L’anniversario del malpasso di Sergio Sichenze

12 teschio con rosa

(immagine di copertina: dalla Fotogallery di Francesca Brà e Enrica Luceri)

Il 2022 sarà un anno di significativi anniversari e ricorrenze. Dal centenario di Pasolini allo stragismo mafioso dei giudici Falcone e Borsellino: trent’anni di già! Molti altri saranno i personaggi o gli avvenimenti che verranno ricordati e altrettanti dimenticati: damnatio memoriae? Tutt’altro. Non ci troviamo al cospetto della condanna della memoria, l’arma che il Senato impugnava contro i nemici, tali o presunti, per alienarne il ricordo, semmai si tratta di un lento, talora ahimè repentino, scivolare nella soffitta della Storia di singoli accadimenti e persone, sovente di interi periodi, che nella loro cancellazione trascinano, a mo’ di frana, elementi consistenti che avrebbero dovuto e potuto segnare e orientare le epoche successive, le scelte e gli indirizzi da intraprendere. Si tratta di una forma isterica e schizofrenica collettiva di rimozione del passato, provocata dall’ebbrezza di scorrere su pendii sempre più scoscesi verso un progresso considerato luminoso (talmente luminoso da risultare accecante!), senza valutarne le conseguenze. A rompicollo la specie umana, a bordo di un metaforico automezzo privo di freni, ha imboccato una strada che la proietta in direzione del baratro, incapace di rintracciare gli strumenti per rallentare la corsa vertiginosa. In questo senso viene in soccorso una delle ricorrenze del 2022: un libro pubblicato nel 1972 che gettò la proverbiale pietra nello stagno.

Di cosa si tratta? Un po’ di pazienza. Pochi e sintetici antefatti occorrono per calarci nel clima di cinquant’anni fa.

Dieci anni prima (1962) veniva dato alle stampe Silent spring (Primavera silenziosa)[1], in piena iconizzazione dell’industria statunitense quale rinnovato motore dell’american dream. Il libro fu una denuncia senza mezzi termini dell’impatto provocato dai prodotti chimici sugli ecosistemi agrari nord americani per aumentarne in modo innaturale la produzione. La biologa Rachael Carson, compì un’analisi dettagliata sulle tecniche agronomiche e sugli insetticidi che massicciamente venivano utilizzati, compromettendo il delicato equilibrio bioecologico dei terreni vocati alla coltivazione di specie alimentari, con le inevitabili ripercussioni sull’intera catena ecosistemica e, soprattutto, sulla salute umana. In una delle citazioni poste dalla Carson come epigrafe al suo libro si legge: «Sono pessimista sul genere umano perché esso è troppo ingegnoso per poter essere felice. Il nostro rapporto con la natura consiste nel cercare di sottometterla. Noi avremmo migliori possibilità di sopravvivere se ci adattassimo al nostro pianeta e lo valutassimo in modo più positivo, invece di considerarlo in modo così scettico e dittatoriale (E.B. White)». Nell’incipit del primo capitolo, intitolato “Una favola che può diventare realtà”, si legge: «C’era una volta una città nel cuore dell’America dove tutta la vita sembrava scorrere in armonia con il paesaggio circostante (…). D’improvviso un influsso maligno colpì l’intera zona, ed ogni cosa cominciò a cambiare. La popolazione cadde sotto il potere di una diabolica magia; il pollame fu decimato da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono. Dappertutto aleggiava l’ombra della morte». Pur chiarendo che «una città come questa non esiste, ma la si può ricostruire prendendo come esempio migliaia di località in America e in ogni parte del mondo», la Carson conclude: «Perché tacciono le voci della Primavera in innumerevoli contrade d’America?». Il libro è un’accusa esplicita, documentata e sostenuta da riferimenti scientifici solidi, del modello economico proteso al profitto, della mercificazione di terra, lavoro e denaro e della mercatizzazione globale dei prodotti, incidendo in modo (quasi) irreversibile sulle relazioni umane e di comunità, protese al mero soddisfacimento di bisogni indotti dal mercato, dove la predazione di materie prime e l’alterazione dei sistemi ecologici costituiscono un prezzo insindacabile da corrispondere al simbolico dio denaro, anche se tale comportamento ricade massicciamente sulla salute della specie che lo ha prodotto. In uno dei tanti e significativi passaggi del libro, la Carson mette in guardia sul potere smisurato che l’industria chimica stava assumendo: «Le maggiori industrie chimiche concedono larghe sovvenzioni alle università per ricerche sugli insetticidi; tutto ciò rappresenta naturalmente un’interessante possibilità di borse di studio per i laureandi, e di impiego ben remunerato in un secondo tempo. Invece gli studi sul controllo biologico vengono trascurati per la semplice ragione che non aprono la strada verso i lauti guadagni che l’industria chimica assicura (…). Questa situazione spiega anche un fatto singolare che altrimenti risulterebbe incomprensibile, e cioè la presenza di qualche illustre entomologo nella schiera dei più strenui assertori dei metodi di controllo chimico. Basta indagare un po’ da vicino e si vedrà che l’attività scientifica svolta da costoro è interamente finanziata dall’industria chimica. Ormai il loro prestigio professionale, e perfino la possibilità di continuare a lavorare, dipendono dal prosperare di questi sistemi. Possiamo, dunque, immaginare che essi mordano la mano di chi li nutre? Ma, d’altro canto, sapendo per chi propendono, quale credito dobbiamo dare alle loro assicurazioni sulla “innocuità” degli insetticidi?».

Cambiamo scenario e parliamo di due persone, che trovano, subito dopo il loro primo incontro, affinità sul piano culturale, sulla concezione del mondo e sul modello di sviluppo economico: Aurelio Peccei e Alexander King.

Nel bellissimo saggio di Piccioni e Nebbia[2], si presenta la figura complessa di Peccei (1908 – 1984): «…un alto dirigente Fiat con una storia personale e un profilo decisamente originali (…). Lavoratore indefesso, instancabile tessitore di rapporti umani – per i quali ha una sorprendente facilità – poliglotta e cosmopolita, curioso, costituzionalmente aperto a nuove idee e soluzioni, alla fine degli anni ‘50 Peccei ha deciso di dedicare una parte del suo tempo “alla riflessione sui bisogni e sulle prospettive umane”». E King?  Alexander King (1909-2007), era il direttore generale per la scienza all’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) a Parigi, venne in contatto con Peccei avendo letto alcuni dei suoi numerosi interventi volti a «escogitare forme nuove per attaccare i problemi fondamentali dell’uomo»[3]. Incuriosito e colpito da quelle idee, King «prese contatto con Peccei e dal loro incontro scaturì la scintilla che doveva dare origine, nell’aprile del 1968, al Club di Roma»[4].

Ecco, ci avviciniamo al nostro libro.

Aurelio Peccei e Alexander King avviano una fitta collaborazione, scoprendo moltissime identità di vedute sul periodo storico che attraversano, ponendosi i medesimi interrogativi sul futuro del Pianeta e del ruolo che la dominazione dei mercati globali avrebbe avuto non solo sulle popolazioni, ma sull’intero sistema vivente e no. Un’attività instancabile e congiunta che li porta a organizzare a Roma, il 6 e 7 aprile 1968, presso l’Accademia dei Lincei, un incontro con una trentina di persone per discutere quello che fra di loro già chiamano “the predicament of mankind”. Il gruppo degli invitati era molto eterogeneo, tra i quali Dennis Gabor (premio Nobel per la fisica nel 1971 grazie alla sua invenzione dell’olografia e autore di Inventing the future, 1964) e banchieri come Guido Carli: conclusioni? Un disastro completo! Peccei ricorda: «[chiedemmo di] rivolgere il loro pensiero a questioni indefinite e complesse lontane dai loro interessi».

Peccei non si dette per vinto e dopo il convegno invitò a casa cinque dei partecipanti (King, Jantsch, Saint-Geours, Hugo Thiemann e Max Kohnstamm). Anche King ricorda quel momento: «Eravamo d’accordo di essere stati un po’ ingenui; sapevamo troppo poco di politica internazionale; la nostra presentazione era stata troppo sfavillante e tecnica. Però eravamo più che mai convinti della necessità di esporre in maniera indipendente, a livello internazionale, i problemi globali da noi percepiti. Non eravamo ancora capaci di farlo noi stessi, ma ci mettemmo d’accordo d’approfondire la nostra educazione sui problemi vigenti prima di discuterne di nuovo con un gruppo così sofisticato»[5].

Quella sera a casa di Peccei nacque il Club di Roma che pochi anni dopo, 1972, promosse e consentì la pubblicazione di: The Limits to Growth. A Report for Club of Rome’s Project[6]. Titolo tradotto malamente in italiano come I limiti dello sviluppo: il nostro libro!

Ma come si giunse all’elaborazione di questo testo e quali i suoi presupposti?

Richiamiamo il saggio di Piccioni e Nebbia: «A partire dalla fine del 1968 il nucleo operativo del Club di Roma si è mosso in tre direzioni: l’allargamento del gruppo stesso, lo studio di quella che viene ormai definita la “problematica globale” e – soprattutto – la ricerca del modo di trasmettere efficacemente i risultati delle proprie elaborazioni, sia ai governanti che alle opinioni pubbliche di tutto il mondo».

Ma quali erano le preoccupazioni di Peccei, ben consapevole di cosa avrebbe provocato la pubblicazione del report? «Tutti i mezzi tecnici esistenti dovevano senz’altro essere utilizzati ma, per poter avere un impatto, il messaggio del Club di Roma doveva essere presentato in maniera differente, immaginativa. A mio avviso, doveva colpire la gente come una terapia d’urto»[7].

Il modello utilizzato dalla ricerca fu quello dall’ingegnere americano informatico e scienziato dei sistemi Jay Forrester, la cui elaborazione, a partire dall’estate del 1970, fu curata da un’equipe del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston, ancora oggi una delle più autorevoli istituzioni scientifiche del mondo.

L’indagine prese in esame le variazioni col tempo, nell’intervallo dal 1900 ad un ipotetico anno 2100, di cinque grandezze: popolazione, disponibilità alimentari, produzione industriale, risorse non rinnovabili e inquinamento.

Gli autori giunsero a tre conclusioni principali:

1) se la crescita delle grandezze principali che caratterizzano il mondo, come la popolazione oppure la disponibilità di alimenti, continua al presente livello, si arriverà a dei limiti che se oltrepassati porteranno a un collasso della popolazione e della capacità industriale del mondo;

2) la crescita di questi parametri può però essere modificata, il che permetterebbe all’umanità di arrivare a un equilibrio ecologico ed economico sostenibile nel futuro;

3) se l’umanità decide di percorrere questa seconda strada, più presto si fa questo cambio di rotta, migliori saranno le probabilità di successo.

In modo estremamente sintetico, e forse riduttivo, si può dire che la ricerca concluse che la crescita della popolazione (la cui variazione nel tempo non segue un andamento lineare) produce epidemie, fame, guerre e conflitti.

«Se si vogliono evitare situazioni traumatiche, la soluzione, secondo i Limits to growth nella sua edizione originale come anche nelle varianti scritte a venti e trenta anni di distanza, va cercata in un rallentamento del tasso di crescita della popolazione mondiale, della produzione agricola e industriale e del degrado ambientale, insomma nella decisione di porre dei “limiti alla crescita”, della popolazione e delle merci e nel raggiungimento di una situazione stazionaria»[8].

In un mondo la cui attenzione sul futuro era catalizzata dalla contrapposizione tra i c.d. blocchi, dall’escalation nucleare e dalla corsa agli armamenti, dal predominio sulle risorse (soprattutto quelle petrolifere) quale strategia di geopolitica economica, dal moltiplicarsi dei conflitti (si ricordi ad esempio la ventennale guerra del Vietnam), ecc., la questione ambientale, che si rilevò poi il vero problema globale, non era contemplata quale questione cardine, semmai costituiva un ostacolo nel tragico gioco muscolare del mercato, allo scontro ideologico  e d’influenza politica tra le due c.d. superpotenze, che si misurava anche sul piano dell’industrializzazione e dell’innovazione tecnologica: si misurava sulla crescita!

Il clima di discredito che un certo establishment internazionale creò attorno a The Limits to Growth, rischiò di spegnere la spinta innovativa del Club di Roma, ma, al tempo stesso, la diffusione del libro, tradotto in decine di lingue, fece breccia in una larga parte del mondo che in maniera sempre più consapevole guardava con preoccupazione all’escalation delle problematiche ambientali e a un modello di sviluppo economico fondato sulla predazione delle risorse e sullo sfruttamento indiscriminato del Pianeta, con le inevitabili e drammatiche conseguenze su larghissime fasce di popolazione, soprattutto quelle di Paesi poco industrializzati e con uno scarso livello di democratizzazione delle istituzioni.

The Limits to Growth, segna in modo profondo un’epoca, crea una discontinuità con l’imperativo della crescita illimitata; diviene uno strumento sociale e politico indiscutibilmente efficace.

Aurelio Peccei proseguì, fino alla fine, il suo impegno e il suo infaticabile lavoro. Nel suo libro Cento pagine per l’avvenire, scrive: «Abbiamo strappato alla Natura il segreto della fissione nucleare ma ce ne serviamo soprattutto in catena per fabbricare bombe e missili (…). Produciamo ogni sorta di beni su scale senza precedenti, creando delle strozzature in certe regioni sommerse dall’abbondanza, mentre in altre imperversano i flagelli biblici della carestia e della miseria. Siamo partiti alla conquista del cosmo, dopo quella della Terra, ma non sappiamo neppure come gestire questa ultima.

Questi squilibri e queste contraddizioni sono ancorati nel più profondo di noi (…). L’Homo sapiens non è più quello che era o che immaginavamo che fosse (…) perfettamente inquadrato nel suo ambiente naturale (…) [ci troviamo di fronte] un uomo moderno deformato, che viene distorto dall’ambiente che egli ha capricciosamente trasformato (…).

Se la causa prima e ultima del malpasso in cui ci troviamo è dunque dentro di noi, resta parimenti nelle nostre mani la possibilità di ristabilire il nostro equilibrio interiore e con esso un’armonia feconda nel nostro cantuccio di universo»[9].

È questo il testimone che possiamo e dobbiamo raccogliere.

 

[1] R. Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, 1990.

[2] L. Piccioni, G. Nebbia, I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-74, «I quaderni di Altronovecento», n.1, Fondazione Luigi Micheletti, 2011.

[3] A. Peccei, La qualità umana, Mondadori, 1976.

[4] U. Colombo, Prefazione a Lezioni per il ventunesimo secolo. Scritti di Aurelio Peccei, a cura della Fondazione Aurelio Peccei, Roma 1993.

[5] A. King, Let the cat turn round. One man’s traverse of the twentieth century, CPTM, 2006.

[6] D. Meadows et alii, The Limits to Growth. A Report for Club of Rome’s Project, New York, Universe Book, 1972 (trad. it. Milano 1972).

[7] A. Peccei, La qualità umana, op.cit.

[8] L. Piccioni, G. Nebbia, I limiti dello sviluppo in Italia…, op.cit.

[9] A. Peccei, Cento pagine per l’avvenire, Mondadori, 1981.

Sergio_Sichenze

Sergio Sichenze è nato a Napoli nel 1959. Vive e lavora a Udine. È biologo e naturalista, si occupa di processi educativi per la sostenibilità. Ha pubblicato racconti e raccolte poetiche. Sue poesie compaiono in alcune antologie di poesia. Nel 2018 ha vinto il Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Dal 2019 è membro della giuria Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Fa parte del comitato di redazione della rivista letteraria “Menabò” (Terra d’Ulivi Edizioni) per la quale cura la rubrica “Pi greco”.

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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