Le macchine orientali
di Ariel Luppino
trad. Francesco Verde, Gli Eccentrici, Edizioni Arcoiris
1
Il passato
La polizia era venuta ad arrestarmi. Per cosa? Per vampirismo. «Se non vuoi che ti portiamo dentro,» disse il Commissario «devi pagare la cauzione». «Sono a secco» dissi, con voce rassegnata. «Poco male» disse il Commissario. «I soldi te li do io». L’accordo era che gli avrei restituito il prestito col mio stesso sangue, interessi compresi. Prima un barile di quindici litri, poi un altro di trenta… Non avevo la minima idea di quanto sangue potesse esserci in un corpo umano. Nel mio, intanto, si erano prodotti cambiamenti difficili da spiegare. Per esempio: le unghie mi erano cresciute in un modo pazzesco, e avevo canini lunghi come zanne. Cose di questo tipo. Inoltre: non riuscivo più a radermi. E i miei polmoni si contraevano con lo stesso rumore che fa un mantice quando si chiude.
Il mio debito, alla fine, l’avrei saldato così: standomene bloccato una settimana in un sudicio letto d’ospedale, con un milione di piccoli tubi di plastica infilati nelle vene. Dopo di che avrei dovuto soltanto portare pazienza. Aspettare il momento buono per rifarmi con qualche povero cristo, il momento in cui il dovere si sarebbe convertito in piacere. Nel frattempo, avrei continuato ad affilare la mia collezione di coltelli, su una roccia affilatissima, vicina a uno strapiombo.
Certe volte mi prendeva una voglia matta di sbatterci la testa su quella roccia, di fracassarmela contro il bordo. Tutto, pur di non lasciarmi consumare dall’umido di una prigione; tutto, pur di non crepare di tubercolosi: malattia antiquata, disgustosamente anacronistica. Se proprio dovevo, me ne sarei andato a modo mio: con spettacolarità.
Ma già stavo per rifarmi, e di lì a poco qualche povero cristo avrebbe rimpianto d’essere venuto al mondo. Zanne e unghioni servivano a questo.
Sentivo di trovarmi in uno di quei momenti della vita in cui qualcosa di buono, di grande e straordinario, non può non accadere – fondamentalmente perché me la passavo da schifo. Per esempio: parte della cauzione pensavo di pagarla in contanti, senza nemmeno mercanteggiare, però bisognava che prima mi cercassi un lavoro: magari come programmatore, giù al porto. Il Commissario aveva accettato la proposta, ma a una condizione. «Il resto me lo paghi in sangue» aveva detto, carezzandosi i baffi. «O così o così». A quel punto non sapevo cosa fosse peggio.
Sul Commissario mi erano venute all’orecchio un paio di cose: 1) che portava sempre le bretelle, sopra una camicia bianca, e 2) che picchiava la sua donna con un asciugamani bagnato, come nella milonga[1]. Ma giravano altre voci: che costringeva i ragazzi del barrio a rubare per lui, minacciando che se no li avrebbe affogati tutti in un canale di scolo; e che era ipocondriaco o nevrastenico (forse anche paranoico, data la possibilità che io non fossi per niente malato).
Il primo giorno di lavoro fu terribile. Ci mancò poco che neppure mi assumessero: dicevano che avevo un quoziente intellettivo di 130, che ero troppo qualificato, un “genio”… Quando tornai a casa, mia moglie mi disse: «Sembri un pagliaccio», e se ne andò a dormire da sola (dormivamo in camere separate). Era chiaro, la conoscevo fin troppo bene: non le piaceva com’ero vestito. Indossavo una camicia a quadri, pantaloncini e scarpe di vernice. Ero un tifoso del San Lorenzo, una volta. Finché una sera capii che il calcio era tutta una presa per il culo, e decisi di strappare l’abbonamento. Avevo tenuto soltanto i pantaloncini, con lo scudetto bordato.
Per strada, m’imbattei di nuovo nel Commissario. Veniva dalla taverna del Tano Vergalia, con una testa di maiale sotto il braccio.
[1] La toalla mojada, milonga di Edmundo Rivero: in Esencia criolla, album del 1969 [N.d.T.].