L’auto, attraversando l’impervio paesaggio dell’Appennino centrale, corre spedita in direzione dei luoghi terremotati. Mi dirigo lì a curiosare un po’ ed a fare qualche scatto, forse voglio trovare l’ispirazione per scrivere qualcosa, insomma vado a fare il solito giro di fine settimana.
Arrivo in paese, sta piovendo e il grigiore del tempo contribuisce a rendere ancora più pesante e riflessiva l’atmosfera che si respira.
Mi ritrovo a percorrere una strada in leggera salita che prima del sisma ritengo dovesse essere a doppio senso. Solo poche auto precedono o seguono la mia. Parcheggio in fretta e mi soffermo a parlare con due guardie che presidiano l’ingresso della Zona Rossa. Comincio a capire quello che è stato e quello che ancora è.
La zona è deserta. Non un passante.
Continuo a fotografare. Un vicolo dopo l’altro, accompagnato solo dai miei passi e dai miei pensieri. Le pareti violentate dagli attimi decisivi dello schianto, mettono a nudo scorci di vita.
Dalle finestre e dai terrazzini lasciati aperti nella fretta di riappropriarsi della vita, della propria vita, ti aspetti che da un momento all’altro si affacci una moglie intenta alle faccende domestiche, uno studente immerso nell’ultimo ripasso prima degli esami, una bimba che sul triciclo gira e rigira nello spazio limitato del balcone, una coppia di pensionati alle prese con la lettura dell’ultima bolletta sempre più sproporzionata per le loro tasche…
Quasi lo vorresti, quasi lo pretenderesti, come se tutto quello che ti si sta parando davanti fossero solo immagini di un brutto sogno, di un incubo. Vorresti che atteggiamenti semplici e naturali segnassero ancora il vivere normale di quelle persone e tutto tornasse com’era.
Chiudi e riapri gli occhi più volte … Ma non è così.
Solo il rumore del vento fra le imposte prive di cardini.
Solo il fruscio di una tenda ormai logora.
Solo lo sbattere di un’anta d’armadio.
Solo i tuoi passi.
Ti trovi immerso nella vita degli altri.
Vorresti urlare, scappare, ma il cuore ti tiene lì.
Ti sembra quasi di far violenza.
Più volte gli occhi si velano di lacrime, ma non puoi mollare, non puoi farlo proprio adesso che capisci, che avverti di essere così vicino a tutti loro.
Ti senti impotente davanti a tanta devastazione.
Lui si pone oltre a tutto, lui, il silenzio.
Assoluto, invasivo, lacerante, drammatico.
Mi aggiro fra quartieri con le facciate martoriate e scheletriche. Piante secche sui terrazzi, file di panni stesi scoloriti dal tempo. Su un portone, dietro le schegge dei vetri impolverati, scorgo una donna. La saluto. Con un cenno mi invita ad entrare. Inseguo le sue vesti stracciate che nella penombra stanno quasi scomparendo dalla vista. Prudentemente raggiungo quel che resta dei suoi ricordi, della sua casa natale. Sulla targhetta del campanello appeso ad un cavo elettrico si legge appena Gabri…la San… La donna nasconde il volto nella logora pezza e irrompe in un pianto silenzioso.
Ogni singhiozzo un doloroso pugno in pieno stomaco.
Rimango in silenzio e non ho più la forza di scattare. Scendo in fretta le scale e mi accascio sulle ginocchia.
D’un tratto mi viene incontro un vecchio cane di grossa taglia.
Il suo incedere è lento, la sua pelliccia sporca e trasandata. Capisco subito che non ho niente da temere.
Sento la sua testa che cerca il contatto con le mie dita. Lo accarezzo.
Mi conduce tra le macerie.
Dietro uno scrigno scassato intravedo un bambino. Mi sorride. Gli faccio qualche foto … mi sento come se fossi uno squallido ladro d’anime.
Poco dopo esamino tutte le immagini al computer. Del ragazzino nemmeno l’ombra e neanche della donna.
Ritorno in quel posto la stessa sera. Fuori ha appena smesso di piovere, una lieve foschia aleggia sul luogo. Il bimbo gioca spensierato, con i suoi balocchi. Il pallone contro il muro, la risatina raggiante, la cantilena gioiosa.
Dal secondo piano giunge la voce di donna che chiama Matteo a cenare. Poi, una scossa.
Sento che non devo fare più alcuna ripresa.
Più tardi al bar mi dicono che anche quel cane, come gli uomini di queste parti, ha perso tutto. Anche la carezza di Matteo, il suo fedele amico di cinque anni. Gabriella? Era la sua mamma. E sì, neanche lei, poverina, è sopravvissuta.
Cancello tutte le foto e riparto.
Mi accompagnano gli sguardi della gente che quella notte si era riversata incredula nelle vie e nelle piazze, sperando che anche quella fosse una scossa come tante altre.
Ma quella volta la natura aveva deciso diversamente.
Daniela Karewicz nasce in Polonia. Con l’associazione E.S.S.E.R.E. del suo paese Barberino di Mugello ha frequentato un laboratorio di scrittura creativa, partecipando agli incontri intellettuali del gruppo. Spesso si diletta ad illustrare le proprie composizioni. Segue anche il laboratorio di scrittura creativa interculturale pressi il “Dipartimento di Italianistica”, all’università di Bologna, e fa parte dell’associazione”Delle terre di Giotto e del Beato Angelico”. Suoi lavori sono stati presentati durante vari incontri culturali, ed alcuni pubblicati. Partecipa a concorsi e rassegne letterarie con apprezzabili riconoscimenti. http://poeticamenteparlando.blogspot.it/
Foto in evidenza di Teri Allen-Piccolo.
Foto dell’autrice a cura di Daniela Karewicz.