Lampedusa, torno a casa / di Giulio Gasperini
L’immagine più sorprendente che quest’anno ho scovato è stata il foglio, scritto a mano, attaccato alla porta a vetri della gelateria. Vito, il proprietario, è l’uomo che per primo soccorse i naufraghi in quella terribile alba del 3 ottobre 2013. Il suo è un silenzioso grido di protesta, una resistenza civile che non ha trovato posto nelle cronache o sui giornali; ma forse proprio per questo ancora più potente e significante. Sul semplice foglio, con un altrettanto semplice pennarello nero: CHIUSI PER LUTTO NAUFRAGIO 3 – OTTOBRE – 2013 LO STATO “ASSENTE” 368 MORTI. Firmato, in basso a destra, Vito Fiorino. Lui ci ha messo il nome, in questa protesta. Come mai altri hanno fatto.
Quest’anno, in questo ennesimo 3 ottobre, il copione è stato il medesimo di sempre: una giornata della memoria che pochi hanno vissuto come tale. Tanti studenti, vociantissimi e irrispettosamente sguaiati; un presidente del Senato e una ministra dell’Istruzione che hanno commentato con parole vuote e prive di dignità uno tra gli eventi più funesti degli ultimi anni, appartenenti a quello stesso partito che, con Minniti, si rende sempre più colpevole e mandante morale di stupri, violenze, omicidi, sofferenze e violazioni di diritti umani. Da Piazza Castello alla Porta d’Europa c’è tempo di camminare e ci sarebbe anche quello di pensare se gli studenti non pensassero di essere in gita scolastica: nessun rispetto di chi, adesso, non ha più voce. E alla Porta d’Europa c’è lo stesso schieramento di politici vuoti, con un solo cane – un cane di Lampedusa – che orgogliosamente non se ne vuole scendere dal palco naturale e se ne sta lì, accanto a Grasso, come a sottolineare che la casa è la sua, e che gli altri sono tutti ospiti. Soltanto il Vescovo di Agrigento ha l’assennatezza di dire a gran voce come stanno le cose: “Non possiamo più contare il tempo contando i morti”.
E, da quel 3 ottobre di anni fa, la cadenza non ha mai smesso di essere macabra, travalicando persino gli stretti confini temporali del passato prossimo recente. “Il nostro è un futuro che continua il passato”, e i politici si guardano attorno, forse assolvendosi nel dire che noi-non-c’eravamo, comandavano-altri. L’Italia è il paese dell’autoassoluzione: nessuno più si assume responsabilità. “La storia ha sempre fatto cadere muri e reticolati”: evidente, per il Vescovo; com’è evidente per chiunque abbia lungimiranza e non interessi elettorali. Da qui bisognerebbe ripartire – ma ogni volta lo si dice e non si riparte mai: il dolore sta in questa presa di posizione. Gli stessi discorsi, da sempre; le stesse mancate soluzioni, da sempre. Al Vescovo di Agrigento ci siamo avvicinati, presentandoci. Gli abbiamo voluto riconoscere il merito della parola. Salutandoci, ci ha raccomandato: “Rimanete giovani!”. Ed è stato il commento più prezioso di tutta la giornata. La sera, un concerto inopportuno, castigato dalla pioggia.
Nessuno di loro – di chi ha partecipato al 3 ottobre – è stato forse al cimitero. Di sicuro, non i politici. In quel cimitero dove riposano – forse, semplicemente, giacciono – i corpi senza nome di alcune vittime del 3 ottobre, ma anche di anni precedenti. Dal 1999. Tanti anni, contati sui morti, appunto. Sulla terra delle vittime del 3 ottobre qualcheduno ha posato delle barchette gialle, di carta. Alcune sono appoggiate alle croci. Alcune il vento le ha portate via, e giacciono abbandonate, di fianco, nella terra: esattamente come le loro omologhe di legno, nel mare. Un gesto dolce, che ricorda le gru di Sadako Sasaki: un gesto a voler scongiurare l’affronto maggiore della morte, che è il franare della memoria, l’oblio del ricordo. Le croci sono semplici, di legno grezzo, ma colorato squillante. Ci sono piante, fiori, il cielo è incredibilmente azzurro. In questo luogo ci stanno tutti, musulmani e cristiani vecchi e giovani bianchi e neri; perché Lampedusa lo sa che se in vita le differenze non dovrebbero esserci nella morte non hanno proprio senso. Qualcheduno ha posto, nell’angolo, come fosse la prua di una nave, una piccola stele di marmo, con sopra due versi di Cesare Pevese: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”. Di poesia, ce n’è ancora al cimitero di Lampedusa. All’ingresso, c’è Emily Dickinson, a ricordarci di come commuoversi vuol dire compartir le sofferenze altrui: “Provare lutto per la morte di chi / non abbiamo mai visto / implica una parentela vitale / fra l’anima loro – e la nostra / per uno sconosciuto – gli sconosciuti non piangono”. Ma nel cimitero ci sono tante altre storie, tanti altri corpi che, raccolti, qui hanno trovato una terra che li ha inghiottiti. Ci sono corpi senza nome, come quelli del primo agosto 2011, con la data scritta con la bomboletta spray, assieme ai morti recuperati l’8 maggio 2011. Il Comune di Lampedusa si è assunto l’incarico di scrivere dei pannelli per raccontare la loro storia. O quei brevi frammenti ricostruibili. Poi ci sono alcuni nomi: Eze Chidi, nato in Niger nel 1973, è stato ritrovato senza vita nel 2009, su un’imbarcazione che cercava di raggiungere l’Europa. Oppure Ester Ada, nata nel 1991: aveva 18 anni quando è morta, il suo cadavere ostaggio della burocrazia marittima, per giorni un lungo braccio di ferro tra Italia e Malta su chi dovesse accogliere il mercantile su cui viaggiavano. A lei non importava oramai più quale terra fosse l’ultima.
Sono tante le storie che si incontrano a Lampedusa. È una terra ricca di narrazioni. Su di tutti, il signor Nino dell’Archivio Storico ne è un esperto. E le racconta con la voglia di chi conosce appieno l’importanza della condivisione. Conosce storie della sua isola, il signor Nino. Quell’isola così piccola ma così fondamentale, geograficamente, per le sorti dell’intero Mediterraneo: un’isola che, della sua posizione, ne ha fatto uno strumento di forza. Sta sempre all’Archivio, il signor Nino, tutto il giorno fino a notte. Non sembra mai disturbato dalle domande delle persone che entrano. Risponde, sempre, con gentilezza e competenza; dialoga, parla. Mette a disposizione degli altri la sua conoscenza. E gli altri se ne arricchiscono. Come tutti quei richiedenti asilo che hanno trovato nel signor Nino e nell’Archivio forse il primo vero e proprio porto tranquillo nel loro dissestato viaggio della speranza. Il signor Nino ha accolto e insegnato le prime parole, perché tutti potessero essere pronti a ripartirle, un po’ più consapevoli di sé stessi e di quello che li aveva cominciati a circondare. Perché è terribile non sapere più se i tuoi amici il giorno dopo ci saranno, e così ogni volta diventa quella più importante.
Don Carmelo è parroco di Lampedusa da circa un anno. È un uomo altissimo e grande, rosso di capelli e di barba. Ha l’aspetto di un uomo accogliente. Ci riceve nella canonia della Parrocchia di San Gerardo e dopo un po’ di presentazioni ci conduce a vedere un recente dono fatto all’isola da Papa Francesco: si tratta del Cristo del Mediterraneo, un’opera enorme, grandissima, realizzata con remi di pescatori e naviganti isolani, simbolo del rapporto tra uomo e onde, del legame tra umanità e acquaticità. Le frontiere marine si trovano anche altrove, nel mondo; uomini muoiono comunque in altri mari. Ma forse nessun luogo come Lampedusa è così opportuno da cui dedicare al mondo uno sguardo di rimprovero, attraverso l’iconografia della religione.
Per caso, come sempre avvengono gli incontri migliori, ci imbattiamo nella Biblioteca aperta. Oggi non sarebbe dovuta aprire, non è il giorno giusto. Ma, ci spiegano, a Lampedusa ci sono dei volontari e allora, eccola qua, finalmente… la biblioteca pensata per tutti i bambini del mondo. Pensato anche, e soprattutto, coi silent books, ovvero i libri senza parole ma solo con le immagini. Così da poter esser “letti” da tutti, proprio perché le parole possono essere immaginate, inventate, senza paura di sbagliare, senza l’ostacolo di non capire, senza l’orrore di non esser capiti. È un’isola nell’isola, la Biblioteca; un luogo di magie che ha saputo sopravvivere ai disagi e agli ostacoli burocratici di chi, chissà perché, non la voleva aperta. Adesso Paola La Rosa se ne occupa con una passione contagiosa, coinvolgendo grandi e piccoli nella scoperta delle immagini, delle parole, dei colori, dei messaggi che sono universali e che non conoscono frontiere geografiche. È un luogo della frontiera culturale, dove ogni ansia di comunicare trova un rifugio e una via di esaltazione.
Anche quest’anno, si va alla scoperta di Askavusa, il collettivo che, coraggiosamente, si impegna in mille battaglie per la collettività e per l’alterità. Quest’anno, altra sede, una completamente nuova. Un Porto M – dove M sta per migrazioni, migranti, movimento, memoria e altro – che non è più solo museo degli oggetti dei migranti, recuperati dai coraggiosi volontari di Askavusa dalle navi di ogni tempo e ogni provenienza, ma anche luogo di incontri e canto, di narrazioni e recupero memoriale: come quello che ci ha dedicato, in un live intenso e graffiante, Giacomo Sferlazzo, autore dell’emblematica Nostra Signora delle Coperte Isotermiche, troneggiante nello spazio della grotta che è la sede di Porto M, rifiutata da molti musei per il suo carico simbolico fortemente sovversivo e civilmente accusatore. Il suo spettacolo Lampemusa, che da tempo porta in tournée per tutt’Italia e oltre, diventa la narrazione di un’isola che squaderna tutto il suo intenso patrimonio umano e sociale, storico e comunitario. Dalla storia della levatrice contesa tra Lampedusa e Linosa dove, finalmente, si riusciva a far nascere i bambini senza ucciderli; alla storia di chi torna dopo anni di assenza e, un po’ come il ragazzo della via Gluck, non riconosce più nulla di quelli che furono i suoi orizzonti isolani; dal coraggio di gridare “Io non ho paura” per le novità che le persone d’oltremare portano con sé al recupero delle canzoni corsare e dei sovversivi anarchici che sull’isola venivano spediti in un crudele confino, lo stesso che – sovente – si era tentato istituzionalmente di riservare ai migranti. Lampedusa è anche questo: canto, voce, narrazione, suono. Come il suono splendido delle cavazze che assecondano i fiati di vento, salendo e scendendo tra cielo e mare, sospesi tra due azzurrità che, in lontananza, si confondono e si miscelano.
L’ospedale delle tartarughe è sempre una meta fissa dei viaggi a Lampedusa. Anche perché, ogni volta è sempre più bello, più colorato, più funzionale e meglio strutturato. Le ospiti del centro si trovano nelle loro solite vasche, nessuno può chiaramente toccarle e tutte portano su di loro i segni della violenza dell’uomo. Perché in ogni caso si tratta di questo: plastica abbandonata, oggetti che ingoiano, ami che le sventrano, eliche di motoscafi che spaccano i loro carapaci. L’arroganza dell’uomo qua è palese, evidente, sconfinatamente rabbiosa. Tutti sono volontari, qua dentro; in questa Stazione marittima che alcuni lampedusani vorrebbero sottrarre al WWF per farla tornare – o, forse, per farla diventare come prima volta – la stazione per i battelli. Ma il centro delle tartarughe qua sta confortevole, al di là di ogni aspetto burocratico e legale. Le sue ospiti sono accolte e curate. Anche per le tartarughe – così come per me – Lampedusa conosce l’unica cura.
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foto a cura di Giulio Gasperini