L’agenda del traduttore: con El Habib Louai (a cura di Sana Darghmouni)

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Foto dalla fotogallery di Nicoletta Lofoco.

Articolo comparso in data 08 marzo 2021 su: www.alaraby.co.uk

 

Come è cominciata la tua storia con la traduzione?

La mia storia con la traduzione è cominciata quando ho iniziato ad apprezzare i capolavori della letteratura mondiale che ho letto e che hanno influenzato e ispirato la mia vita personale. Allora ho intrapreso il compito di tradurre alcuni di questi capolavori letterari per condividerne la sensazione unica, simile ad una sorta di nirvana, con un lettore virtuale che, a causa della barriera linguistica, non può godere di un’esperienza creativa che si tuffa nella profondità dell’esistenza umana.

Qual è l’ultima traduzione che hai pubblicato e cosa stai traducendo ora?

L’ultima traduzione che ho realizzato è il libro “La vecchia pioggia”, una raccolta poetica del poeta afroamericano Bob Kaufman, pubblicata dalla casa editrice “Dar al-Rafidayn”. È stata un’esperienza unica perché Kaufman non è un poeta la cui poesia, caratterizzata dalle strane immagini, espressioni surreali e ritmo, è facile da tradurre in arabo. È stata un’esperienza importante per me, perché mi ha permesso di vedere un discorso diverso che deride, manipola e decostruisce la lingua stessa, una caratteristica di Kaufman al quale piaceva formulare il proprio vocabolario come ha fatto in “isolamento pieno di solitudine”.

Avevo già fatto anche alcune traduzioni del poeta americano Michael Rothenberg “Reclusione a tempo indeterminato” (Dar Arwiqa). È stata un’esperienza importante, perché la sua poesia unisce la parola di uso comune all’ironia di alcuni scrittori della “Beat Generation” (un movimento apparso negli anni ’50 negli Stati Uniti, guidato da scrittori contro l’istituzione e i valori del capitalismo, che invitano ad un rinnovamento della poesia – nota dell’editore), artisti del calibro di Philip Whalen e Joanne Kyger. Oltre all’antologia “America America: un’antologia della poesia della Beat Generation”, completata due anni fa e che include selezioni dalle mie letture di varie raccolte di scrittori della Beat Generation, pubblicata da “Dar Arwiqa”.

Adesso sto traducendo i romanzi “Tristessa” e “I vagabondi del Dharma” di Jack Kerouac, oltre agli scritti autobiografici di Kerouac e di Antonio Gramsci, in base a scelte personali che hanno a che fare con gli scrittori che mi hanno influenzato per le loro esperienze uniche nella vita, per il loro impegno e fede nel cambiamento. Quegli scrittori che mi hanno ispirato con la bellezza del loro lavoro e pensiero che invita alla differenza, all’apertura all’altro a all’esplorazione di altre geografie per offrire la libertà a tutte le componenti della società.

 

Quali sono, secondo te, i principali ostacoli che deve affrontare il traduttore arabo?

Il primo ostacolo riguarda la difficoltà di trovare un editore interessato a pubblicare una letteratura tradotta diversa dalla solita che circola nel mercato. La maggior parte degli editori è alla ricerca di traduzioni di eminenti scrittori stranieri, scrittori che hanno raggiunto fama internazionale con numerose vendite e vinto premi famosi, o i cui libri sono stati convertiti in film che hanno ottenuto tante visioni. Mi sembra che l’editore arabo oggi si pieghi spesso ai dettami dell’economia di mercato, perché spera di realizzare profitti con le vendite. Così, purtroppo, il capitale intellettuale e culturale diventa una merce il cui valore e prezzo sono determinati da una domanda di mercato che non aderisce all’etica della creatività e non rispetta il traduttore.

In secondo luogo, c’è un grosso ostacolo legato al mantenimento dei diritti del traduttore; alcuni editori non pagano i compensi della traduzione e non si impegnano a specificare il numero di copie stampate e disponibili sul mercato. La maggior parte dei termini dei loro contratti sono ingiusti nei confronti del traduttore, che alla fine è costretto ad accettare ciò che la coscienza dell’editore gli detta, perché vuole solo vedere il suo libro disponibile sul mercato e condividere il piacere della lettura con un lettore virtuale con cui spartire gli stessi orizzonti di attesa. C’è un altro ostacolo legato alla mancanza di premi incentivanti sufficienti assegnati specificamente al traduttore, o in condivisione con l’autore, che possono premiare o compensare il traduttore per lo sforzo e il tempo che ha dedicato alla traduzione di un’opera in arabo o in altre lingue, come riconoscimento o menzione del suo impegno come attivista culturale.

Si dice che il traduttore arabo non riconosca il ruolo dell’editor, c’è qualcuno che fa editing alle tue traduzioni dopo averle completate?

Sì, discuto personalmente e presento le mie traduzioni a scrittori, traduttori, poeti e professori specializzati nel settore. Consulto anche l’autore stesso quando trovo alcune espressioni o terminologie ambigue. Inoltre, comunico personalmente con editor di case editrici straniere (ad esempio “New Directions” e “City Lights”) e amici di alcuni scrittori ancora vivi, come, ad esempio, quando ho contattato l’editore di Bob Kaufman, l’amico Raymond Foy e l’amico Michael Rothenberg, quando si è trattato delle traduzioni di Philip Whalen. A volte comunico con alcuni membri della famiglia di scrittori con cui lavoro o li visito, come è successo quando ho visitato Amina Baraka, la moglie del grande poeta Amiri Baraka, a Newark, nel New Jersey, chiedendole alcuni dettagli della loro vita e della loro relazione con la “Beat Generation” e il “movimento dell’arte nera”.

Qual è il tuo rapporto con l’editore, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei titoli tradotti?

Il mio rapporto con l’editore è basato sul rispetto reciproco ed è regolato da una comunicazione costruttiva durante le fasi di traduzione e preparazione del lavoro per la pubblicazione. A volte, suggerisco due titoli di opere che ho amato e che mi hanno influenzato personalmente. Queste opere, che siano intellettuali o di fantasia, si distinguono per il fatto di portare una filosofia di vita e incarnare uno stile di vita che merita di essere adottato da ogni lettore aspirante a conoscere sé stesso e l’altro e alla ricerca di raggiungere un cambiamento positivo di una triste condizione umana. Altre volte l’editore mi propone opere da tradurre che accetto se concordano con le mie inclinazioni e aspirazioni e con i miei principi personali che vedono la letteratura e l’arte in generale come patto e mezzo di cambiamento e sensibilizzazione delle persone.

 

Ci sono considerazioni politiche nella tua scelta delle opere da tradurre e fino a che punto ti fermi sulle implicazioni politiche del materiale tradotto o sulle posizioni politiche dello scrittore?

Credo che ogni opera letteraria o artistica che nasce da un’idea o da un principio abbia una ragione di uscire all’esistenza che pensa alla sua essenza cercando di capirla, e quindi di cambiarla dal peggio al meglio. Pertanto, è impossibile che le considerazioni politiche non siano presenti nella scrittura e nella traduzione, almeno è così che considero la questione dal mio punto di vista. Non voglio parlare della presenza di una sorta di ideologia radicata in ogni tentativo di creatività e traduzione, ma piuttosto della presenza di una preoccupazione per la condizione umana che non può essere trascurata da nessun traduttore consapevole del suo ruolo di portatore di un’esperienza umana ideale. Spesso tendo a tradurre opere letterarie e artistiche impegnate che cercano di invertire gli equilibri della cultura e del pensiero prevalenti in una società impegnata in problematiche sterili.

 

Com’è il tuo rapporto con lo scrittore che traduci?

Nella maggior parte dei casi si tratta di un rapporto di reciproca intima amicizia e condivisione del fardello esistenziale, per questo l’atto di traduzione è spesso preceduto da un atto di comunicazione che trascende luoghi e tempi in cui sveliamo segreti, altre volte, si trasforma in una discussione acuta delle problematiche e dei fallimenti che dobbiamo affrontare, seguita dalla visione di un’alternativa attraverso l’operazione creativa e la traduzione.

 

Il traduttore arabo è spesso uno scrittore, proprietario di una produzione o di uno stile nella sua traduzione, qual è il rapporto tra lo scrittore e il traduttore dentro di te?

Come ho già accennato, tendo a tradurre scrittori con i quali condivido sensibilità estetiche, una filosofia di esistenza e uno stile di vita basato su principi umani che richiedono fede nella differenza e diffusione della consapevolezza attraverso la letteratura e le arti. Per forza, sono influenzato dallo stile di coloro che traduco – per esempio, il mio primo e secondo libro in lingua inglese mostrano una notevole influenza dello stile della “Beat Generation” e sono impregnati di argomenti legati alla sua filosofia. Quando l’individuo crede nell’opera e condivide le stesse preoccupazioni esistenziali con lo scrittore o il gruppo, allora si crea necessariamente armonia e concordanza nell’io interiore tra lo scrittore e il traduttore.

 

Come vede i premi per la traduzione araba nonostante la loro scarsità?

Sono pochissimi e insufficienti, e non so molto di loro, ma spero che ai traduttori si presentino opportunità di residenza artistica e che i loro sforzi possano essere coronati da un piccolo riconoscimento che consente loro di acquistare altri libri da tradurre.

 

La traduzione in arabo è per lo più un progetto di traduttori individuali. Come vedi i progetti di traduzione istituzionale e cosa manca secondo te?

Non ho informazioni sulla traduzione istituzionale, in quanto non ho lavorato con nessuna istituzione che si occupa di traduzione. Spero che i diritti del traduttore siano rispettati e che lo si ricompensi per i suoi sforzi.

 

Quali sono i principi o le regole che segui come traduttore? Hai abitudini di traduzione specifiche?

Nessuno oggi può sfuggire allo stereotipo che vede la traduzione come tradimento, una descrizione spesso associata a specifiche intenzioni ideologiche lontane dalla nobiltà e dalla sublimità della letteratura, dell’arte e della scrittura creativa. La traduzione, per me, mira principalmente a realizzare l’armonia tra le sensibilità estetiche del traduttore, dello scrittore e del destinatario allo stesso tempo. Pertanto, non tendo a tradurre alcun testo in prosa o poetico fino a quando non sento che presenti una caratteristica universale e una sensibilità estetica sublime che possa essere rivelata e condivisa con gruppi di lettori in grado di interagire con esso e far sbocciare un senso condiviso dell’intreccio degli orizzonti di attesa.

In questo senso, l’atto di traduzione per me, soprattutto quando si tratta di poesia, aspira sempre a diventare una creazione impegnata e creativa, suscitando un desiderio umano sottostante di cambiare la condizione umana. La traduzione diventa così un atto esistenziale, o meglio una questione di sopravvivenza da una prospettiva decostruttiva, se vogliamo prendere in prestito la parola survie da Derrida per denotare la sopravvivenza dell’individuo dopo un disastro e la responsabilità che ha nell’espressione e nel discorso attraverso le sue opere che rimangono per sempre dopo la sua morte attraverso traduzione, dando al creatore una vita in più, una sur-vie in cui la sua esistenza si estende attraverso il lavoro creativo che alla fine trascende il suo autore.

Spesso vengono poste domande relative ad argomenti teorici che ruotano attorno alla possibilità o impossibilità di tradurre poesia nella sua relazione con la dialettica di concentramento sulla forma o sul contenuto, ma non li affronterò in questo contesto. Quello che mi preoccupa in primo luogo è l’impegno emotivo che lega il traduttore al testo tradotto quando il traduttore si impegna a tradurre una poesia specifica attraverso la quale condivide valori, principi, sentimenti e aspirazioni umani comuni. Sebbene non si possa negare che tradurre un’opera letteraria è spesso frustrante, perché il traduttore non può mai ricreare il testo originale in tutta la sua grandezza, a causa della natura delle lingue umane che non condividono gli stessi “simboli” e “suoni linguistici”. “E” modelli di intenzionalità “.

Sono più propenso a condividere la visione di Walter Benjamin, il quale sostiene che la traduzione non riguarda il “perdere” qualcosa; al contrario, è un mezzo per “guadagnare” qualcosa creando un testo che non sarà una copia sbiadita dell’originale, ma avrà la capacità di “coordinare” intenzioni originariamente contrastanti spostando la lingua di traduzione per rilasciare un linguaggio “più grande “. Nonostante i tentativi del traduttore di padroneggiare il suo lavoro, la traduzione rimane, secondo Benjamin, qualcosa di temporaneo perché “nella sua vita escatologica […] l’originale è soggetto a cambiamenti. Anche le parole con un significato fisso possono subire un processo di maturazione “. Nel frattempo,” c’è anche un cambiamento nella lingua madre del traduttore “. Pertanto,” ciò che poteva sembrare contemporanea una volta può sembrare penetrata (superata forse meglio) nel futuro “.

 

Un libro o un testo di cui ti sei pentito di aver tradotto e perché?

Finora non ho rimpianto la traduzione di alcun testo e spero che non accada in futuro.

 

Cosa desideri per la traduzione in arabo e qual è il tuo sogno come traduttore?

Mi auguro che il traduttore abbia le condizioni ideali che gli consentano di praticare l’atto di traduzione in un’atmosfera democratica in cui prevale il rispetto della dignità personale e che salvaguardi i suoi diritti. Spero anche che le istituzioni responsabili del lavoro culturale e della mobilità culturale e artistica all’interno e all’esterno del Paese creino risorse e opportunità che incoraggino la traduzione e la facciano tra le priorità delle loro politiche e dei loro piani.

 

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Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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