersi in un paesaggio sonoro ostile, dominato dalle grida dei torturati o dal silenzio delle assenze, dall’altra parte questa spettrale tessitura orchestrale attiva la ricerca di una voce capace di evocare e raccontare, travalicando gli ostacoli. Tutto questo avviene all’interno di un ecosistema popolato di ossimori e antipodi. Gli stessi paesaggi lo sono: il lucore e l’aridità del deserto dell’Atacama è esattamente l’opposto di quelle cateratte de Pacifico o dell’ambiente umido e buio dei barcaioli della notte. A distanza siderale anche l’altezza morale dell’amore -sia esso una versione contemporanea di quello stilnovistico che quello della fratellanza e della comunanza di ideali e scelte- rispetto alla bassezza di tanti sordidi figuri che sfregiano qualsiasi possibile happy end.

Ma è proprio la morte, vera protagonista di questi versi, a congiungere l’alto e il basso, il cielo e la terra. Le alcove, i tumuli dell’ultima parte del volume sono i luoghi in cui il poeta compie i suoi personali sepolcri della storia mondiale e sembra riattualizzare il dialogo foscoliano coi morti e quella “corrispondenza di amorosi sensi”, quella “celeste dote” propria degli umani di convivere con gli estinti, ricordarli e non rendere vano il loro passaggio sulla terra.

Il mare del dolore è un breve testo di Zurita circolato in rete, che accompagna la riflessione sulle sorti di Alan Kurdi, il bambino siriano arenatosi sulle spiagge turche assieme alla sua breve vita. Le sue foto hanno fatto il giro del mondo, congelando una versione della storia. Il poeta di Antiparadiso sceglie un’angolatura diversa da quella trita e mediatica e ci fa vedere le sorti dell’altro fratello, Galip, così come l’operare del padre di sangue ed il suo, divenendo padre nell’esercizio della memoria:

Quando la barca stracolma di migranti siriani si capovolse, il padre nuotò da un bambino all’altro, cercando disperatamente di salvarli, ma solo potè vedere come sparivano. Io non ero lì. Io non sono il loro padre. Non ci sono fotografie di Galip Kurdi, lui non può ascoltare, non può vedere, non può sentire e il silenzio cade come un immenso telone bianco. Sotto il silenzio si vede un pezzo di mare, del mare del dolore. Io non sono il loro padre, ma Galip Kurdi è mio figlio”.

( testo integrale: http://www.cervantesvirtual.com/portales/raul_zurita/imagenes_mar_de_dolor/ )

È questa capacità di sentire universalmente che fa della poetica di Zurita una sfida per il nostro secolo, zeppo di rimozione selettiva, di slogan, di risposte veloci e facili dimenticanze. È la bussola che ritroviamo in questa nuova antologia per la terra dei suoi avi, l’Italia. In trepida attesa dell’uscita di un altro libro, Ni pena ni miedo, Raúl Zurita, la poesia civile, la canzone e la performance, Agenzia X (a cura di Marco Fazzini), in cui la voce del poeta cileno si espande e diventa la cassa di risonanza di tanti altri artisti, godiamoci questa selezione da Quattro poemi di Zurita, con traduzione a cura di Alberto Masala.

 

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NORD DEL CILE/ TRE SCENE

                            III

Come cazzo si arriva a sognare Beethoven
nel mezzo del deserto di Atacama. Non ascoltava
nemmeno una fottuta nota. Mi spiego? Nemmeno
una fottuta nota. Come si può? Avere tutta la musica
dentro e non sentire neanche un suono. Io dico che per
farlo ci vuole Dio. Altrimenti come? Ai giovani non
piace questa musica, dicono che sono cose da vecchi, ma
è perché dentro non hanno nulla oppure come fa a non
piacergli? Non si può vivere senza musica, è come
arrivare sulla cima dell’Everest e non guardare il
paesaggio. Neanche una fottuta nota. Come poteva
quel bastardo? Com’è che non è uscito di testa
quel gran figlio di puttana? Cazzo Beethoven,
averlo tutto lì dentro e non poterlo ascoltare. Ma
senza Dio come? Io credo che Dio è musica,
che queste alture sono musica, queste pietre,
le nubi, il cielo…
Il tipo parlava e parlava. Io stavo uscendo ed ero
andato nella cucina dell’albergo per farmi offrire
un caffè. Stava lì. Quando gli dissi qualcosa
mi accorsi che seguiva le mie labbra perché
era sordo, sordo come una campana. Faceva sera
e le città d’acqua fluttuavano sospese nel silenzio
infinito del cielo. Ascolti, continuò ancora
a dirmi mentre mi allontanavo, ascolti, ascolti…

NORTE DE CHILE/ TRES ESCENAS

                             III

Joder venir a soñar con Beethoven en la mitad del
desierto de Atacama. No escuchaba ni una puta
nota. ¿me entiende usted? Ni una puta nota.
¿Cómo lo haría el tipo? Tener toda la música
adentro y no oír ni pío. Yo digo que para eso hay
que tener a Dios ¿o si no cómo? A los jóvenes no
les gusta esa música, dicen que son cosas de
viejos, pero es porque no tienen nada adentro o si
no, ¿cómo no podría gustarles? No se puede ir por
la vida sin música, es como llegar a la cumbre del
Everest y no mirar el paisaje. Ni una puta nota
¿cómo lo haría el muy cabrón? ¿Cómo no quedó
como cabra el muy hijo de puta? Joder con
Beethoven, tenerlo todo allí dentro y no poder
escucharlo. ¿Pero sin Dios cómo? Yo creo que
Dios tiene música, que estos cerros tienes música,
estas piedras, las nubes, el cielo…
El tipo hablaba y hablaba. Yo estaba partiendo y
había ido a la cocina del albergue por si me
regalaban un café. Allí estaba. Cuando le contesté
algo me di cuenta de que me seguía los labios
porque era sordo, sordo como una tapia. Atardecía
y las ciudades de agua flotaban suspendidas en el
silencio infinito del cielo. Escuche, siguió todavía
diciéndome mientras me alejaba, escuche, escuche…

IL FINALE DELL’AMORE

               Beethoven

Migliaia di clavicembali ardevano bruciando
negli angoli e con il linguaggio dei segni dissi al tipo
che era meglio darsela a gambe perché era
partito il golpe di Pinochet.
Di fronte i vulcani erano altari aztechi con file di
prigionieri che salivano al sacrificio
e il tipo mi rispose “adesso toccherà a voi
carini”.
Poi si mise a recitare:
Ed erano come vite che si spezzavano gli scoppi delle
onde
Ed erano come vite ridotte in polvere le triturate
pietre
Ed erano come vite demolite le crollate
vette
Mi avete strappato il cuore” ora facevano coro i
sacrificati cileni fluttuando nelle vette
delle Ande.
I clavicembali continuavano a bruciare.
Merda, ho bruciato le mie navi, gridò il mio
nuovo amico.

Di fronte le cateratte del Pacifico risplendevano

EL FINAL DEL AMOR

               Beethoven

Miles de clavicordios ardían quemándose en las
esquinas y con lenguaje de señas le dije al tipo
que lo mejor era emplumárselas porque había
partido el golpe de Pinochet.
Al frente los volcanes eran altares aztecas con
filas de prisioneros subiendo al sacrificio y el
tipo me respondió “ahora les tocará a ustedes
bonitos”.
Luego se puso a recitar:
Y eran como vidas rompiéndose el estallido de
las olas
Y eran como vidas hechas polvo las trituradas
piedras
Y eran como vidas demolidas las derrumbadas
cumbres
Me arrancaste el corazón” coreaban ahora los
sacrificados chilenos flotando en las cumbres
de los Andes.
Los clavicordios continuaban ardiendo.
Mierda, he quemado mis naves, gritó mi nuevo
amigo.

Al frente las cataratas del Pacífico destellaban

LA NOTTE NUTRICE DELLA COLPA

La sagoma del primo barcaiolo emerse poco prima
dell’alba, ululante, stagliandosi contro l’immensa
aridità del cielo. Sotto si arrivava a distinguere il
fianco di una barca e sopra la sua figura si sollevava nel
momento di tornare indietro come se qualcosa l’avesse
fatto voltare bruscamente. Aveva alzato uno
dei remi come se con questo si preparasse a colpire e
il gigantesco vuoto bianco del suo volto sembrava
scrutare le correnti. Più indietro si disegnavano i
contorni sfocati di una riva e sopra questa le
architetture ugualmente sfocate di quelle che potevano
essere città e poi alcune montagne sospese nell’aridità
infinita del cielo. È successo in un secondo; aveva
alzato uno dei remi ed io ho urlato nascondendomi.
Un istante dopo le città e le montagne fatte in frantumi
fluttuavano come se fossero minuscoli
pezzi di carta nelle correnti. Sullo sfondo si
condensavano le prime alte nubi e scendendo
fra loro le onde avevano cominciato ad oscurarsi
come coaguli. Toccando l’orizzonte il fiume era una
sola massa sanguinolenta, ha albeggiato
e Abele ha ucciso Caino geloso dell’amore della madre.

LA NOCHE NODRIZA DE LA CULPA

La silueta del primer botero emergió poco antes del
alba, huracanado, recortándose sobre la inmensa
aridez del cielo. Debajo se alcanzaba a distinguir el
flanco de un bote y encima su figura se alzaba en el
momento de girar hacia atrás como si algo lo hubiera
hecho volverse abruptamente. Había levantado uno
de los remos como si se dispusiese a golpear con él y
el gigantesco vacío blanco de su cara parecía
escudriñar las corrientes. Más atrás se dibujaban los
contornos borrosos de una orilla y sobre ella el tramado
también borroso de lo que podrían ser
ciudades y luego unas montañas suspendidas en la
aridez infinita del cielo. Fue un segundo; había
alzado uno de los remos y yo grité escondiéndome.
Un instante después las ciudades y las montañas
hechas añicos flotaban como si fueran minúsculos
pedazos de papel en las corrientes. Hacia el fondo se
condensaban las primeras nubes altas y al descender
entre ellas las olas habían comenzado a oscurecerse
como coágulos. Al tocar el horizonte el río era una
sola masa sanguinolenta, ha amanecido y Abel
acaba de matar a Caín por celos del amor de la madre.

CANTO AL SUO AMORE SCOMPARSO

Cantai, cantai d’amore, con la faccia tutta bagnata cantai d’amore e i ragazzi mi sorrisero. Cantai più forte, ci misi passione, il sogno, la lacrima. Cantai la canzone dei vecchi capannoni di cemento. Una sopra l’altra decine di nicchie li riempivano. In ognuna c’è un paese, sono come bambini, sono morti. Tutti giacciono lì, paesi neri, Africa e i sudamericani. Io ho cantato il dolore ai paesi con un tale amore. Migliaia di croci riempivano fino in fondo il campo. Così cantai loro la serenata d’amore tutta intera. Cantai l’amore:

                                                               
E fu tormento, colpi, e ci
rompemmo in pezzi. Io ri-
uscii a sentirti ma la luce
andava via.
Ti cercai tra i dilaniati, parlai
con te. I tuoi resti mi guar-
darono ed io ti abbracciai.
Tutto finì.
Non resta niente. Ma anche
morta ti amo e ci amiamo mal-
grado nessuno possa capirlo

– Sì, sì, migliaia di croci riempivano fino in fondo il campo.

– Sono arrivato dai luoghi più lontani, con tonnellate di
– birra dentro e voglia di svuotarmi.
– Così sono arrivato ai vecchi capannoni di cemento.
– Vicino c’erano caserme a volta, con tutti i vetri rotti
– e odore di cazzo, sperma, sangue e muco puzzavano.
– Ho visto persone arruffate, uomini butterati dal vaiolo e
– migliaia di croci nella ghiacciaia, oh sì, oh sì.
– Spostando le gambe a tutti quegli imputriditi ho chiamato.
– Tutto si era cancellato meno i due maledetti capannoni.
– Rey un perverso volle prendermi alla cintura, però Aymara
– il numero del mio guardiano lo buttò sull’erba e fuggì.
– Dopo mi bendarono gli occhi. Vidi la vergine, vidi Gesù,
– vidi mia madre che mi spellava di colpi.
– Nell’oscurità ti ho cercata, ma i bravi ragazzi non possono
– vedere nulla sotto la benda degli occhi.
– Io vidi la vergine vidi Satana e il signor K.
– Era tutto secco di fronte alle nicchie di cemento.
– Il tenente ha detto “andiamo”, ma io sto cercando e ho
– pianto per il mio amico.
–      Ahi amore.
– Maledizione, disse il tenente, ci sarà un po’ di colore.
– È morta la mia ragazza, è morto il mio ragazzo, sono tutti
– spariti.

                                                               
Deserti d’amore.

Oh amore, cademmo spez-
za-ti e nella caduta ho pian-
to guardandoti. Fu un colpo
dopo l’altro, ma gli ultimi non
erano più necessari. Ci trasci-
nammo un poco appena fra i
corpi caduti per restare insie-
me, per restare uno al fianco
dell’altro. Non è difficile nean-
che la solitudine, non è succes-
so niente e il mio sogno si leva
e cade come sempre, come i
giorni. Come la notte. Tutto il
mio amore è qui ed è rimasto.

CANTO A SU AMOR DESAPARECIDO

Canté, canté de amor, con la cara toda bañada canté de amor y los muchachos me sonrieron. Más fuerte canté, la pasión puse, el sueño, la lágrima. Canté la canción de los viejos galpones de concreto. Unos sobre otros decenas de nichos los llenaban. En cada uno hay un país, son como niños, están muertos. Todos yacen allí, países negros, África y sudacas. Yo les canté así de amor la pena a los países. Miles de cruces llenaban hasta el fin el campo. Entera su enamorada canté así. Canté el amor:

                                                               
Fue el tormento, los golpes,
y en pedazos nos rompimos.
Yo alcancé a oírte pero la luz
se iba.
Te busqué entre los destroza-
dos, hablé contigo. Tus restos
me miraron y yo te abrace.
Todo acabó.
No queda nada. Pero muerta
te amo y nos amamos aunque
esto nadie pueda entenderlo.

– Sí, sí, miles de cruces llenaban hasta el fin el campo.
– Llegué desde los sitios más lejanos, con toneladas de
– cerveza adentro y ganas de desaguar.
– Así llegué a los viejos galpones de concreto.
– De cerca eran cuarteles abovedados, con sus vidrios rotos
– y olor a pichi, semen, sangre y moco hedían.
– Vi gente desgreñada, hombres picoteados de viruela y
– miles de cruces en la nevera, oh sí, oh sí.
– Moviendo las piernas a todos esos podridos tíos invoqué.
– Todo se había borrado menos los dos malditos galpones.
– Rey un perverso de la cintura quiso tomarme, pero aimara
– el número de mi guardián puse sobre el pasto y huyó.
– Después me vendaron la vista. Vi a la virgen, vi a Jesús, vi
– a mi madre despellejándome a golpes.
– En la oscuridad te busqué, pero nada pueden ver los chicos
– lindos bajo la venda de los ojos.
– Yo vi a la virgen vi a Satán y al señor K.
– Todo estaba secos frente a los nichos de concreto.
– El teniente dijo “vamos”, pero yo busco y lloré por mi
– muchacho.
–      Ay amor.
– Maldición, dijo el teniente, vamos a colorear un poco.
– Murió mi chica, murió mi chico, desaparecieron
– todos.

                                                               
Desiertos de amor.

Ay amor, quebrados caímos
y en la caída lloré mirándote.
Fue golpe tras golpe, pero los
últimos ya no eran necesarios.
Apenas un poco nos arras-
tramos entre los cuerpos caí-
dos para quedar juntos, para
quedar uno al lado del otro.
No es duro ni la soledad,
nada ha sucedido y mi sue-
ño se alza y cae como siem-
pre, como los días. Como
la noche. Todo mi amor
está aquí y se ha quedado.

RAÚL ZURITA

Zurita

Raúl Zurita Canessa è nato a Santiago del Cile nel 1950 da padre cileno e madre italiana. Dopo aver partecipato alle mobilitazioni studentesche cilene nella seconda metà degli anni Sessanta, si iscrive alla facoltà di Ingegneria della Universidad Técnica Federico Santa María della città di Valparaíso. Qui entra nelle organizzazioni giovanili del Partito Comunista cileno e stringe amicizia con un altro importante poeta della sua generazione, Juan Luís Martínez, di cui sposa la sorella, artista visuale. Nel 1968, Zurita scrive la poesia El sermón de la montaña (‘Il sermone della montagna’), testo nel quale si può scorgere un’anticipazione di quello che succederà l’11 settembre 1973, con il golpe militare che porterà al potere Augusto Pinochet. Nello stesso giorno del golpe, Zurita viene arrestato da una pattuglia di militari e portato allo Stadio di Playa Ancha, dove subisce percosse e torture, per poi essere trasferito sulla nave cargo Maipo ed essere finalmente liberato nel mese di ottobre.
Nel 1979 fonda il collettivo artistico CADA (Colectivo de Acciones de Arte) insieme alla seconda moglie, Diamela Eltit, poetessa e artista visuale, e ad altri sodali, impegnandosi in una serie di interventi artistici e performance pubbliche di critica e opposizione al regime. Nello stesso anno, pubblica Purgatorio, prima parte di una trilogia poetica dai chiari riferimenti danteschi (Zurita è profondo esperto e traduttore di Dante Alighieri), che comprenderà anche Anteparaíso (1982) e La vida nueva (1994). Del 1985 è invece un’altra opera fondamentale nella produzione di Zurita, Canto a su amor desaparecido, incluso in forma integrale in questa antologia. Tra le azioni artistiche, si ricordano, a titolo di esempio, il disegno nei cieli di New York, con l’ausilio di cinque aerei, di un poema di quindici versi intitolato anch’esso La vida nueva, nel 1982, o ancora il disegno, visibile dall’alto, del verso «Ni pena ni miedo» (‘Né dolore né paura’) nel deserto cileno di Atacama, nel 1993. Con la fine della dittatura di Pinochet e l’elezione del presidente Patricio Aylwin, Zurita è nominato addetto culturale dell’ambasciata cilena a Roma, città dove vive fino al 1995. Sarà poi docente di varie università, tra le quali l’Universidad Diego Portales di Santiago del Cile.
Tra le sue opere più recenti, vi sono Canto de los ríos que se aman (1997), INRI (2003), LVB. El país de tablas (2006) e la monumentale edizione antologica Zurita (2011), pubblicata sia in Spagna che in Messico. Zurita ha ricevuto numerosi e prestigiosi riconoscimenti per la sua opera, tra i quali si possono ricordare il Premio Nacional de Literatura cileno (2000), il Premio José Lezama Lima (2006), il Premio Iberoamericano de Poesía Pablo Neruda (2016) e il Premio José Donoso (2017).

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Foto di copertina: Relitto, da Pixabay

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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