Risale a molti anni fa la mia consapevolezza che l’Egitto contemporaneo, in cui sono cresciuto, possa facilmente produrre una figura come il Generale Ibrahim Abd al Ati e il suo notorio, fasullo dispositivo per sconfiggere l’AIDS (http://www.shorouknews.com/news/view.aspx?cdate=27022014&id=1274ab30-56bb-4e6e-8b55-e0f249928fb6) e l’epatite C. Sapevo che la dottrina della sicurezza in Egitto potesse consentire l’uccisione di un giovane come Giulio Regeni (http://www.almasryalyoum.com/news/details/899989), sotto tortura, senza un pur minimo senso di colpa. Ero consapevole anche del fatto che gli esperti strategici egiziani potessero credere che sono in realtà i Massoni a governare il mondo (http://www.almasryalyoum.com/news/details/826131 ). Mi rendevo conto del fatto che la mentalità dei funzionari di Giza in materia pedagogica li avrebbe indotti a bruciare libri ((http://albedaiah.com/news/2015/04/13/87026 ) ritenuti un insulto per la nazione. Non mi ha stupito il fatto che un ex presidente della Federazione degli industriali (http://www.tahrirnews.com/posts/392219/اللاجئين+السوريين++السيسي++الجيش+ ) e membro del consiglio di una università straniera potesse dire sotto la cupola dell’università stessa che gli intellettuali costituiscono la più grande minaccia per la società, o che i dirigenti statali responsabili per il patrimonio archeologico potessero distruggere iscrizioni antiche sul muro di un tempio (http://www.shorouknews.com/news/view.aspx?cdate=06042016&id=f957901f-e1d7-487c-9760-1a159bf2b2c2 ), convinti che fossero state incise da una missione archeologica straniera.
Mentre tutte queste cose erano teoricamente possibili, esisteva un freno appositamente impostato per impedire che il tutto andasse fuori controllo, prevenire che queste cose si avverassero. Il problema, sono convinto, va oltre l’amministrazione attuale, o a una cricca particolarmente influente al suo interno. Piuttosto credo che la situazione vigente denoti più la posizione delle élite, i temperamenti dominanti al suo interno, e il nucleo delle inclinazioni e delle scelte storiche dell’intellighenzia egiziana. L’Egitto contemporaneo, nel suo insieme, è come un satellite che ruota fuori dalla sua orbita, che rischia di perdersi per l’etere. Forse per la prima volta nella sua storia moderna, l’Egitto sembra volersi deliberatamente isolare dal mondo.
Questo è un articolo piuttosto lungo e in esso cercherò di rispondere a due interrogativi fondamentali: 1) Perché l’Egitto si è “slegato” dal mondo solo negli ultimi 3 anni? 2) Quali sono alcune delle radici di questa situazione pericolosa e vergognosa? 3) E infine, c’è modo per uscirne?
La borghesia egiziana: immagine pubblica e immagine di sé.
Dal momento in cui, nel 19esimo secolo, è stato fondato lo stato moderno, le élite egiziane sono state ossessionate dall’immagine che l’Egitto dà di sé al mondo, il ché li ha indotti a spendere grandi sforzi ed investimenti per forgiare e fissare una facciata particolare per gli osservatori esterni. Come per qualsiasi nazione che abbia recentemente conquistato l’indipendenza da un colonizzatore straniero, le élite egiziane desideravano dimostrare alla potenza coloniale che il loro paese era degno dell’indipendenza. Le élite nazionali e la borghesia volevano dimostrare allo stato coloniale il proprio diritto all’indipendenza ed affermare la propria legittimità come rappresentante della popolazione locale. Prendendo poi una direzione più ansiosa ed impetuosa, le élite si sono adoperate per dimostrare di non essere meno avanzate e moderne dei loro ex colonizzatori. In certe congiunture critiche, i desideri nazionalisti di tali élite producevano un’immagine che abbinava un senso di grandezza a sentimenti di persecuzione ed ingiustizia storica, misti a vergogna e imbarazzo per la popolazione locale composta prevalentemente da contadini arretrati e poveri urbanizzati.
Mentre tale forma mentis è tipica della maggior parte degli stati che hanno conquistato l’indipendenza, il fenomeno era particolarmente vivido in Egitto e lì prese una vita tutta propria.
Le concezioni egiziane moderne dell’identità nazionale si basavano sull’immaginario di un retaggio glorioso che si estendeva migliaia di anni nel passato e che affondava le radici in una percezione ampiamente condivisa di continuità storica tra i tempi antichi e la contemporaneità. La nazione immaginaria incominciò a prendere forma sotto il re Narmer nel 3200 a.C. A scuola ci hanno insegnato che l’Egitto fu occupato e non fu più governato da egiziani a partire dalla 30esima Dinastia fino a quando Nasser assunse il potere nel 1952. L’Egitto, quindi non era stato governato da egiziani per circa 2400 anni. Ma questo fatto non precludeva una specie di “egittizzazione” di tutto quanto fosse successo tra le due date. Secondo questa narrazione nazionalista, ogni conquistatore o potenza occupatrice era stata inghiottita e consumata nel crogiolo della civiltà egiziana, solo per essere triturata e fusa all’interno dell’amalgama civilizzatore dell’Egitto – o almeno questo era quanto veniva raccontato.
Oggi, l’esercito egiziano vede la genealogia delle proprie battaglie risalire alla battaglia di Qadesh comandata da Ramses II nel 13 secolo a. C., seguita dalla battaglia di Meggido (15simo secolo a. C.) quando le truppe sotto il comando del faraone Thutmose III sconfissero i cananei comandati dal re di Qadesh. L’esercito egiziano contemporaneo si fa vanto della liberazione del Delta dall’asiatico Hykos nel 16esimo secolo a.C. operata dal re Ahmose come se si trattasse di una propria vittoria storica. Tale genealogia è raffigurata in una pittura murale fuori dall’Egyptian Military College che comprende scene dalle antiche battaglie di cui sopra oltre a rappresentazioni della conquista della Siria nel 19esimo secolo da parte di Ibrahim Pasha, fino ad arrivare alla guerra del 1973 contro Israele.
E’ semplice capire quale possa essere il corollario implicito in tale visione della storia come continuum. L’obiettivo è quello di far percepire l’arretramento attuale dell’Egitto solo come una piccola deviazione da un cammino di grandezza che copre migliaia di anni, interrotto temporaneamente a causa della malvagità altrui. Tale percezione attinge sia dalla storia antica dell’Egitto che dall’Islam. Pertanto, la nostra civiltà diviene sia “l’alba della coscienza umana” (http://www.goodreads.com/book/show/5957250 ) che il cuore della migliore nazione mai emersa tra gli uomini per seguire il bene e impedire il male”, secondo la citazione coranica. L’auto-identificazione dell’Egitto contemporaneo, cioè il modo in cui vede se stesso, è l’identità nazionale più antica e complessa, erede legittima di un passato la cui grandezza è oggetto di celebrazione e consenso internazionale. Non vi è più chiara articolazione del nazionalismo egiziano che nelle sue costituzioni. Il Preambolo alla Costituzione del 1923 – la prima costituzione dell’Egitto, concessa dal re Fouad I ai suoi sudditi egiziani – presenta l’atto costitutivo come passo verso “l’avanzamento del nostro popolo verso il gradino più alto, come si addice alla sua intelligenza e prontezza ed è coerente con la sua antica grandezza storica, e per consentirle di assumere il posto che le spetta tra i popoli civili del mondo.” Esattamente 90 anni separano la Costituzione del 1923 del re Fouad (https://ar.wikisource.org/wiki/دستور_مصر_1923 ) dalla più recente Costituzione egiziana del 2014 – un lasso di tempo più che sufficiente per lo sviluppo di volgari impulsi sciovinisti e ignobili immagini di sé. Il Preambolo della Costituzione del 2014 (https://ar.wikisource.org/wiki/دستور_مصر_2014 ) afferma che l’Egitto è il dono che gli ‘egiziani’ hanno fatto all’umanità “il cuore del mondo intero”, il punto d’incontro delle sue civiltà e culture e il crocevia dei trasporti marittimi e delle comunicazioni”. E’ “la testa dell’Africa” “l’alba della coscienza umana” , “il primo stato centralizzato”, “la culla della religione e la bandiera della gloria delle religioni rivelate”. L’Egitto è la casa dei “migliori soldati della terra che combattono nel sentiero di Dio, e portiamo il messaggio della verità e delle scienze della religione in entrambi i mondi”. Secondo il mio caro amico e romanziere Ahmed Naji (http://www.madamasr.com/news/culture/appeals-court-sentences-novelist-ahmed-naji-2-years-prison )– che sta scontando una condanna ingiusta di due anni di prigione per la pubblicazione di un suo romanzo- alcuni esegeti coranici affermano che questi due mondi sono il mondo degli uomini e quello degli jinn.
Ma alludere a tale grandezza non dice tutto su quale possa essere la percezione di sé delle élite, custodi del nazionalismo egiziano, La borghesia locale pur considerandosi erede della propria antica grandezza, si trovava comunque ad affrontare la realtà di guidare un paese arretrato e di rappresentare una popolazione in larga parte ignorante, che consisteva principalmente di contadini poverissimi. L’immagine di se stessa, dell’Egitto, della borghesia, era stata pertanto creata in tensione con il mondo esterno (a cui si implorava di riconoscere la nostra evidente grandezza) e il mondo in Egitto (composto prevalentemente da contadini che ispiravano un senso di vergogna e impedivano la marcia verso la reclamazione dell’antica gloria).
Allo stesso tempo, la borghesia aveva investito sulla miseria della popolazione, preferendo generalmente di mantenerla ignorante per potersi assicurare la perpetuazione di un ordine sociale ingiusto e ripugnante. A mio avviso, quindi tale sciovinismo non è semplicemente un impulso ideologico senza un vero e proprio scopo. Esso offre giustificazioni per la perpetuazione di una struttura di arretramento, allo stesso tempo alleggerendo la borghesia nazionale da qualsiasi vera responsabilità per questo stato di essere. Consente loro di indignarsi per la triste situazione in cui versa il paese e allo stesso tempo incolpare le masse ignoranti o un cospiratore esterno.
L’evoluzione storica ha prodotto una relazione complessa tra noi e il mondo, che ci ha portato al presente, come evidenziato dalla nostra relazione alienata con il resto del mondo e con la stessa identità nazionale. Il nazionalismo egiziano ha acquistato i suoi particolari pregiudizi ereditandoli da generazioni che sono state allevate nella loro ombra. Chi crede nell’ideale nazionalista porta quotidianamente il peso della sua grandezza e nuota in mari di arrogante orgoglio, insensibile alle realtà quotidiane che contraddicono tali convinzioni. Come potrebbe tutto questo non sfociare in una situazione pericolosa? Come potrebbe tutto questo non scatenare il torrente di odio irrazionale (http://arabic.cnn.com/entertainment/2016/03/28/messi-donates-his-shoes-poor-people-egypt) a cui assistiamo oggi, impegnato a fustigare indiscriminatamente presunti nemici domestici ed esterni?
Per decenni siamo stati ossessionati da un singolo pensiero: l’immagine dell’Egitto nel mondo. È una ossessione soffocante, perfino ripugnante a causa del senso di inferiorità e falsità che essa cela. Implica sfoggiare al mondo una facciata brillante tenendo i poveri fuori dalla vista degli stranieri, anche se questo significa tenerli temporaneamente chiusi in questure mentre le strade e i marciapiedi vengono riverniciati per far bella figura con i dignitari stranieri in visita. Questi scenari erano particolarmente veri negli anni settanta, quando i media ufficiali e privati denunciavano la crescente ondata di cinema realista argomentando che danneggiava l’immagine dell’Egitto e stendeva i panni sporchi ad asciugare in pubblico. I romanzi realisti venivano sottoposti alla stessa condanna. Nei momenti più assurdi, migliorare l’immagine dell’Egitto diventava più importante dell’Egitto stesso. Un esempio lampante che ebbe luogo circa dieci anni fa è stata la produzione da parte del ministero del turismo di un annuncio pubblico che avvertiva gli egiziani di non parlare delle molestie sessuali (https://www.youm7.com/story/2015/12/17/السياحة–ظاهرة-التحرش-الجنسى-تؤثر-على-الصورة-الذهنية-لمصر-با/2497118#.VwVehPl97IU) perché ciò avrebbe potuto minare il turismo e macchiare l’immagine dell’Egitto nel mondo.
Ahlam Hind we Kamilia (1989). Un film realista di Mohamed Khan (per gentile concessione di elCinema.com)
La falsa scelta tra autenticità e modernità
Sin dal suo principio, l’idea della modernità egiziana è stata immaginata come scelta tra autenticità e modernità. Nella coscienza popolare, la modernità doveva essere soggetta a scrutinio sotto la lente della virtù e del decoro. Insomma, bisogna prendere dall’occidente avanzato quello che più si addice a noi e abbandonare il resto – “noi” si riferisce alle classi dominanti, i loro interessi e i loro stili di vita. Quindi cose come il balletto, centri commerciali e modelli di consumo americano sono segni di una cultura avanzata, mentre la democrazia e l’uguaglianza di genere sono concetti alieni che minano l’identità e la particolarità della nazione.
Nel corso di molti anni di passi sbagliati compiuti dall’ex presidente Gamal Abdel Nasser nell’implementare il suo progetto statale, il nostro rapporto con il mondo è diventato più complicato e pieno di scogli. Abbiamo passato molto tempo immersi nelle complicatezze del dualismo autenticità-modernità mentre le questioni del progresso diventavano sempre più distanti. All’inizio dello stato costituito dopo l’indipendenza, le tendenze e le manifestazioni di modernizzazione avevano un qualche grado di risonanza popolare e di verità. Questioni relative al progresso e allo stare al passo con il nord del mondo più sviluppato erano reali, serie e non ancora definitivamente stabilite. Ma con l’accumularsi degli errori e delle sconfitte i valori repubblicani iniziarono a sfaldarsi. Alcuni elementi reazionari assunsero il controllo del progetto statale, e la conservazione dell’aspetto esteriore della modernità divenne solo un’altra messa in scena per abbellire la facciata delle autorità borghesi e assicurare la loro continuità. Con lo sfaldarsi del progetto nazionalista e la perdita del suo nucleo centrale – cioè l’inclusione della vasta maggioranza dei cittadini – la nazione rivendicò con maggiore insistenza il riconoscimento da parte dell’occidente del nostro valore come nazione indipendente (la nazione a questo punto era stata ridotta alla borghesia e alla sua capacità di governare).
Altro fattore da considerare è che abbiamo passato gli ultimi quarant’anni sotto l’influenza del discorso del risveglio islamico, la cui letteratura popolare vede l’intero progetto nazionalista di modernizzazione e la sua ossessione per lo sfoggio di una facciata positiva per il mondo come un’espressione di inferiorità e di subordinazione all’occidente. In contrapposizione, il progetto del risveglio islamico ha come presupposto l’orgoglio per il nostro arretramento locale come forma di resistenza, consapevolezza e fedeltà alla nostra identità. Questo atteggiamento rivela il grado di importanza della colpevolezza morale che può essere attribuita al moderno stato nasserista: ha adottato l’abito della modernità occidentale pur essendo pienamente cosciente del fatto che si trattava di una facciata. E come poteva d’altro canto veramente crederci, specialmente data la natura reazionaria della sua coalizione sociale dominante, che utilizza gran parte dello stesso lessico del risveglio islamico?
Il predicatore islamico Wagdi Wagdi Groneim tra i predicatori che sono orgogliosi nell’arretramento come segno identitario e di resistenza. (Per gentile concessione https://www.youtube.com/user/wagdy0000)
In un contesto come questo, la democrazia, i diritti umani, l’uguaglianza dei generi e la libera organizzazione dei lavoratori sono diventati agende da stranieri. Lo stato nazionalista è costretto ad adottarli in maniera fittizia pur detestandoli e deplorandoli (poiché sono il risultato di pressioni internazionali). Sotto Mubarak, per esempio, lo stato concedeva alla società civile qualche spazio d’azione e adottava la retorica della democratizzazione. Però non consentiva a qualsiasi entità indipendente o individuale di adottare la stessa retorica – chi si permetteva di farlo veniva tacciato di essere un agente straniero o una “quinta colonna” finché non si fosse provato il contrario. E in ultima istanza – come in questo momento – lo stato non ha alcuna remora nel perseguitare coloro che osano fare appelli alla democrazia.
I ferri sono caduti dopo il giugno 2013: come il progetto nazionalista egiziano si sganciò dal mondo
Quando a metà degli anni settanta l’ex presidente Anwar al-Sadat dichiarò che gli Stati Uniti tenevano in mano il 99% delle carte nella regione, aveva messo in piedi un precedente politico analitico distruttivo nei nostri rapporti con le superpotenze. Avendo creato il suo mondo e avendolo lasciato in eredità al suo successore, nella scia di ulteriori sconfitte interne subite dal progetto statale, questa nozione domina l’immaginazione dell’intero spettro politico in maniera trasversale, a prescindere dalla sua verità. Questa idea centrale è perfino arrivata a governare il gioco politico domestico. Mostafa al-Fiqqi, l’ex segretario dell’informazione per Hosni Mubarak, una volta affermò che gli Stati Uniti dovevano approvare qualsiasi nuovo presidente dell’Egitto. (http://today.almasryalyoum.com/article2.aspx?ArticleID=240135 ) Fu questa nuova dottrina di Sadat che continuò a dominare nei circoli delle élite egiziane fino alla rivoluzione del gennaio 2011. Comunque, sarebbe spettato agli eventi sia del gennaio 2011 e ancora di più quelli del giugno 2013 provare la completa falsità di tale dottrina e la sua lontananza dalla realtà.
Le rivolte del 2011 e del 2013 hanno dimostrato che i poteri interni, se possiedono la capacità di mobilitare, hanno l’ultima parola, e gli Stati Uniti non hanno in mano né il 99% e neppure il 50% delle carte, specialmente dopo il fallimento della sua avventura in Iraq. Ci è voluto molto tempo perché l’élite politica egiziana si rendesse conto di avere un largo margine di azione e tale consapevolezza è stata pagata a un prezzo molto alto da alcuni, ad esempio dai Fratelli Musulmani, ma ha costituito un enorme vantaggio per altri, ad esempio l’apparato militare egiziano.
Sebbene per i fatti del 30 giugno si sia impostato il ritornello della necessità dell’eliminazione dei Fratelli per proteggere l’Egitto da interferenze esterne e l’eradicazione di una quinta colonna domestica, i vincitori si sono resi conto che i giocatori esterni hanno poca influenza sopra le decisioni domestiche di natura critica. Tale consapevolezza ha consentito ai decision maker locali di liberarsi dai condizionamenti delle rivendicazioni degli occidentali – condizionamenti che in precedenza erano considerati requisiti a prova di ferro – e che ho descritto come la catena che legava l’Egitto al mondo.
Gli sviluppi successivi al 30 giugno 2013 e alla cacciata del presidente Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani da parte dei militari, ha liberato il nazionalismo egiziano da un’ulteriore catena. La prima era il peso dei dettati statunitensi sulla politica interna, che dimostrò essere poco cospicuo, almeno in confronto all’importanza che essa assumeva nella mente dello stato. In secondo luogo, lo stato egiziano non si vedeva più costretto ad appoggiare a parole il discorso dei fratelli musulmani, il nucleo del risveglio islamico che da molto tempo aveva tacciato lo stato repubblicano di essere uno strumento nelle mani dell’occidente. Successivamente al giugno del 2013, l’ordine stabilito ha sconvolto l’equazione espellendo i Fratelli completamente dal corpo nazionale, usando l’accusa di essere uno strumento nelle mani dell’occidente, ma questa volta con sostegno popolare massiccio.
Il dibattito sulla nostra immagine nel mondo- o piuttosto sulla limitata patina di modernità che continuava ad esistere intrappolata tra il nazionalismo dello stato repubblicano e il risveglio islamico – si è spostato drammaticamente. Mentre una volta si trattava di conservare la nostra immagine come segno di progresso, conservare questa immagine è diventato un segno di sottomissione e una mancanza di indipendenza nazionale. Infine la logica del risveglio islamico è stata vittoriosa, ma ha finito per sconfiggere gli stessi Fratelli Musulmani, mentre lo stato nazionalista, in una svolta fascista, adottava, ironia della storia, la loro stessa logica per schiacciare il gruppo rivale.
Un gruppo di funzionari del Ministero dell’Istruzione a Giza bruciano diversi libri sul pensiero islamico, in un contesto festoso dentro una scuola. L’episodio ha avuto luogo nell’aprile del 2015. (Per gentile concessione http://albedaiah.com/news/2015/04/13/87026)
Mentre il nazionalismo egiziano si era finalmente liberato dai limiti della conservazione dell’immagine, è stato infine anche esonerato dagli obblighi verso la comunità internazionale ed i suoi segni esteriori, che, come ho messo in rilievo prima erano stati spesso adottati in malafede, in ogni caso, per non dire sotto estrema coercizione. Inoltre, gli attori egiziani dominanti sulla scena interna capivano che si trattava di un conflitto esistenziale e che i venti rivoluzionari rendevano tali blocchi egemonici una questione di vita o di morte. Talmente critico era questo conflitto interno– una questione di vita o di morte per quelle élite – nella misura in cui la questione della conservazione della propria immagine esterna impallidiva a confronto, specialmente dal momento che il mondo esterno non aveva un ruolo decisivo da giocare nel conflitto. Il feroce tentativo operato dall’ordine costituito dopo il 30 giugno di marginalizzare la rivoluzione del 25 gennaio ha anche chiaramente avuto un impatto sulle relazioni dell’Egitto col mondo. Dopotutto la rivoluzione di gennaio possedeva la credibilità che mancava a quella di giugno. Tutti questi fattori sono confluiti per far scatenare gli attuali livelli di sciovinismo nazionale egiziano senza precedenti, uno sciovinismo che confina con la xenofobia, come elaborerò in seguito.
La rete di nemici si espande e si sposta
Quando parliamo della nostra immagine nel mondo, dobbiamo prima di tutto specificare a quale mondo ci riferiamo. Durante il primo periodo di Nasser, gli amici e i nemici venivano determinati in base a una serie di standard nazionali e morali. Come stato che aveva conquistato da poco l’indipendenza, l’Egitto era o amico di tutte le nazioni del terzo mondo che aspiravano alla liberazione nazionale. Il paese era stato uno dei fondatori dei non-allineati, e l’egiziano medio sentiva veramente affetto per i popoli dell’India, della Jugoslavia e di altre nazioni che lottavano per l’indipendenza. Soprattutto, erano ben disposti verso le popolazioni arabe e africane mentre erano più ostili e diffidenti verso gli stati precedentemente colonizzatori o stati che nutrivano aspirazioni imperialiste. L’ostilità verso Israele, per esempio, era largamente basata sull’idea che capeggiava l’imperialismo nella regione. La sua esistenza, a sua volta, costituiva una minaccia al nostro stesso sviluppo, progresso e benessere.
Ma mentre le delusioni e i fallimenti dello stato nazionale si accumulavano, gli standard attraverso i quali si determinavano gli amici e i nemici diventavano sempre più confusi. Durante il regno di Sadat, i legami con gli Stati Uniti – la nuova potenza imperiale – erano stati rafforzati per ragioni pragmatiche e economiche. Sadat iniziò anche ad avvicinarsi ad Israele (solo ieri il nemico esistenziale e a capo dell’imperialismo). Allo stesso tempo emergeva però una retorica di sfida, che denigrava entrambi gli stati, approfondendo nel contempo i nostri legami con essi. Questo progetto neo nazionalista cercava di affermare la nostra eterna anima civilizzatrice e fonte di cultura. Il risveglio islamico aiutò a forgiare l’antipatia verso l’occidente, particolarmente l’idea della sua natura immutabile – “gli ebrei ei i cristiani non saranno mai contenti di te” come dice il Corano. Il problema di quest’idea è precisamente che l’ostilità viene considerata eterna. In pratica, significa conservare lo status quo di cooperazione nascosta con i nostri nemici implacabili, mentre allo stesso tempo si scava il pozzo di odio popolare nei loro confronti attraverso la propaganda dei media.
Anwar Sadat e Menachem Begin a cena all’hotel King David a Gerusalemme (1977). (per gentile concessione https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Flickr_-_Government_Press_Office_(GPO)_-_Sadat_and_P.M._Begin.jpg)
Contemporaneamente il motto di Sadat “Prima l’Egitto” segnalava una svolta verso una retorica di odio e paternalismo rispetto ad altri arabi e ai popoli del Terzo Mondo. Ripudiando la demagogia e la cooperazione nasserista il discorso “Prima l’Egitto” assegnava la colpa al discorso nasserista sulla regressione egiziana e sulla sua povertà. Tale spostamento sottintendeva una nuova avversione e disgusto per i palestinesi, i sudanesi ed una lunga lista di altri popoli, dagli algerini ad altri arabi non ricchi. Tale retorica in chiave anti-nasserista, messa in moto da Sadat, poteva essere una fase passeggera, ma in realtà si era radicata più profondamente di quanto molte persone non potessero immaginare all’epoca.
Questa evoluzione dei conflitti dell’identità nazionale dispiegatasi nel corso di decenni ha prodotto uno strano groviglio di rancori che si possono richiamare in qualsiasi momento per alimentare le faide politiche con una gamma sorprendentemente diversa di nazioni e popoli. Questi risentimenti motivati politicamente venivano alimentati da un senso di grandezza ferita e sconfitta, mista a un sentimento di superiorità nazionale, culturale o religiosa, a seconda del bersaglio in causa. Tali tendenze di destra sono in grado di forgiare un’intera mitologia e lessico di inimicizia contro chiunque. La sfaccettatura islamica della retorica nazionalista viene evocata in chiave di animosità religiosa, culturale verso l’occidente, e di settarismo nei confronto dell’Iran sciita, per esempio. L’eredità coloniale viene evocata come radice dell’antagonismo verso l’occidente e anche verso la Turchia, come erede dell’Impero Ottomano. Le espressioni più razziste e paternaliste del nazionalismo egiziano sono invece riservate per alimentare gli odi contro stati arabi ed africani.
Mentre cresceva la crisi politica del regime e l’establishment della sicurezza sentiva che stava per perdere il controllo sulla situazione, l’idea che l’Egitto fosse sotto attacco divenne la lente attraverso la quale si leggevano i rapporti con l’estero. E quando infine si è arrivati allo scontro, l’idea di essere bersaglio si è velocemente trasformata in un’esplosione di teorie complottiste. Il senso delle élite al potere che lo stato fosse sotto attacco dopo il gennaio del 2011, seguito dalla battaglia esistenziale con i Fratelli Musulmani del 2013 e la lotta contro il terrorismo dello stato islamico successivamente, misero in primo piano la retorica complottista. Discorsi legati a cospirazioni esterne divennero pane di tutti i giorni, una specie di cliché, particolarmente in assenza di una qualsiasi identificazione concreta di chi fossero i cospiratori. Dal capo dello stato ai funzionari di livello più basso, si sentono parole vaghe e minacciose “sulla guerra di quarta generazione” contro l’Egitto combattuta da personaggi stranieri senza nome. Esaminando con attenzione la natura di tale guerra contro l’Egitto, scopriamo che il criterio di belligeranza è semplice: animosità verso altri paesi che adottano convinzioni politiche e dottrine che non siano al momento adottate dallo stato egiziano. Secondo tale logica, ad esempio, le conferenze internazionali per i diritti umani diventano parte di un complotto globale contro l’Egitto.
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In un discorso ripreso alla television nel febbraio 2015, il Presidente Abdel Fattah al-Sisi avverte dei pericoli della “Guerra di quarta generazione”.
Nei rapporti con il mondo esterno, lo stato si è affidato a un principio problematico, anche se in apparenza integro: lottiamo contro chi ci combatte e siamo amici di chi ci è amico. Il narcisismo nazionale è molto chiaro in questa situazione, in cui l’unico fattore determinante nel decidere chi sono gli amici e chi sono i nemici si basa sull’atteggiamento dell’interlocutore verso di noi (riferendoci all’attuale regime). Non c’è posto per mettere in dubbio la legittimità di tale posizione nei confronti delle preferenze ideologiche e morali dello stato. Di conseguenza, se il regime ritiene che parlare di democrazia equivalga a promuovere il crollo dello stato, e qualche interlocutore esterno assume una posizione di principio diversa, l’interlocutore automaticamente viene considerato un complottista contro l’Egitto.
Il paese oggi non dimostra alcuna gratitudine o amicizia tranne che per gli stati che offrono appoggio politico ed economico illimitato al suo governo, come l’Arabia Saudita e gli Emirati, purché tali stati non chiedano niente in cambio che contraddica la visione dello stato. Qualsiasi altra cosa è un fardello ed una potenziale minaccia di crollo. Perfino questi alleati non sono riusciti a sfuggire alle sdegnose frecciatine degli uomini in potere in Egitto, che in fughe di notizie (https://www.youtube.com/watch?v=MburV3ANN8c ) descrivono gli Stati del Golfo come stati di serie B che non hanno altra scelta che appoggiare l’Egitto. Gli incessanti discorsi sui complotti stranieri hanno alimentato una sorgente di ostilità spontanea e senza redini tra i sostenitori del governo. Quando nel 2015 un velivolo Apache egiziano accidentalmente fece fuoco su un gruppo di turisti messicani nel deserto occidentale egiziano uccidendone diversi, i sostenitori del regime immediatamente diffusero sospetti e lanciarono accuse: che ci facevano comunque dei messicani nel deserto dell’ovest?
Non dimentichiamoci che delegazioni e ricercatori stranieri sono fermati di routine, viene loro proibito l’ingresso al paese (http://assafir.com/Article/465311 ) o vengono deportati (http://www.almasryalyoum.com/news/details/456631 ). L’addetto alla sicurezza che torturò e uccise il ricercatore italiano Giulio Regeni (http://www.madamasr.com/opinion/politics/giulio-and-tragic-loss-academic-freedom )probabilmente non agiva sotto ordini diretti, o con il consenso del presidente e neppure con quello del Ministro dell’Interno. È più probabile, che fosse un cittadino che lavorava per una qualche agenzia della sicurezza che credeva alla propaganda fascista dello stato. In questo momento della storia egiziana , è quanto basta per arrestare Regeni e torturarlo a morte per il sospetto che sia una spia. Tali azioni sono gocce in un oceano di follia militare fascista, follia così fuori controllo che appena il corpo senza vita di Regeni fu scoperto, il Ministro dell’Interno diramò direttive (http://albedaiah.com/news/2016/02/16/107200 ) che obbligavano la notifica diretta a lui in persona ogni qualvolta venisse arrestato uno straniero.
L’insensata ricerca dell’inimicizia col mondo
Per molti aspetti, l’Egitto è stato storicamente un paese fortunato nel senso che il mondo ha l’inclinazione di pensar bene di esso. I popoli di tutto il mondo visitano e rispettano l’Egitto, nonostante la quasi non esistenza di contributi all’umanità da parte sua in questo momento della storia. Non tutti i paesi del mondo godono di tale status. Nell’immaginazione del mondo, l’Egitto, almeno come luogo, rappresenta veramente l’alba della coscienza umana, un onore che non viene concesso ad altre civiltà ancora più antiche, come l’India e la Cina. Questa idea emerse alla fine della campagna militare francese in Egitto del 1798, ed è dovuta al vanto bonapartista delle sue scoperte, che furono vendute alle élite francesi (https://www.goodreads.com/book/show/7003701 ) come la riscoperta da parte del mondo moderno delle proprie radici morali e civili. Nel 2009, quando il presidente degli Stati Uniti Barack Obama volle inaugurare una svolta diplomatica nella politica estera statunitense nel Medio Oriente e gettare le basi per un ritiro graduale degli americani dalla regione, scelse Il Cairo per rivolgersi ai mondi arabo e islamico. Quando scoppiò la primavera araba, la rivoluzione egiziana ricevette maggiore attenzione, diffondendo la speranza che potesse diventare epicentro di resistenza. Il mondo immaginava, e sperava che il nuovo Egitto potesse agire da avanguardia e promuovere cambiamenti in questa regione turbolenta. La primavera araba comunque si dimostrò capace di abbattere gli stati ma non di stabilire un progetto sostenibile al loro posto. Nel frattempo, i Fratelli Musulmani, si erano trasformati da potenziale partner strategico importante in una specie di armata Brancaleone dotata di insufficiente astuzia politica che li portò ad essere completamente eliminati dalla sfera politica egiziana dopo il 30 giugno 2013. In maniera opportunista, gli Stati Uniti avevano scommesso sui Fratelli nella speranza che potessero guidare una transizione democratica nel paese e nella regione, transizione democratica concepita nel più minimo dei modi. Per la loro mentalità imperiale, gli Stati Uniti immaginavano che questa organizzazione sunnita, conservatrice e coerente, con radici popolari, potesse portare la regione verso lidi sicuri e cooperativi, in linea con le sue nuove politiche di disimpegno. In altre parole, sperava che i Fratelli Musulmani potessero guidare un cambiamento politico che in realtà non portasse a nessun tipo di cambiamento.
Prima della rivoluzione, gli Stati Uniti e i loro partner consideravano con disprezzo i regimi arabi al potere, vedendo la cooperazione con essi come necessaria mentre credevano che la loro fine fosse soltanto questione di tempo. Tutto questo era abbinato a una convinzione ferrea che qualsiasi altro attore politico alternativo fosse nel migliore dei casi solo marginale. Tali convinzioni portarono a un approccio che trattava l’Egitto come un colosso deludente e che suscita pietà. Come cuore della regione, lo consideravano il malato a cui non si può permettere di cadere, anche se non si sostiene da solo, anche se non assume il suo ruolo di leadership, anche se non smette di pretendere assistenza dall’estero. Tutto questo accadeva mentre a casa si maledicevano coloro che offrivano tale assistenza con arrogante presunzione.
La situazione oggi è davvero senza precedenti. Questo potrebbe essere l’Egitto più isolato che sia mai stato visto nella storia moderna, sul piano internazionale più che su quello regionale. Da due anni o più, il nome dell’Egitto nel mondo è sinonimo di bizzarria, ma nonostante tutto, il mondo esterno continua a trattare con noi e a seguirci, a dispetto di tutti gli appelli isterici interni (https://www.youtube.com/watch?v=O-sIlv41ccQ ) all’isolamento. Il mondo tratta le assurdità del fascismo nazionale con un misto di divertita indulgenza, stupore preoccupato e disgusto, mentre a livello nazionale, i più importanti media globali vengono trattati come se fossero stati infiltrati dai Fratelli Musulmani
Il membro del parlamento egiziano Said Hassasin alza la scarpa in televisione per umiliare il leggendario giocatore di calcio Lionel Messi, dopo che questi aveva donato le sue scarpe da gioco in beneficienza ai poveri dell’Egitto. (Per gentile concessione di http://www.almasryalyoum.com/news/details/918060)
Nell’insieme, un impegno serio di influire su tutto quello che sta accadendo in Egitto sta diventando a poco a poco una partita persa per il mondo esterno, portandolo ad abbandonarlo o a intervenire svogliatamente, solo per impedire che il gigante crolli. Il mondo è ben consapevole della retorica di odio che domina l’Egitto dopo il 30 giugno e non lo affronta con ulteriore odio ma semplicemente ridicolizzandolo. Tale derisione era ovvia nella risposta dell’ambasciatrice statunitense all’ONU dopo che il portavoce egiziano aveva affermato che le aspirazioni dell’ambasciatrice di far approvare una risoluzione internazionale che criminalizzasse lo stupro e le molestie sessuali da parte di forze della pace dell’ONU fosse semplicemente frutto delle sue ambizioni personali (Perché allora dovremmo essere stupiti quando un capo di stato in una intervista ufficiale con dei media internazionali avvisa l’Europa che un crollo dello stato in Egitto manderebbe novanta milioni di rifugiati sulle coste dell’Europa (http://arabic.cnn.com/middleeast/2015/09/04/egypt-sisi-refugees )? L’Egitto sarebbe quindi ridotto a un gigante che minaccia l’Europa con lo spettro di topi che abbandonano la nave che affonda, uno scenario che l’Europa veniva invitata a prevenire.
Questa è la madre del mondo che ammette di non avere niente da offrire al mondo tranne la minaccia delle terribili conseguenze di un suo eventuale collasso (https://www.middleeastmonitor.com/20150114-sisi-if-egypt-collapses-millions-of-isis-members-will-storm-the-world/ ). Quindi perché mai non si dovrebbe rispondere all’odio con la derisione – e forse con qualche forma di quarantena, o perfino con un’occupazione eventualmente per salvare la nazione da se stessa?
Cosa fare, o si può fare qualcosa?
La rivoluzione del gennaio 2011 aveva offerto agli egiziani progressisti l’opportunità di dichiarare una sorta di riconciliazione con il mondo esterno. Per loro l’apparente solidarietà con la quale i governi dell’occidente avevano reagito alla rivoluzione non detraeva dalla sua legittimità o dalla sua natura patriottica. Durante i primi diciotto giorni delle manifestazioni mentre parte dello stato si sfaldava e dimostrava la sua incapacità di garantire la sicurezza, non ci fu nemmeno un attacco contro un’ambasciata straniera, infatti neppure una manifestazione di fronte ad una di esse, sebbene sia l’ambasciata statunitense che quella britannica fossero a due passi da piazza Tahrir. Perfino Israele, oggetto di universale odio da parte degli egiziani, non vide nessun manifestante riunirsi di fronte alla propria ambasciata fino a pochi mesi dopo la sollevazione. Questa mancanza di retorica nazionalista contro Israele potrebbe anche aver indotto l’establishment della sicurezza ad abbracciare l’idea che la rivoluzione fosse un complotto straniero. L’assenza di retorica anti imperialista nella rivoluzione di gennaio denota meno una sorta di mancanza di antipatia verso l’imperialismo che un dispiegamento tattico prudente di tale retorica. Nessun importante stato straniero aveva assunto un atteggiamento apertamente ostile contro la rivoluzione e in sostegno al regime, con l’importante eccezione dell’Arabia Saudita. In contrapposizione alla prudenza dei rivoluzionari, fin dai primi momenti, mentre era impegnato a colpire con rinnovato vigore la rivoluzione, lo stato dichiarava che si trattava di un complotto straniero architettato da quasi ogni nazione del mondo. Mentre lo stato vacillava, la televisione di stato riportava minacciosamente che un ingegnere bulgaro era stato arrestato a Ismailia, evidenza di un complotto straniero contro l’Egitto. Naturalmente, i figli della rivoluzione di gennaio non sono completamente liberi dall’ossessione dell’immagine dell’Egitto nel mondo. Anche loro, sono i prodotti del nazionalismo post coloniale egiziano. Quindi anche loro erano entusiasti del discorso solidale fatto da Obama l’undici febbraio del 2011. Si sentivano orgogliosi della visita del primo ministro britannico David Cameron a piazza Tahrir e condividevano dubbie affermazioni sul significato della rivoluzione egiziana nella storia: “la rivoluzione che ha abbagliato il mondo”.
In prima linea nella rivoluzione di gennaio c’erano giovani che erano ben collegati al mondo esterno e capaci di maneggiare i media moderni, specialmente la rete. Per questo motivo, avevano una consapevolezza dolorosa e acuta delle profondità in cui era fondato il progetto nazionale egiziano. Credevano che il momento di gennaio offrisse un’opportunità di ricollegarsi al mondo come uguali, liberati dal peso del discorso dell’identità e il loro amaro bagaglio storico.
Ma gli eventi presero una svolta tragica chiudendo la porta su ogni possibilità o spazio per il discorso politico nel momento in cui la politica stessa veniva schiacciata dalla bruta repressione, e sotto il peso di dibattiti degradati o usurati. Questo iniziò ben presto dopo la rivoluzione del 2011 e raggiunse proporzioni epiche successivamente al 30 giugno 2013. Con un argomento come quello che ho cercato di esaminare qui, uno che richiede discussioni più approfondite la questione fondamentale è trovare un punto di ingresso dal quale confrontarsi con le espressioni e pratiche dominanti messe adesso in pratica nel nome del nazionalismo e dello stato. Credo che sia arrivato il momento di coraggiosamente chiamare le cose con il vero nome. La versione attuale del discorso nazionalista egiziano è un abominazione alla quale bisogna resistere. In questo paese nonostante i nostri gravi fallimenti, abbiamo vissuto attraverso anni di sviluppo e sperimentazione, cosa più importante, l’esperienza della rivoluzione del gennaio 2011. Questo ci dovrebbe consentire di vedere l’insulsa retorica nazionalista per quello che è realmente: una perversione puramente di destra, nonostante il suo ruolo nell’abbattere lo spettro del fascismo islamico. È ora di spogliare della sua vernice progressista e di liberazione nazionale l’attuale discorso nazionalista reazionario che è infatti un nemico del progresso. Lo stato nazionale esiste in un mondo diverso oggi, uno che è già globalizzato. I vecchi significati utilizzati per considerare se stessi e gli altri non hanno più nessuna base nella realtà; il loro scopo è di confondere, non di illuminare. Semplicemente non si può mettere vino cattivo in bottiglie nuove.
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Video promozionale delle forze armate egiziane
Quando numerosi membri della borghesia nazionale hanno doppia nazionalità o dispongono di altre nazioni in cui rifugiarsi che sono pronte ad accettarli istantaneamente, quando il capitale “nazionale” può evadere dalla nazione in pochi giorni, quando i membri della sicurezza e delle agenzie della sovranità sono addestrate e protette completamente dal “nemico americano” – in tempi come questo e con questo tipo di classe dirigente, i vecchi concetti nazionalisti dell’indipendenza e dell’identità non sono più validi. Si sono evoluti in un imbroglio vero e proprio e in una ovvia criminalità. Alcuni potrebbero interpretare gli appelli ad aprirsi al mondo come veicolo per la distruzione della nazione e una vergognosa annessione ufficiale nell’ordine neoliberista del mondo contemporaneo. Non ho una risposta definitiva a questo, ma chi crede in questo tipo di affermazione va oltre. Molti sono ostili o si trovano a disagio con la rivoluzione del gennaio 2011, chiamandola un’altra rivoluzione istigata dagli Stati Uniti come quelle in Ucraina e in Georgia. In ultima istanza tali persone si troveranno a promuovere una posizione di disimpegno dall’ordine globale, che è pura assurdità e a mio parere un modo di pensare ossificato. Il disimpegno, in questo momento, non rafforzerà l’autonomia di uno stato nazionale debole, ma servirà soltanto a ricostituire i suoi legami con il mondo da una posizione di maggiore inferiorità, e con un margine ancora più stretto di azione per qualsiasi forza politica progressista nel futuro.
Quel tempo è passato. In un momento in cui l’Egitto aveva messo al bando la maggior parte di forme di commercio elettronico, la classe dirigente era online con gli Stati Uniti per organizzare il ricevimento di detenuti di Guantanámo da torturare o da buttare nelle prigioni di Il Cairo. In pratica ulteriori dichiarazioni di isolamento e disimpegno ci faranno inevitabilmente avvicinare a Israele (http://www.jpost.com/Middle-East/Egyptian-MP-Netanyahu-mediated-between-Obama-and-Sisi-following-the-2013-military-coup-446324 ), facendone il nostro unico ponte verso l’occidente. In altre parole significherebbe che lo stato, di sua spontanea volontà farebbe avverare tutti gli incubi della nazione.
Posso solo incoraggiare le forze rivoluzionarie e progressiste a liberare il discorso anti imperialista dalla semplicità mentale di coloro che lo dominano, persone che finiscono in realtà per essere sottomesse all’imperialismo e alla sua logica. Questa potrebbe essere la prima chiave per risolvere una conclusione fondamentale nel groviglio di confusioni che costituiscono il nostro attuale rapporto con i mondo. Queste forze devono credere che i valori di fratellanza ed uguaglianza umana, e l’eliminazione dello spirito di identità belligerante delle nostre menti siano ineluttabili se desideriamo liberare noi stessi e la nostra psiche dalla follia che domina i nostri giorni. Più precisamente, coloro che credono nei valori della solidarietà globale e dell’internazionalismo devono smettere di chiedere scusa per se stessi. E che Giulio Regeni possa riposare in pace.
Traduzione inglese pubblicata in Mada Masr 9 giugno 2016-06-21 http://www.madamasr.com/opinion/mother-world-against-world-and-outside-it, traduzione italiana di Pina Piccolo
Articolo originale in arabo apparso in Almanassa https://almanassa.com/ar/story/1444
Mohamed Naeem è un attivista egiziano di sinistra ed è stato capo analista politico alla Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR) tra il 2012 e il 2014. Ne l marzo del 2011 stato uno dei fondatori del Partito Social Democratico egiziano ed è stato membro della segreteria del partito fino a luglio del 2013.
Nella sua attività giornalistica e di scrittore, Naeem contribuisce regolarmente a diversi quotidiani egiziani tra cui Al Masry Al Youm, Al Shorouk e scrive regolarmente per Mada Masr e Almanassa.