“L’alba vindice appar” analisi di due poesie di Tesfalidet Tesfom, detto Segen – di Giulio Gasperini

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“L’alba vindice appar”

Che cosa portereste, voi, se doveste partire per un viaggio disperato, ma che è origine di tutte le speranze? Quali oggetti – ché gli oggetti sono certezza e memoria – pensereste di mettervi nelle tasche, sulle spalle, dentro le scarpe? Tesfalidet Tesfom aveva con sé, nel suo portafogli asciutto, come il suo corpo, due poesie. Tutta qua la sua memoria, il suo bagaglio di certezze: tutto perso, abbandonato, rapinato; tranne quel foglio, piegato fino allo sfinimento, intriso di sale, di vento, di sabbia, impregnato di un dolore sordo, ma tangibile, compatto come un pugno in pieno viso. Due poesie perfette, prive di cancellature, chissà se scritte così – ineccepibili come il manoscritto de “L’Infinito” di Leopardi – o se frutto di un lavorio da cesello. Quello che sappiamo è che lui, quelle poesie, se l’era scritte su un foglio dal quale non si è mai separato, fino alle coste italiane che sono state il suo ultimo orizzonte, impastato alle zolle di terra di un cimitero di Modica. Tesfalidet è stato recuperato, il 12 marzo 2018, dalla ONG spagnola Open Arms mentre affrontava il Mar Mediterraneo, mare di contatti e confronti, e oggi militarizzato e funesto, su un’imbarcazione per raggiungere un ignoto futuro. Aveva con sé 35 chili di carne e pelle, attaccati alle ossa, e le sue due poesie. È morto in ospedale, Tesfalidet, logorato dalla fatica, dalle torture, dal digiuno forzato, dalla crudeltà umana; ma con un messaggio di una potenza devastante.

La prima poesia è una requisitoria spiazzante e incalzante, che non lascia spazio a nessun alibi: “Non ti allarmare, fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello?”. Ha un preciso destinatario, questa reprimenda: il “tu” dell’alterità, sicché ogni nostro volto, ogni nostra identità, chiunque e dovunque siamo. Siamo tutti interpellati rispetto al nostro disinteresse, alla nostra indifferenza. Al binario 21 della Stazione Centrale di Milano, dal quale partivano i treni diretti nei campi di sterminio nazisti, su una enorme parete bianca, Liliana Segre ha chiesto – e combattuto – che proprio questa parola fosse incisa, non come atto di accusa, ma come monito sempiterno: INDIFFERENZA. È quella, infatti, che ha autorizzato i peggiori crimini contro l’umanità: il nostro tentativo di non assumerci responsabilità e di tirarci nell’ombra dell’ignavia. Neanche quello di Tesfalidet sembra un atto di accusa; ha piuttosto il sapore di un’incredulità senza spiegazione, di un attonimento che inibisce i sensi e la ragione. “È davvero così bello vivere da soli, / se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?”. E affonda, Tesfalidet, affonda come una lama chirurgica, nel nostro egoismo di oggetti assordanti e asfissianti, inutili; che ci fanno dimenticare l’incontro con l’altro, la simpatia e la compassione, il contatto e la condivisione. Sono domande che ci inquietano perché insidiano le nostre fragilità dissimulate, il nostro ipocrita perbenismo: “Saresti stato così crudele se fossimo stati figli dello stesso sangue?”. Chiede aiuto, Tesfalidet – quelle “chiamate vuote” che non hanno risposta, che cadono nel silenzio gelido di chi è indifferente, appunto. Come la Pia dantesca, Tesfalidet chiede che di lui ci si ricordi, che lo si cerchi in quella vita che “con i suoi problemi provvisori / mi pesa troppo”: “Ti prego aiutami / perché non chiedi notizie di me, non sono forse tuo fratello?”. Le domande, pur sempre le stesse, sono incalzanti, pressanti, urgenti come il tempo che “vola con i suoi rimpianti”. Tesfalidet conosce la sua condizione, straziante, feroce – quella condizione che a noi spaventa, nei migranti, perché ci riapre ferite vulnerabili, mai sanate: “Ora non ho nulla / perché in questa vita nulla ho trovato”. Ma Tesfalidet non ha neanche rancore, con sé, nessun risentimento. E lo scrive, orgoglioso, nel modo più disadorno e leggero possibile: “Io non ti odio”. L’odio non aggredisce il suo animo, non alimenta una reazione violenta, cieca, ma squaderna lo sguardo su un orizzonte di pace, oltre quell’indifferenza che morde e squarta: “Io e te fratello ne usciremo vittoriosi”.

Nella seconda, lo sguardo e il respiro si alzano. Dal confronto con il vicino, con il prossimo, Tesfalidet si appella al Tempo, che così tanto segna la nostra storia, anche quotidiana. Tesfalidet non ha paura di parlare direttamente, di interrogare con pressante rigore. “Senza stancarti mi rendi forte, / mi insegni il coraggio, / quante salite e discese abbiamo affrontato / hai conquistato la vittoria, / ne hai fatto un capolavoro”. Nulla insegna come il Tempo, quell’a priori che da sempre tentiamo, illudendoci, di domare e che da sempre ci tiranneggia furioso. È il Tempo che ci dice chi siamo, qual è l’identità che ci siamo plasmati, e sarà il Tempo a dar ragione alle scelte, in una dicotomia che impedisce di non scegliere, di non agire; non c’è spazio, né dignità, per l’accidia: “Sei come un libro, l’archivio infinito del passato / solo tu dirai chi aveva ragione e chi torto / perché conosci i caratteri di ognuno / chi sono i furbi, chi trama alle tue spalle / chi cerca una scusa”. L’umanità è feroce, Tesfalidet ci dice, e l’accusa, deciso, davanti al Tempo sovrano; biasima soprattutto coloro che alzano la voce per conquistare un’effimera ragione: “Si considerano superiori, fanno finta di non sentire / gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo. / Quando ti avvicini per chiedere aiuto / non ottieni nulla da loro / non provano neanche un minimo dispiacere”. Ma anche nella seconda poesia, Tesfalidet dimostra di essere sapiente, sagace. Come Mario Cavaradossi, che nel III atto della Tosca di Puccini, all’annuncio della disfatta di Marengo, esplode in un grido liberatorio, in un urlo di ribellione che supera i dolori delle torture e delle sevizie subite e diventa monito, profezia tellurica (“Vittoria! Vittoria! / L’alba vindice appar / che fa gli empi tremar / Libertà sorge, crollan tirannidi! / Del sofferto martir / me vedrai qui gioir / il tuo cuore trema, o Scarpia, carnefice!”) così Tesfalidet lancia a noi, lettori di oggi, una profezia altrettanto destabilizzante, di potente consapevolezza, che ci lascia per un attimo col cuore in sospeso e il respiro mozzato: “Ciao ciao / Vittoria agli oppressi”.

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Giulio Gasperini. Laureatosi nel 2010 in Italianistica, oggi è redattore del settimanale on-line di libri e editoria Chronicalibri.it. Attivo nel comitato della Dante di Grosseto. Autore di poesie, ha pubblicato tre sillogi: Dedicate, Schegge di mandala (2006) e Patologia (2010) prima della sua più reccente Migrando (2014). Ha da sempre la passione dei viaggi, che lo ha portato in varie zone del globo, dalla Bolivia al Kenya, ma è profondamente affezionato alla sua terra natia e al suo paesino, Caldana, nella Maremma toscana. Attualmente vive ad Aosta, dove lavora nel sociale e nell’immigrazione. per approfondire il rapporto tra il poeta e l’impegno sociale vedere questa intervista

Foto dell’autore a cura di Giulio Gamberini.

Immagine in evidenza: Foto di Tracy Allen.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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