Lavoro sottopagato e invisibile non solo il caporalato, anche il capitale e la grande distribuzione tra i responsabili dello sfruttamento dei lavoratori
Continuando il nostro commento sul libro di Aboubakar Soumahoro “Umanità in rivolta” ed. Feltrinelli, e sfogliando le tante pagine che lo compongono evidenziamo che l’analisi più che esser limitata alla realtà dei migranti si estende anche alla comprensione di quelli che attualmente sono le forme più evidenti di sfruttamento della manodopera.
Le due filiere importanti sono quella agricola e quella della logistica. La filiera agricola, dai tempi del sindacalista Giuseppe di Vittorio, più volte citato ad esempio nel libro, ha costituito l’ambito privilegiato di svolgimento di lotte di classe e di lotte operaie. Oggi sembra che le rivendicazioni salariali non trovino posto all’interno delle campagne, né in quelle del Foggiano né in quelle della piana di Gioia Tauro. Sono queste le aree in cui Soumahoro è più spesso intervenuto chiamato da amici per sollecitare l’intervento delle autorità o più semplicemente per sostenere movimenti di protesta. E viene descritta con ricchezza di particolari la storia di Paola Clemente la bracciante pugliese di appena quarantanove anni spirata il 13 luglio 2015 mentre si trovava in campagna a raccogliere uva. Paola era partita da casa alle tre di mattina per essere sul posto di lavoro alle cinque e mezzo. L’autobus privato che la portava in campagna percorreva circa 300 chilometri per arrivare a destinazione. Inesistenti le misure di primo soccorso e di pronto intervento a quell’ora in campagna, del tutto impossibile salvare la vita della lavoratrice. Nell’inchiesta che ne seguì sei caporali furono arrestati, e si poté accertare che le braccianti sfruttate percepivano 28-30 euro al giorno per 12 ore di lavoro. Il loro compenso, in base ai contratti di lavoro, avrebbe dovuto essere di 86 euro. Ma sono tante le donne e tanti gli uomini che anziché essere trattati quali titolari di diritti nell’ottica dello scambio tra lavoro e salario, vengono considerati braccia da mandare al macello in nome della massimizzazione dei profitti da parte di chi sta al vertice delle multinazionali del settore agroalimentare. Così è difficile trovare un posto in cui ai lavoratori venga garantita una esistenza libera e dignitosa. E l’elenco dei morti per sfruttamento è sempre incompleto perché ci sono nomi che non avranno mai l’onore della cronaca. A seguito della morte di Paola è stata emanata una legge anti caporalato (legge 199/2016) che in qualche misura è servita come deterrente ad un malcostume, quello dello sfruttamento della manodopera bracciantile, che purtroppo non cessa. In Puglia, durante l’estate 2018 vi sono stati due gravissimi incidenti. In entrambi i casi hanno perso la vita lavoratori sottopagati che si trovavano all’interno di furgoni in transito verso i campi di raccolta. A rileggere con attenzione le notizie e i giornali di quel periodo, è quasi impossibile trovare i nomi delle vittime. I morti sono rimasti anonimi così come spesso invisibili rimangono a tutti i dettagli delle loro vite.
Ma sarebbe limitativo, afferma l’autore, soffermarsi solo sui caporali, quello è solo il fenomeno immediato e visibile che esemplifica il sistema di sfruttamento della forza-lavoro. Lo snodo problematico sta a monte. È difatti il sistema dei prezzi imposto dalle multinazionali che schiaccia i salari dei braccianti. L’Italia, afferma l’autore, è quarto produttore agricolo dell’Unione europea, con un valore totale della produzione di circa 55 miliardi di euro. Se aggiungiamo anche il comparto “bevande e tabacco”, che vale 27 miliardi, il comparto agroalimentare supera i 60 miliardi di valore aggiunto. Le aziende agricole sono circa un milione e mezzo, circa il 10% di quelle che sono collocate all’interno dell’Unione Europea. È un esercito di lavoratori quello che esprime il comparto agricolo che potrebbe contare di più se solo gli aiuti pubblici e comunitari fossero indirizzati in modo equilibrato ai piccoli e medi produttori. Inoltre una grande partita si gioca sui contributi della Politica Agricola Comunitaria (Pac), che in questo ultimo ciclo di programmazione europea (2014-2020) ammontano a circa 41,5 miliardi, a cui si aggiungono 10,5 miliardi di fondi nazionali, con una media annua totale di 7,4 miliardi di fondi pubblici che alimentano il settore agricolo. Questa grande quantità di risorse destinate all’industria agroalimentare e alla produzione intensiva non è distribuita in modo equo tra tutti gli attori del sistema e finisce per rafforzare i grandi produttori a scapito delle piccole aziende. Né tantomeno i contributi dell’Unione sono legati al rispetto dei diritti sindacali dei lavoratori agricoli, impegnati principalmente nella raccolta, nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti della terra (eppure, in media, il reddito degli agricoltori deriva per il 28% dal sostegno delle politiche europee). Infine, e sul salario ha una grandissima rilevanza, vi sono le politiche delle multinazionali, i gruppi oligopolistici dell’industria alimentare, spesso a carattere transnazionale (Ferrero, Lactalis, Barilla ecc.) e dalla Grande Distribuzione Organizzata (gdo). In un sistema globale in cui la finanza impone le scelte ai governi e l’economia reale si limita a fare da sfondo a scontri di vasta portata, sono i grandi gruppi che determinano le politiche dei prezzi e le vite di tutti coloro che contribuiscono allo sviluppo della filiera. Dai contadini/agricoltori ai braccianti/operai agricoli, tutti i protagonisti legati a doppio filo a decisioni prese altrove. Esempio emblematico e recente, quello della lotta dei pastori sardi che hanno preferito versare il latte per strada piuttosto che sottomettersi al ricatto che l’industriale, – il trasformatore- imponeva loro per massimizzare il profitto derivante dalla vendita del formaggio. Nel caso dei pastori sardi il pastore il cui ricavato è quasi nullo, garantisce il profitto agli industriali e alla gdo. Nella catena dell’utile le piccole aziende agricole sono quelle che subiscono maggiormente la pressione da parte della grande distribuzione e dell’industria della trasformazione e della logistica. Non è raro che il prezzo corrisposto al produttore sia inferiore di ben cinque volte rispetto a quello di vendita del bene confezionato ed esposto al pubblico. Così centrare ogni argomento analizzare intorno al fenomeno del caporalato è fuorviante, e distorce la percezione di ogni vicenda relativa allo sfruttamento dei lavoratori – afferma l’autore-.
L’altro settore in cui si realizza un ingiusto sfruttamento di manodopera è quello degli operatori della logistica. Qui Soumahoro narra la storia di Abdel Elsalam un insegnante egiziano che è arrivato a Piacenza ed è divenuto ben presto un referente dell’unione sindacale di base. Abdel Elsalam ha vissuto per anni all’interno di un appartamento a Piacenza, assieme ad una decina di concittadini lavorando duramente nell’indotto della logistica. Nel 2007 ha realizzato il proprio sogno di far giungere in Italia la famiglia composta da moglie e cinque figli. Durante una manifestazione, nella notte tra il 14 e il 15 settembre 2016, Abd è stato travolto da un Tir ed ha perso la vita a soli cinquantatré anni. La magistratura ha individuato l’autista e l’ha rinviato a giudizio per il reato di omicidio stradale, ma i lavoratori che avevano preso parte alle proteste hanno duramente criticato la decisione dei giudici. Difatti l’incidente si è verificato proprio mentre Abdel stava picchettando insieme ad altri aderenti al sindacato SiCobas davanti all’ingresso della GLS corriere espresso, per protestare contro le condizioni di lavoro dei facchini precari. Lui, da “regolare” cercava di sostenere la protesta degli “invisibili” ecco perché è stato assassinato, si evidenzia nello scritto. Come nella vicenda di Paola, anche in quella riguardante Abdel emerge una piramide di sfruttamento operante nel settore Trasporto e Magazzinaggio che impiega in Italia 1.109.533 persone, di cui 125.130 stranieri. Lo sviluppo esponenziale della filiera è determinato dagli acquisti online che nel 2017 sono stati pari a 12,2 miliardi e sono cresciuti del 28% rispetto al 2016. La diffusione di questa nuova modalità di acquisti, che coinvolge anche piccoli centri, con costi umani e inquinamento a livelli impossibili, -poiché si fonda sul trasporto su gomma- deriva da piattaforme gestite da player internazionali a cui fanno capo migliaia di società satellite e piccoli trasportatori. Il modello è simile a quello dell’industria agricola: queste grandi aziende internazionali, al vertice della piramide, si appoggiano a società o consorzi capillarizzati sul territorio impegnati nella distribuzione, che spesso sfruttano la manodopera con condizioni di lavoro che annichiliscono la persona e non garantiscono il rispetto dei diritti più elementari. L’unico strumento che i lavoratori hanno per far sentire le proprie ragioni sono gli scioperi e i picchetti, visto che le aziende spesso rifiutano qualunque tavolo di confronto o disattendono gli accordi. Anche queste aziende come quelle agricole evitano di adottare sistemi di sicurezza e disattendono ogni prevenzione riguardo ad infortuni e malattie professionali. E che dire del fiorentissimo settore delle consegne a domicilio?
Alberto Piscopo Pollini studiava a Bari all’istituto alberghiero e di sera consegnava, come rider, pizze a domicilio. La sera del 1 dicembre 2018, alla guida del suo scooter per una consegna, Alberto è stato investito da un’auto ed ha perso la vita a soli diciannove anni. Si è trattato di un semplice incidente o di un infortunio a causa di lavoro? L’interrogativo non è fuori luogo in quanto, anche in questo settore le tutele sono pressoché inesistenti. Anche quello dei riders non è altro che una forma di “bracciantato digitale e metropolitano” che non trova dignità né adeguata visibilità. I rider operano in situazioni rischiose, affrontano intemperie e traffico e guadagnano somme miserevoli. Il lavoro dei riders può essere raffrontato a quello degli immigrati secondo una definizione coniata da Maurizio Ambrosini che individua cinque P: “pesante, pericoloso, precario, poco pagato e penalizzante socialmente”.
A conclusione del libro la voce del sindacalista si manifesta in tutta la sua imponenza per sottolineare un processo di ricomposizione sociale che abbia come base la classe operaia senza alcuna distinzione geografica, proprio la forza dimenticata da ogni partito di sinistra e ancora a tutt’oggi vittima del neocapitalismo.
“Chi guida la lotta sindacale deve schierarsi, in modo aperto, al fianco delle persone impoverite e rivendicare una indispensabile redistribuzione della ricchezza. Perché una posizione netta ed esplicita su questo tema rappresenta la vera sfida della nostra umanità.”