Stando ai dati della rete Protecting rights at borders, i respingimenti operati in Europa a danno di rifugiati e richiedenti asilo nei primi quattro mesi del 2021 corrispondono a 2162. Inoltre, è notizia del 30 luglio 2021 che, nonostante la sentenza del maggio scorso del Tribunale di Roma che definisce illegittimi le prassi di riammissione in Slovenia, ripartiranno i pattugliamenti congiunti al confine italo/sloveno da entrambe le polizie, con la motivazione ufficiale, stando al comunicato stampa della questura di Trieste, di “rafforzare i rispettivi dispositivi di contrasto ai flussi migratori irregolari provenienti dalla rotta balcanica.”
Il problema, però, è molto più radicato sia nei più recenti processi storici, sia nei territori dei paesi balcanici. Dal 2015, infatti, si è andata a costituirsi quella che nel lessico giornalistico è nota come “rotta balcanica”, proprio dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Alan Kurdi. La Grecia è il primo paese a risentire di questa dinamica: per quell’anno i numeri parlano di 911 mila arrivi, specialmente siriani, ma anche afghani e iracheni. La data centrale, però, nello sviluppo della tratta è il marzo 2016, quando Unione Europea e Turchia sanciscono l’accordo che chiude il canale della rotta balcanica e delega alla Turchia la regolamentazione dei confini. Le frontiere europee si allontanano sempre di più e alla fine dell’anno tutti i campi profughi nel territorio greco vengono sgomberati. A causa di questo accordo, 60 mila persone restano bloccate nei confini dei paesi balcanici. Il nuovo snodo della rotta diventa così Belgrado, con la costruzione delle barracks presso la stazione dei treni. Fra il 2016 e il 2017 l’unico modo ufficiale per arrivare in Europa da est è costituito da liste congiunte redatte da Serbia e Ungheria per un esiguo numero di persone che vengono poi rinchiuse in campi di detenzione. È in questo frangente che la rotta balcanica inizia a prendere i connotati che la porteranno a quella che è oggi: chi si vede escluso dalle liste, inizia a tentare il “game”, il percorso fortunoso per i boschi di frontiera in frontiera, non riconosciuto legale dalle autorità per raggiungere l’Europa occidentale, costellato da violenze e soprusi. Dal 2020, complici le nuove politiche del governo di centrodestra con a capo Mitsotakis e le norme dovute alla pandemia, si assiste a una drastica diminuzione di migranti in transito per la Grecia. Nel corso dello scorso anno, sempre più le libertà dei migranti vengono limitate nel paese ellenico, rendendo così la rotta terrestre sostanzialmente forzata. Paesi come Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia sono così diventati snodi centrali per una tratta migratoria solo pochi anni fa inimmaginabile, per numeri di transito e violazione di diritti umani.
Quando la storia si intreccia con faccende umane, numeri e dinamiche geopolitiche dimentica il tratto vero e autentico della vita delle persone, specialmente in frangenti dove il dolore e i soprusi imperano. A una ricostruzione storico-sociale, tratta specialmente dal dossier La rotta balcanica dell’associazione “RiVolti ai Balcani” si innesta così il racconto originale di Jannik Jaschinski un giovane volontario tedesco (e mio amico) presso la cittadina di Bihać in Bosnia, al confine con la Croazia, fra settembre e dicembre 2020.
La Bosnia, infatti, a causa degli accordi del 2016 e delle condizioni migratorie sempre più complesse fra Croazia e Ungheria, si è ritrovata inaspettatamente come paese ultimo accesso alla UE.
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In quale zona della Bosnia Erzegovina ti trovavi e per quanto tempo sei rimasto?
Lo scorso inverno ho aiutato nella piccola città di Bihać. La città si trova nella zona nord-ovest del paese. A pochi chilometri, sulla vicina catena montuosa, si trova la frontiera croata e quindi anche l’inizio dell’Unione Europea. Per questo, da alcuni anni, molte persone sono “spiaggiate” e non possono più uscire. Sono stato lì per tre mesi. Da un lato, non potevo prendere altro tempo libero dai miei studi, dall’altro il soggiorno è consentito solo tre mesi alla volta. Così ha funzionato bene per me.
[Ndr: sin dal 2018 Bihać e Velika Kladuša diventano gli obiettivi principali di migranti e trafficanti a causa della loro vicinanza al confine croato. Nella prima città, nel 2019 viene aperta una tendopoli, il “jungle camp”, dove sorgeva una discarica, il quale viene chiuso per le condizioni inumane (sovraffollamento, assenza di servizi igienici, acqua e luce). Stesso destino ha il centro di accoglienza di Lipa, sempre a Bihać, nel 2020. Destinato ad accogliere 1000 persone, anch’esso è sovraffollato, acqua ed elettricità non sono sempre garantite e i servizi non sono sufficienti. Il 30 settembre scorso il governo cantonale ne decide la chiusura ma le istituzioni internazionali si frappongono fino al 23 dicembre quando avviene l’evacuazione del campo, con incendi che lo distruggono definitivamente. Così, 1500 persone si ritrovano senza più un luogo in cui stare].
Presso quale associazione hai operato e quali erano i compiti?
Ho lavorato per due organizzazioni, una bosniaca e l’altra spagnola. Entrambe erano molto piccole, con circa tre-cinque aiutanti sul posto. Le strutture non erano grandi. Noi eravamo incaricati essenzialmente di due compiti, entrambi avevano a che fare con le tante persone che non trovavano nessun posto in uno dei campi profughi. Così vivono centinaia di persone, fra i ruderi in città o nella foresta, senza che nessuno si prenda cura di loro. Non possiedono nulla e durante i mesi invernali, in cui mi trovavo lì, fa davvero freddo. Abbiamo fornito alle persone cibo e vestiti di base, così come coperte, prodotti per l’igiene e medicine. Ma questo è stato davvero difficile, perché noi dovevamo nasconderci continuamente dalla polizia. Non ci era nemmeno permesso di distribuire farina e olio, quindi lavoravamo al buio, la sera, e avevamo stabilito punti di incontro segreti. Tuttavia siamo riusciti a raggiungere diverse centinaia di persone alla settimana.
Il secondo compito riguardava le persone che dalla frontiera, dal “Game”, come lo chiamano loro, tornavano indietro. I migranti cercano regolarmente, in piccoli o grandi gruppi, di arrivare alla frontiera croata e poi da lì in Germania, in Italia o in Francia. Solitamente, però, vengono beccati dalla polizia croata o slovena. Ciò che succede poi, è inimmaginabile: vengono malmenati e costretti dai poliziotti a buttare le proprie cose in un grande fuoco: devono anche bruciare i loro sacchi a pelo, le loro scarpe e le loro giacche e anche i loro effetti personali vengono portati via. Poi, vengono cacciati indietro attraverso il confine bosniaco a suon di botte. Ritornano così a Bihać affamati, stremati e senza vestiti. Alcuni sanguinano. Abbiamo provvisto loro di vestiti, cibo e acqua.
E questo non è un caso isolato: ogni settimana diverse centinaia di persona prendono la strada per raggiungere il loro obiettivo in Europa occidentale. Tutti quelli che non ce la fanno sperimentano la violenza della polizia, settimana dopo settimana.
[Ndr: fra le norme di inizio 2020 per il contenimento della diffusione del Coronavirus, sono anche inserite alcune che limitano gli atti di solidarietà, per evitare, a loro detta, assembramenti o disturbo della quiete pubblica. Inoltre, gli stessi volontari che operano al confine fra Croazia e Bosnia sono vittime da anni da una campagna di discredito e intimidazione da parte delle forze di polizia e del Ministero dell’Interno croato, come reazione alle campagne informative portate avanti dalla ONG. Queste campagne hanno anche comportato violenze e molestie verso i volontari, come riferito da associazioni locali ad Amnesty International].Da dove provengono maggiormente i migranti? Cosa riferiscono riguardo il loro viaggio e i tentativi di “game”?
A Bihać c’erano molte persone provenienti specialmente da Afghanistan e Pakistan. In una città vicino, dove la situazione è simile, si trovano anche migranti dal Nord Africa, Bangladesh e altri paesi. Questi hanno già un altro viaggio dietro di loro. Ripensandoci, una frase in particolare mi è rimasta in mente riguardo al “game”. Parlando con un uomo del Pakistan, mi disse che già in diversi altri paesi aveva avuto a che fare con la polizia. Ma nessuna era così cattiva come la polizia croata. Bisogna immaginare che il “game” viene provato anche in pieno inverno, con neve e diversi gradi sotto zero. Il loro viaggio dura 15 giorni, durante i quali mangiano e dormono appena, con un’ansia incredibile. Infatti sanno già cosa sta per accadere: se anche questa volta non va, riceveranno nuove botte, nuove umiliazioni e nuove minacce.
[Ndr: nel 2020 gli arrivi in Europa via terra sono stati 7431 ma le persone in transito registrate in Bosnia sono circa 13000. Complessivamente, fra il 2019 e il 2020, per i Balcani Occidentali sono transitate 26.928 persone].Quale era il rapporto con la popolazione locale? Quale il contesto sociale di questo processo migratorio?
La situazione a Bihać si è sviluppata a partire dal 2015. Mi è stato spiegato come all’inizio ci fosse una grande cultura dell’accoglienza e disponibilità ad aiutare. La Bosnia stessa ha preso parte negli anni ’90 a una guerra civile e in quasi ogni famiglia si è vissuta l’esperienza dell’immigrazione e della fuga. Tuttavia la Bosnia è un paese molto povero con molti problemi economici e politici. Per quanto riguarda la mia esperienza, ho visto che davvero pochi aiuti provenivano dalla popolazione locale, ma vorrei comunque fare eccezione per alcune persone fantastiche. A volte non dovevamo solo nasconderci dalla polizia, ma anche da persone locali e gruppi di destra che in altri luoghi avevano già aggredito volontari. Ma per fortuna questo mi è successo a malapena.
[Ndr: nonostante un’iniziale solidarietà con i migranti, l’atteggiamento dei cittadini locali è mutato notevolmente. Già dall’autunno del 2018 iniziano proteste e gruppi contro la presenza dei migranti, pratiche che trovano anche una specie di appoggio istituzionale con la direttiva del 22 settembre 2018 emessa dal coordinamento operativo sui migranti a livello cantonale di Una Sana (la regione di Bihać) che vieta l’ingresso nel cantone a nuove persone. Iniziano così veri e propri screening razziali sui mezzi pubblici per cui chi veniva trovato senza documenti veniva fatto scendere e lasciato in strada. A questo bisogna aggiungere la debole struttura istituzionale del paese, divisa in tre secondo le etnie presenti, che emerge anche ora (agosto 2020) con la crisi istituzionale in atto a causa del rifiuto della componente serba di accettare una legge che regolamenti la memoria della guerra e delle atrocità del conflitto degli anni ’90].
Vorrei ora chiederti alcune storie dell’inverno passato, con l’aggravante del Covid.
Devo innanzi tutto premettere che il nostro lavoro è stato influenzato meno di quanto pensassi. È fatale quanto le persone indifese siano esposte alla pandemia, inoltre ho sentito anche storie molto brutte di scarsa assistenza soprattutto nei campi. Ma nella nostra vita quotidiana, le priorità erano il cibo e il caldo i quali necessitavano tutta la nostra energia. Ed è proprio in questo contesto che l’inverno ha portato con sé sorti terribili. Mi sono rimasti soprattutto in mente le persone che o la mattina presto o la sera tardi venivano a casa nostra e quasi non osavano bussare alla porta. Stavano lì, tremanti per tutto il corpo, al freddo di -2, -5 gradi. Tornavano dal “game” e raccontavano di non aver nessun posto in cui dormire, nessuna giacca o coperta e di non mangiare niente da diversi giorni. Ogni volta erano situazioni molto difficili e tristi, soprattutto per il fatto che anche noi avevamo disponibilità limitate per aiutarli: non potevamo né offrire un posto adeguato per dormire, né un posto caldo. Non era infatti permesso dalla polizia.
[Ndr: come nel resto del mondo, da marzo 2020 vengono prese rigide misure in contrasto alla pandemia. Con questo pretesto però, sono state anche decise norme che toccano i migranti nei campi, che hanno vissuto la prima fase senza alcun dispositivo igienico e ammassati. In quel periodo viene inoltre emanata una direttiva che vieta lo spostamento al di fuori delle strutture e su ogni mezzo di trasporto, oltre a proibire la stessa uscita dai campi. Chi invece non si trova in un campo, continua a vivere nei boschi o fabbriche dismesse fino all’apertura del campo di Lipa].Quanto ha influito la polizia con il vostro lavoro? Cosa raccontano i migranti?
I migranti portano tanta disperazione nei propri occhi. Non riescono a capire come la polizia possa fare loro cose del genere, perché così tanto odio si abbatte su di loro. Vengono trattati come animali, tanto dalla polizia croata, quanto da quella bosniaca. Ogni tanto vengono addirittura appesi cartelli nei supermercati: “Migrants not allowed”.
Da anni la polizia bosniaca ritiene di poter impedire con la violenza alle persone di rimanere. La polizia croata ritiene lo stesso per l’Unione Europea. Per questo, non capiscono la disperazione che le persone portano con sé. Altrimenti non lascerebbero le proprie famiglie e vivrebbero per mesi nella neve e nel fango, senza la consapevolezza di una vita migliore! Ma soprattutto non vedono quanto inumane siano le botte e le umiliazioni. La domanda che mi sono posto fino alla fine e che continuo a farmi ancora adesso è: come possono accadere cose del genere? Non mi sarei immaginato di dovermi porre questa domanda stando all’interno dell’Unione Europea. Ma la stessa UE ha molta responsabilità se ai confini dei propri cosiddetti progetti di pace accade qualcosa del genere. Guarda deliberatamente dall’altra parte e tollera la violenza. Invece, dovrebbe fare di tutto per trovare subito una fine alle violazioni dei diritti umani nel proprio stesso territorio. Questo è ciò per cui mi batto.
Matteo Rimondini cresce a Castenaso (BO) e dopo il liceo classico “M. Minghetti” si iscrive alla facoltà di lettere classiche presso l’Università di Bologna, pur mantenendo sempre con il proprio paese un rapporto di intesa e scontro. Organizzatore delle due edizioni del festival letterario “Nubi, lettere dalla periferia” e impegnato nell’approfondimento storico essendo membro dell’Anpi, accanto a passioni squisitamente letterarie, segue con passione temi politici e contemporanei. Da poco terminata l’esperienza di studio col progetto Erasmus presso l’università di Heidelberg (Germania), scrive regolarmente sulla rivista “Resistenza e nuove Resistenze”.