Le brigate
di Ariel Luppino
traduzione di Francesco Verde
Collana Gli Eccentrici, Edizioni Arcoiris 2020
Capitolo I
Le brigate ci caricarono sui camion come bestie da macello. All’arrivo, non fecero che mettere un secchio davanti ai nostri piedi; dovevamo: «pelare topi» dissero le loro voci azzurre[1]:
Spellare,
smembrare,
eviscerare,
affondare il coltello,
il sangue caldo tra le dita…
Il primo a mollare, esausto, era sempre il Capitano. Lei ne soffriva: il suo uomo non valeva granché; né contava più niente, trattandosi di un rinnegato. Gli altri detenuti lo chiamavano «merdina», ridevano di lui o gli parlavano alle spalle. Alla fine capii. Volevano aiutarlo, tenerlo lontano dai guai. E come potevano se non così, alla loro maniera, schiacciandolo e impedendogli di rialzare la testa? Erano feccia, bruti, canaglie della peggior specie. Miserabili che di solito, ingoiata la razione di budella, arrivavano a leccarsi avidamente le dita… Là dentro, tuttavia, non lavorare si considerava un crimine imperdonabile: in nessun caso il Capitano l’avrebbe fatta franca. «Il lavoro rende liberi» diceva il Milite a capo del Centro di Detenzione. Quello che comandava tutto e tutti, e che l’aveva preso di mira fin dal primo giorno. Vedeva come un affronto, una specie di offesa personale, che uno dei suoi uomini si fosse rivelato un tale pusillanime. Come se la debolezza del Capitano attentasse alla sua autorità, come se la mancanza di energia dell’altro rappresentasse una forma di resistenza nei suoi confronti. Quando gli passava accanto, lo colpiva alle costole col calcio della Glock. Si divertiva a tormentarlo. A sputargli addosso, a far finta di non conoscerlo, a spianargli in faccia la pistola e premere a vuoto il grilletto. La prima volta la pallottola si era bloccata nella camera di caricamento, ma poi il Milite aveva trasformato l’incidente in un metodo di tortura. E perciò ripeteva la scenetta, continuando a puntarlo (o a sputtanarlo, come dicevano gli altri detenuti).
Noi non potevamo farci niente. All’unico che provò a difenderlo misero la camicia di forza, poi gli incatenarono i piedi e gli fecero passare la notte in isolamento, giù nei sotterranei. Un altro che s’era azzardato a bere sangue di topo lo impalarono davanti a tutti. Le guardie dovettero sgozzarlo perché smettesse di gridare: l’uomo voleva soltanto togliersi la sete, ma loro lo usarono per darci l’esempio, mostrarci che cosa accadeva a chi non rispettava le regole. Grazie alla mia abilità con il coltello, fui presto spostato a capofila, dove potevo godere del fresco che entrava dalla finestra e bere ogni tanto una tazza di mate; ma ero obbligato, per evitare il quita-penas[2], a spiare e a denunciare i compagni. Per il Capitano iniziò allora a mettersi molto male. Io ero implacabile, e quando guardavo nella sua direzione non c’era volta che non lo scoprissi imbambolato, con le mani in mano. Anche gli altri non gliene lasciavano passare una, dandogli contro e caricandolo di botte: non so come facesse a sopportarlo: credo non avesse abbastanza coglioni nemmeno per ammazzarsi.
Il Milite aveva perso la testa per una detenuta, che chiamava ossessivamente «topolina mia». Dicevano che il marito era scampato a un rastrellamento, fuggendo dalla finestra di un albergo a ore. E lei fantasticava che sarebbe venuto a salvarla in groppa a un destriero. Quando le guardie lo portarono agonizzante su una barella, gli si gettò addosso e cominciò a piangere, disperata. Il Milite dovette allontanarla a forza. «Calmati, topolina mia, non è niente» le sussurrò, accarezzandole la schiena. Il moribondo non riusciva a crederci. «Da quando questa bestia ti chiama così?» domandò alla moglie con un filo di voce. Poi non disse più nulla. Lo coprirono con dei fogli di giornale.
Dovevamo anche nutrirli i topi, ingrassarli. Un lavoro che spettava ai più anziani. Li facevano stendere su coperte e sacchi di mais pisingallo, come in un triclinio, e poi liberavano i topi dalle gabbie. I vecchi gli davano il mais direttamente dal palmo della mano, ricavandone un dolce solletichio, e intanto li accarezzavano. Era il loro modo di sopravvivere, chi poteva biasimarli? Io anzi mi rallegravo per quei vecchi: avere un destino infelice era comunque meglio che non averne nessuno.
Ai giovani toccava pulire i pavimenti e raccattare le merde di topo, che parevano palline di polistirolo (inodori, per niente schifose). I più curiosi dicevano che a mangiarle non facevano male, che avevano un buon sapore. Un carrettiere e sua moglie continuavano a lamentarsi perché i loro figli erano stati reclutati proprio per quel lavoro. Allora le guardie afferrarono la donna per i capelli e le diedero una bella ripassata, di quelle che non si dimenticano. Due la sollevarono per le ascelle e la portarono in una stanzetta sul retro, mentre scalciava come un’isterica. Dissero che era malata, la incatenarono a un palo e la stuprarono in cinque. Poi le pisciarono addosso e le spensero sigarette sulla faccia. Il Milite si mise a torturarla con la picana[3]: così, per noia, per ammazzare il tempo, perché non aveva niente di meglio da fare. Non è che ci fosse molta scelta là dentro. Le notti erano lunghe per tutti, guardie e detenuti. Ma la moglie del carrettiere sembrava una donna forte, una con la quale si sarebbe potuto anche divertire. Intuiva un potenziale enorme in quel corpo, e perciò volle spingersi oltre. «A questa tod…cca fare un po’ di rodaggio» annunciò ai soldati: aveva un difetto di pronuncia, che si accentuava quando era su di giri. Il Milite calcolò che la donna poteva sopportare altre scosse, ma quante? due? tre? quindici? Pareva solo una questione statistica, ma parte del divertimento veniva proprio da lì. Ordinò ai suoi soldati di infilarle un sacchetto in testa e di cacciarle un topo nella vagina. Lui si limitò a torturarla ancora, stavolta con un cavo collegato a una batteria. La moglie del carrettiere inarcò la schiena come un gatto, quando ricevette la scarica; allora il Milite le spinse un topo in bocca e aumentò il voltaggio. Il topo cominciò a mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere e mordere fin quasi a mangiarle la lingua. La moglie del carrettiere provò a gridare con tutte le sue forze, ma ahiii!: il topo le serrava la lingua. Tentando di fuggire, le si era incastrato in gola, come una palla di pelo. Il Milite non si sbagliava: quella donna era un osso duro. Con una pinza da cucina le liberò la gola, pizzicandole le corde vocali. Lei ebbe un rigurgito che facilitò le cose. Il Milite le pungolò le gengive, per vedere se i morsi della picana la facessero sanguinare a morte. Ma niente, la donna resisteva a tutto… Quando si stufò, disse ai suoi uomini: «Riportate questa merda nella fogna da cui non sarebbe mai dovuta venire fuori». La trascinarono via, priva di sensi, quasi irriconoscibile. Noi avevamo sentito le sue urla, ma confuse con le altre che sentivamo già da prima.
Davanti a noi il Milite si batteva il frustino sugli stivali, mentre i suoi soldati sputavano per terra. Al carrettiere che lo fissava sprezzante diede un calcio nello stomaco e un pugno alla nuca. Fui sul punto di ribellarmi. Mi pareva un abuso di autorità. Sarebbe bastato ammonirlo, redarguirlo a voce alta. Non c’era bisogno di arrivare a tanto.
I soldati se ne andavano in giro per il Centro con le brache calate, camminando come pinguini e ridendo in un modo da far paura. Ci misero in fila: pensai che stessero per fucilarci, dal primo all’ultimo. Ma le torture non erano ancora finite. Ci rasarono i capelli a zero. Uomini, donne, giovani, vecchi: tutti uguali, tutti la stessa merda: detenuti. Spegnevano le luci, le riaccendevano e riprendevano con le violenze. Ci avevano confiscato i vestiti, e dovevamo tutti indossare un pigiama. Il Capitano sembrava dormire in piedi. Ogni mattina all’alba lo ficcavano sotto la doccia, così che l’acqua gelata lo scuotesse dal torpore. Ma il Capitano non reagiva; credo che con lui la malattia stesse già vincendo.
Puzzavamo come maiali, incrostati di sporcizia e ammucchiati fra quattro pareti d’acciaio. A volte ci trattavano meglio, altre peggio… Nel secondo caso, potevamo essere usati come cavie in qualche esperimento scientifico. E non era uno scherzo. Il Medico ci passava in rassegna con lo stetoscopio appeso al collo, e quando puntava il dito su qualcuno era per condannarlo a morte. Il giuramento d’Ippocrate non valeva in quel merdaio. Potevano fare di noi ciò che volevano.
Chi li avrebbe fermati…?
I topi.
E lei, che dava un senso al non-mondo.
[1] Nel testo originale: «voces azules». Va ricordato che negli anni ’30 l’azzurro fu il colore distintivo di molte organizzazioni fasciste e parafasciste [N.d.T.].
[2] Trafiere, pugnale da combattimento con lama di forma triangolare; usato per dare il colpo di grazia all’avversario morente, e perciò denominato anche “daga della misericordia” [N.d.T.].
[3] Pungolo elettrico. Usata in origine dai gauchos argentini per condurre e disciplinare il bestiame, divenne tristemente famosa, come strumento di tortura, durante il regime militare di Jorge Rafael Videla [N.d.T.].
Testo pubblicato su gentile concessione della casa editrice.
Immagine in evidenza: Camera con Vista, di Nicolai Ciannamea, Fondazione Pino Pascali
ARIEL LUPPINO eccentrico scrittore argentino nato a Monte Grande nel 1985, autore de “Le brigate” (2017), “Las maquinas orientales” (2019) e “¡Paraguayo!” (in uscita il prossimo settembre con Club Hem), è stato definito da Gabriela Cabezón Cámara come una “nuova punta della letteratura argentina” e da Bellatin come un genio segreto della tradizione letteraria latinoamericana.