“Premo la fronte contro la vetrina
E scruto l’oscurità…
E non c’è niente per me lì da cercare.
…vedi dei cadaveri che galleggiano a valle…
Sii spaventato, fratello. Io lo sono.”
Nel corso degli ultimi anni, ho lavorato da vicino con le parole di Fawzi Karim poiché ho adattato dei suoi scritti in un ciclo per voce e orchestra. Il mondo di Karim è straordinario e inquietante; un paesaggio di empatia, bellezza e spesso di orrore indicibile.
Recentemente, questa figura eccezionale era diventata una parte ancora più importante della mia vita. Karim è stato sia un amico che un’enorme ispirazione. I suoi lavori migliori possiedono una concisione che arriva dritta al cuore di qualsiasi argomento, spesso lasciando i suoi lettori a disagio. Né eccessi né calcature fanno parte del suo lavoro, né sono inclusi superficiali sentimentalismi o rimpianti. Karim aveva un occhio limpido e perspicace sul mondo in cui viveva, e non si tirava indietro davanti a sfide e difficoltà. Ed è proprio come conseguenza della sua visione limpida che egli desiderava fortemente aggrapparsi a e far emergere il lato buono degli altri, dovunque lo trovasse. Quando penso a Karim, mi tornano alla mente le parole dello scultore americano Christopher Cairns. Una volta, discutendo il proprio lavoro, Cairns disse che tra le sue motivazioni c’era il tentativo di trasmettere “l’amore per l’umanità, persino nella relazione catastrofica col dove essa è diretta.” O, nel caso di Karim, col dove l’umanità si era trovata.
Ho incontrato Karim per la prima volta a casa del poeta e scrittore Marius Kociejowski. Nei mesi precedenti, avevo letto il libro di Kociejowski, God’s Zoo: Artists, Exiles, Londoners, e gli avevo fatto intendere quanto mi avesse coinvolto il capitolo intitolato “Swimming in the Tigris, Greenford.” Nelle settimane successive, mi ritrovai spesso a pensare a Karim, la figura al centro del capitolo. Le parole di Karim a Kociejowski racchiudevano molti degli argomenti con cui gli artisti si devono confrontare. Ad esempio:
“Da bambino, nella casa della mia famiglia nel cortile interno c’erano due alberi. C’era il gelso pieno di luce, sotto i cui ampi rami trovava rifugio una mia zia cieca. Mi arrampicavo tra le sue frasche e lì venivo sommerso dalla luce in ogni direzione. L’altra pianta era l’oleandro, diametralmente opposto al gelso, un albero chiuso e spento restio ad accettare la nostra presenza umana. La sua linfa era amara, appiccicosa, attirava le mosche. Amo entrambi questi alberi, ma a quale appartengo veramente, al gelso o all’oleandro? Uno è chiaro e aperto ed estroverso mentre l’altro assorbe la luce e la tiene per sé… Credo di preferire il primo, ma è il secondo che mia attira di più.” (Traduzione di Pina Piccolo ,in Fawzi Karim, I continenti del male e altre poesie, qudulibri 2014).
Successivamente, Karim parla di eventi accaduti mentre cresceva in Iraq nel mezzo di un conflitto terrificante e sanguinoso. Egli descrive il golpe del 1958 di cui fu testimone da ragazzo:
“È difficile parlare di tutto questo perché essendo così giovane all’epoca tante cose non le capivo. Hanno preso il cadavere di Nuri, l’hanno squartato, ne hanno trascinato i pezzi per tutte le strade di Baghdad per tre giorni, dopodiché li hanno impiccati dal ponte. Vicino a casa mia, ho visto con i miei occhi bruciare la sua coscia. Noi tutti gli siamo corsi dietro urlando slogan rivoluzionari ma poi me ne sono tornato a casa in tutta fretta nauseato dall’odore di carne bruciata. Non si può immaginare da dove provenga tutto quell’odio.” (Traduzione di Pina Piccolo in Fawzi Karim, I continenti del male e altre poesie, 2014).
Nelle sue poesie, Karim avrebbe poi rievocato questi eventi brutali:
“L’occhio diventa nero…
Sono nato in un anno più dolce,
Un anno in cui la gente ancora esitava davanti all’odore di cadaveri.
Ora sento l’odore dell’arrostirsi di una coscia…
Lui versa ancora kerosene
E il fuoco risplende e l’odore di carne diventa più forte.
…mio padre disse, ‘Chiunque va annusando cadaveri vorrebbe sbarazzarsi del fetore.’
Ma era un anno più dolce;
Un anno in cui la gente ancora esitava.
Un anno che vide la barriera tra me e quell’odore disintegrarsi.”
L’opera di Karim spesso include accostamenti, particolari e inaspettati, tra quieta introspezione e brutalità esplicita. Io mi ero dedicato musicalmente al lavoro di altri poeti e scrittori in cui avevo riscontrato caratteristiche simili, tra cui Christopher Middleton, Czesław Miłosz, Peter Weiss, Ezra Pound, Bruno Schulz. Persino tra figure così eminenti, Karim rimaneva unico. Le qualità e le sfumature delle permutazioni di Karim mi avevano fortemente colpito, e colsi al volo l’occasione di conoscerlo quando Kociejowski fu così gentile da organizzare l’incontro.
Quando ho visto Karim per la prima volta, anche durante quei primi minuti di imbarazzo che possono capitare all’inizio tra due sconosciuti, sono rimasto colpito dai suoi occhi. Essi trasmettevano un particolare accostamento; aveva un’espressione che posso solo definire come allo stesso tempo angosciata e a proprio agio. Mi sono spesso chiesto se anche altri la percepissero. Ciò che intendo è che il suo sguardo trasmetteva un’urgenza e un’immediatezza inequivocabili, eppure queste caratteristiche le manifestava con ritegno. Tale espressione non era necessariamente il risultato di un trauma precedente, anche se probabilmente in larga parte lo era. Compresi che lui riconosceva il pericolo e il trauma nello stato attuale delle cose, e ancor più percepiva quelle in arrivo. Sembrava che tale senso di perdita imminente diventasse ancora più pronunciato quando dimostrava entusiasmo riguardo a qualcosa o qualcuno. Era un senso che mi era familiare. Col tempo, specialmente col deterioramento della salute di Karim, è stato il suo “oleandro” ad essersi imposto, e certi frammenti della sua opera sembravano assumere maggiore importanza:
“Il tempo che marcia rapidamente, i suoi passi agili e veloci che mietono raccolti umani.
Mi immagino senza bocca, senza nemmeno un polmone.
Inutile come testimone…”
Eppure, anche nel pieno delle avversità, veniva alla luce la sua grande capacità di provare serenità e gratitudine. Quando ha incontrato mia figlia per la prima volta, è stato incredibilmente gentile e paziente. Anche se lei era solo una bambina, le ha parlato a lungo e con enorme rispetto, trattandola come pari. Tra le tante cose che lei rammenta del tempo trascorso insieme, ricorda la meraviglia nel vedere una persona scrivere in arabo per la prima volta. Karim le diede un biglietto, in arabo e in inglese, per commemorare il loro primo incontro – un biglietto che lei tuttora custodisce con cura. Karim adorava avere ospiti, e il fatto che lui amasse profondamente discutere di musica e di certi interpreti mi stupiva e mi faceva tanto piacere. Si animava quando ascoltava musica di tutti i tipi, e quando ne parlava.
Successivamente, rileggendo lo stesso capitolo di God’s Zoo, mi sono ricordato dell’amore per la musica di Karim, e del suo desiderio di essere compositore:
“Spesso dico alla gente che, se potessi essere qualsiasi altra cosa, sarei un compositore… Le parole da sole non sono abbastanza per me.”
Karim non componeva musica, ma era un pittore di talento. Così come la sua poesia, i suoi dipinti possiedono una presenza che si percepisce in maniera profonda e costante, simile alla sensazione che si ha nello stomaco al cospetto di un grande macchinario in funzione. In uno dei suoi dipinti dalle dimensioni più grandi, Apocalypse, da lontano si percepisce quella che potrebbe essere una scena ispirata alle opere di Bruegel (Pieter il Vecchio) o Hieronymus Bosch. Chi osserva i dipinti di Karim potrebbe paragonarli a quelli di artisti precedenti; ma, in effetti, molti dei suoi lavori sono unici, e nati dalle sue esperienze in Iraq.
All’inizio dell’anno, nell’istituzione in cui insegno, abbiamo avuto la fortuna di ospitare il grande compositore austriaco Georg Friedrich Haas per una lezione sulla musica. È interessante notare che Haas ha subito rivolto la sua attenzione alla pittura, riferendosi agli stimoli e alle tecniche comuni a diverse forme artistiche. Discutendo della Salita al Calvario di Bruegel il Vecchio, Haas ha spiegato le ragioni per cui questo è secondo lui un dipinto speciale e ha chiarito l’importanza che esso riveste per i giovani compositori. Dopo aver fatto notare ai partecipanti l’alto livello tecnico, ha aggiunto: “E c’è qualcosa in più… C’è la situazione drammatica del movimento, della fluidità… verso i quali l’occhio viene diretto. L’atmosfera disperata è sostenuta da queste decisioni.” Haas ha inoltre sottolineato altri dettagli del lavoro di Bruegel che sembravano esplicitamente connessi a molte delle opere di Karim: come Bruegel, Karim ha chiamato in causa, spesso e senza timore, il concetto frequentemente oggetto di discussione che è quello dell’universalità della sofferenza. “Possiamo vedere la ruota,” Haas ha continuato, “strumento di tortura ai tempi di Bruegel. Questo è ciò che Bruegel vedeva. E questa è una delle cose più importanti… nel senso che non sempre si tratta della distanza tra artista e opera… ma sono anche quegli elementi che l’artista percepisce come particolarmente traumatizzanti a livello personale e vengono indicati come accade per quello che era l’oggi di Bruegel.”
Nell’intervista di Kociejowski si dà ampio risalto all’approccio di Karim per quanto riguarda l’atto creativo. Egli illustra l’importanza della precisione, qualità che ammiro profondamente nella sua opera:
“Come conseguenza dell’essere qui, sono diventato particolarmente sensibile all’idea di frasi semplici, quelle in cui non sono presenti emozioni, idee, o convinzioni esagerate. È meglio lasciare le cose come sono. Una volta che si aggiungono questi altri elementi, si fraintende, si diventa ingiusti.”
Fawzi Karim è stato un artista che, nella sua opera, ha affrontato con spontaneità dimensioni dell’esperienza umana che tanti altri hanno cercato di respingere, da cui hanno cercato di nascondersi, o che hanno provato a ignorare o offuscare. E l’ha fatto in maniera così bella e onesta. Piango la sua scomparsa insieme ai suoi lavori mai scritti o dipinti; e allo stesso tempo, sono profondamente grato per quello che ci ha lasciato. Negli anni a venire, mi auguro che tanti avranno l’opportunità di scoprire e relazionarsi con i suoi lavori unici, commoventi e privi di compromessi.
“E scruto l’oscurità…
E non c’è niente per me lì da cercare…
Il silenzio è aspro, e remoto come una fontana di lana;
I miei piedi sono così leggeri che quasi non fanno rumore.
Come rispondo alla chiamata della corrente…
Berrò dalla bottiglia finché il profumo non sanguina al di fuori di me e si può vedere l’anima attraverso il mio corpo…
… per un amico che hanno bruciato in una vasca di acido,
O per qualcuno lasciato come uno spaventapasseri a guardia di un campo minato.
Teschi e frammenti d’osso,
Macerie…
La loro presenza resa più densa dal fango.
Non si può fuggire dalla vista di quelle bocche in cui il respiro è fermo.
I loro corpi lacerati saranno in qualche modo riportati in vita?
Ci sarà ancora l’alba?”
Per gentile concessione degli eredi di Fawzi Karim, traduzione italiana di Marina Romani dall’articolo apparso nel PN Review 248, volume 45, numero 6 di luglio-agosto 2019 . Poesie di Fawzi Karim (1945 – 2019), versioni inglesi di Anthony Howell dalle traduzioni di Abbas Kadhim.
In Autunno 2019 è prevista la prima di un’opera composta da Michael Hersch basata sulla poesia di Fawzi Karim.
Michael Hersch è un compositore e pianista statunitense di fama mondiale, vincitore di numerosi premi internazionali prestigiosi per le sue composizioni. Secondo il New York Times la sua musica “attanaglia l’ascoltatore a livello viscerale e lo trasforma a livello emotivo… claustrofobica ed esilarante allo stesso tempo, con momenti di bellezza sublime annidati all’interno di rovi di cupo virtuosismo “, mentre per il Financial Times l’opera di Hersch “sposa l’energia vulcanica del nuovo mondo a un clima spirituale di profondo scetticismo, spesso pieno di angoscia”.
Immagine in evidenza: Dipinto di Fawzi Karim.