La mattina mi sbuccio la tristezza di dosso e la stendo ad asciugare – 5 poesie di Fatimah Asghar (trad. a cura di P. Piccolo)

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Cara Phillis Wheatley*

In imitazione di “An Hymn in the Evening”

 

Un tempo dividevo tramonti con un ragazzo,

sui tetti. Era un nostro gioco,

a chi trovava il più bello, quello più esaltante

salivamo dalle scale d’emergenza. Non possedevamo niente, davvero.

Qualche libro, dei vestiti, forse.

La birra la compravamo, la più economica del negozio.

 

Perfino il materasso su cui dormivamo era a noleggio.

La scrivania, un fantasma di chi ci abitava prima.

Phillis, neanche a noi era concessa

la notte, ma ce la siamo presa. Nudi i nostri piedi

sul catrame del palazzo, moribondo il sole che a squarciagola

cantava le sue canzoni colorate prima di fottere gli edifici.

 

Devo confessare, Phillis, che della natura so solo

quel che mi dicono gli altri. Questo ragazzo, col suo andirivieni sul tetto

è cresciuto nei sobborghi, parola che a me suona

come boschi & credo che abbia visto

migliaia di volte il lento ballo arancione

sulla corteccia degli alberi, il cielo infiocchettato di viola

 

& il tentativo di aggrapparsi a qualsiasi cosa lo potesse tenere in vita:

i nostri occhi, i lampioni, le mie gambe brune penzoloni

sul lato del palazzo. Phillis,

ti confesso: guardo questo ragazzo bianco

più di quanto non guardi il sole, o noti

il mio proprio respiro o provi a parlare con te.

 

Ieri ho letto la tua biografia. Phillis Wheatley

morì povera e abbandonata. Mi chiedo

se è ciò che attende anche me. Un tramonto brutale che nessuno

percepisce sta gridando. Me ne andrò abbandonata

e sola, il mio sangue che cerca di aggrapparsi a qualsiasi cosa

gli prometta un altro respiro. Se infine sarò padrona

 

del lotto di terra dove verrò messa a riposare

se lo potrò chiamare casa mia.

 

 

* Phillis Wheatley (Senegal o Gambia 1753 – Boston 1784)  È stata la prima scrittrice afroamericana a veder pubblicata una propria opera, ed è la capostipite del genere noto come letteratura afroamericana. Nata in Africa, catturata e venduta come schiava all’età di sette anni fu acquistata dalla famiglia Wheatley di Boston. I suoi padroni le insegnarono a leggere e scrivere e la incoraggiarono e sostennero nelle sue aspirazioni letterarie. La pubblicazione, nel 1773, di Poems on Various Subjects, Religious and Moral la portò alla fama e il suo lavoro fu lodato da personalità di rilievo come George Washington. Durante un viaggio su invito in Inghilterra  il poeta afroamericano Jupiter Hammon le dedicò una poesia. Dopo aver ottenuto la libertà e vissuto alterne vicende morì abbandonata e in miseria a soli 31 anni.

 

 

 

MADRE

 

La mattina mi sbuccio la tristezza

di dosso & la stendo ad asciugare. Cammino tutta

 

la giornata con i miei organi fuori

mentre le zanzare mi orbitano attorno al sangue.

 

Guardo sbocciare un petalo dentro una gonna rosa

& penso a quanto per anni abbia atteso

 

il mio primo ciclo & la mattina che la macchia rossa

increspò il gabinetto. Come giocavo a football

 

con i maschi nel parco della scuola

& mi lasciavo crescere i baffi

 

più lunghi di tutte le altre in classe

non rientra forse anche quella tra le tipologie

 

di adolescenza femminile? Nei miei sogni sessuali un pene

mi oscillava tra le gambe, un pendolo o torre

 

d’orologio che mi fora le giornate. Mi osservo

mentre distruggo il corpo degli altri.

 

& il mio umidiccio sboccia tra le lenzuola.

Forse è per questo che mi sveglio triste.

 

Anelo che a sorgere sia solo il mio altro corpo,

annegato nell’eco della sua silhouette.

 

Dove sei, madre? Come mi avresti

insegnato ad essere una donna?

 

Un uomo? Mi puoi aiutare? Ogni giorno

che passa senza te accumulo domande

 

& le sussurro alla terra,

il tuo nuovo corpo & l’erba mi ridono

 

in faccia. Talvolta rido

anch’io e per un attimo dimentico

 

che ti stavo parlando. Qualche volta

ti lascio andare & il mio corpo è completamente mio.

 

Completamente vivo, balla, maschio-femmina

piedi che pestano la terra.

 

Non il cimitero che finge

di essere. Qualche volta torno a casa piena

 

zeppa delle ore del giorno.

Il difetto della mia improvvisa gioia,

 

della mia dimenticanza, che mi brilla colpevole sulla pelle.

Mi rimetto il dolore. Non sono abituata

 

ad essere felice. Come non sono abituata

ai tacchi alti. O a troppi anelli

 

Ma ti prego, sappi che non mi lamento,

non prendermi la solitudine.

 

Ti prometto, la mia piccola gioia non è un addio.

 

 

 

 

Agli uomini bianchi che hanno paura di tutto

 

& di tutti. Compreso il mio corpo di undicenne

circondano di vuoto me e il mio violino

 

sull’autobus affollato le settimane dopo la caduta

delle torri & della quale avete incolpato la mia pelle. Erano vostri i piedi

 

& i vetri rotti che mi seguivano per il campo

quando arrivavo troppo presto all’allenamento di calcio,

 

sempre voi a ricordarmi che nessun marciapiedi o parco

sarebbe mai stato mio. Qualsiasi cosa provenga

 

da un paese che finisce in -stan ispira terrore, beduina

parole esotiche che non avevo mai sentito, ma adesso tutti nomi miei

 

– ma pure no – ora, tutto il mio CV – ma pure no- Lo so che forse vi faccio paura

uomini bianchi, io con le mie palpebre pesanti, risata

 

fragorosa e insistenza ad essere qui & ascoltata

Io bruna & con la pretesa di volare fino alla morte, io col mio Islam

 

& i tatuaggi & mio zio che riapre il suo ristorante

come trattoria afgana il mese dopo che gli avete lanciato la bottiglia

 

contro le vetrine & lasciato la scritta “Tornatevene a casa terroristi!”

su tutti i menù. È da questa gente che provengo io.

 

Un uomo che dice lascia che ci odino & dipingeva sui muri uomini

col turbante che trascinavano una capra morente.

 

È da lì che provengo io. Quelle province

di cui non sapete il nome, le guerre che continuate a iniziare

 

senza poter vincere. Osservate la mia gente vivere. Osservate

la mia gente amare. Osservate come colpite le nostre città coi droni

& uccidete i nostri bambini & noi continuiamo a trovare spazio per ballare.

 

Guardate quanti paradisi abbiamo, solo per noi.

 

Il mondo è pieno di gente come me che vorreste

sezionare, volete un nome per tutto

 

O altrimenti è libero e non vostro. La libertà al di fuori

della bianchezza è terrore, il cibo fuori della bianchezza

 

è spettacolo, la terra fuori della bianchezza non

esiste. Uomini bianchi, lo so che vi faccio paura

 

Io, col mio riso colorato, io col mio nome

che non sapete pronunciare, io senza terra

 

& senza intenzione di rubare o pagarvi una casa

che vi possiate poi riagguantare. O bruciare. O potete metterle davanti

uno specchio & cercare di convincermi che desidero di più

 

7 aprile 2016

 

 

 

 

Terra in cui morì mio padre

 

Terra di edifici & maleducazione terra di gente senza sole

& figli di colonizzatori terra senza spezie &

col vaiolo terra che ha ucciso mio padre & poi ne ha restituito

il corpo terra dove non posso portare fiori terra

che non sarà mai casa mia terra di schiavi & bambini

messi a lavorare terra di prigioni & tasse terra

che pronuncia male il mio dolore terra che chiama la mia eulogia

esotica terra che fa dell’altra mia terra un cimitero

terra che ride quando la mia gente muore & dipinge bersagli

sulla faccia dei miei futuri figli terra che ruba & dice

che è proprietaria terra che dice prima i miei terra che brucia & dice

andatevene terra senza radici terra che ha avvelenato mia

madre & ne ha divorato il corpo terra che mi chiama

straniera terra che rende straniera sulla mia lingua

l’altra mia lingua terra che chiama le donne della mia terra arretrate

e chiama se stessa salvatore terra che rade al suolo città & dice

Homeland Security (sicurezza della patria) terra che ha costruito la prima bomba &

l’ultima terra che ha ucciso mio padre terra che mi ha resa

orfana, di te io canto.

 

 

 

 

Super orfana

 

Oggi come certificato di nascita

ho indossato la mia cappa & ho spiccato il volo allargando le braccia verso il cielo.

 

_

 

 

Lo so – c’era una volta un uomo

O forse una donna

 

Ricominciamo. C’era una volta una famiglia.

Che cosa veniva prima?

 

_

 

 

Cosa fare, quando l’unica storia

a disposizione è un collage?

 

_

 

Mi sono svegliata, i genitori ancora

morti. Fuori, sbadigliano le foglie,

 

si ribattezzano primavera.

 

_

 

 

Riproviamoci. C’era una volta un villaggio

in un giorno pallido, che ignorava la grandezza

 

che l’aspettava al varco.

 

 

_

 

 

Oggi, mi sono svegliata

Batman, che regna su Gotham.

 

La città pecca ai miei piedi

che implora di essere salvata.

 

Di nuovo lo stesso sogno:

la polizia che insegue con le pistole spianate

la mia famiglia senza faccia

 

mio zio balza in un campo pieno

di tulipani, le sue braccia diventano ali

mentre lo accolgono i proiettili

 

___

 

 

Oggi, mi sono svegliata con la lingua impastata

e ubriaca, in mano un mazzo di carte,

 

sul petto il jolly. Oggi mi sono svegliata

arrabbiata col mondo per il suo dolore

 

per il suo desiderio di farne altri come me.

 

 

__

 

 

Sono tutti super eroi i rifugiati?

Tutti i sopravvissuti hanno dentro sé un malvagio?

 

__

 

 

 

Oggi  come certificato di nascita

ho indossato la mia cappa & ho spiccato il volo allargando le braccia verso il cielo.

 

Come altro posso dire che sono qui?

Per gentile concessione dell’autrice, traduzione dall’inglese di Pina Piccolo. LogoCC

 

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Fatimah Asghar è una giovane poeta di origini pachistane e del Kashmir, che abita attualmente negli Stati Uniti dove è anche fotografa e performer di fama nazionale. Fa parte del collettivo poetico Dark Noises. Dopo un’infanzia segnata dall’esperienza di essere rimasta orfana di entrambi i genitori a cinque anni, ha iniziato presto a esprimersi tramite la scrittura. Durante il periodo passato in Bosnia Herzegovina come borsista Fullbright per studiare drammaturgia in luoghi che erano stati teatro di violenza e guerra è stata la creatrice di REFLEKS, il primo gruppo di poesia performata in quel paese. Le sue poesie sono a apparse nella rivista POETRY Magazine, The Paris-American, The Margins, and Gulf Coast. La plaquette “After” è di prossima uscita.

 

 

Foto in evidenza di Simbala Desilles.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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