“La giacca di Vermeer” e altre poesie pittoriche di Helen Wickes, traduzione di Marina Romani

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Per  le tre poesie in lingua originale inglese, vedere articolo in The Dreaming Machine n. 4

La giacca di Vermeer

Non sarebbe meraviglioso rannicchiarsi dentro
quell’oro seducente? Avvolgersi
nella veste frusciante e vellutata di charmeuse,
decorata con un manicotto d’ermellino,

abbellita con denti minuti e artigli luccicanti.
Quella donna sulla tela, potremmo definirla
il pretesto di Vermeer per un’immersione nel giallo,
un fulvo sogno a occhi aperti, bordato di pelliccia.

Non importa come la rappresenta – insieme al liuto,
con la serva, la chitarra, la lettera, il decoro delle perle  –
lei altro non è che contesto
e costume, freddezza latente

per dare risalto a ciò che brucia e risplende – dalla lucentezza dell’ottone
al fuoco del rame, un giallo per brunire il pallore dell’inverno,
per riscattare una goccia di luce – da metallica
a vellutata – una concentrazione di raggi di sole

trascinati dentro il cristallo delle vetrate.
O forse fu lui stesso a portare a casa
questo sontuoso richiamo per scaldare la musa
aspettando che l’intera casa piombasse nel sonno

e poi, una volta rintanatosi con tutto se stesso
nella seta di quel tesoro di topazio,
poteva dipingere tutto ciò che desiderava.

(Tratta da Dowser’s Apprentice, Glass Lyre Press, 2014).

 

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Caravaggio sulla Conversione di San Paolo

Non deve per forza piacerci il suo santo, disteso in mezzo alla strada,
non dobbiamo decifrare gli incomprensibili gesti delle sue braccia
che si agitano per l’aria, quest’uomo che, se potesse, vorrebbe toccare i cuori
dicendo ai pochi che andrà tutto benissimo, e agli altri – bruceremo. Ma il nostro
pittore – che non ha ancora mai lasciato nessuno morire in una rissa da strada a
Roma – adora il bagliore dell’epifania più che il preludio

o la veglia. In questo dipinto, notate la posizione del cavallo, un
pezzato scompigliato e dal muso dolce, che si curva raccogliendosi attorno
all’uomo caduto, una zampa anteriore sollevata così da non far male. Questo
cavallo da tiro preso in prestito dall’artista, condotto, sferragliando, fino allo studio
al piano di sopra, rivolge un orecchio verso lo sfondo, l’altro al di là
della cornice. Nella sua bocca

un morso probabilmente quello dalle punte acuminate, così
che, nel tirare le redini, ti trascina indietro di cinque
secoli prima che Saul diventasse Paolo, fino a
Senofonte,  che ti insegna ad addestrare il cavallo da guerra con un
morso severo, un tocco solo, e sì, obbedirà, ma non ti amerà.
Ma questo non c’entra col futuro santo: nel suo
ruzzolare fuori dalla materia verso la purezza, non sono concessi
né il piacere né facili conversazioni tra cavaliere e cavalcato.

(Tratta da Moon over Zabriskie, Glass Lyre Press, 2014).

 

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Storia dell’arte

Sulla bellezza, a volte si sbagliano,
gli studiosi eruditi, vero?,
quelli inclini al didascalico. Per esempio, proprio qui

nel Cavaliere polacco di Rembrandt, si ostinano a far notare
il suo misero ronzino, e intendono che sfigato,

intendono, siccome il nostro soldato non cavalca uno
sbuffante destriero, atletico e tirato a lucido (questo il
concetto di cavallo da guerra che hanno i curatori, derivante da
statue insudiciate da piccioni e dall’ultimo

remake dell’Enrico V), sono loro a indicarti dove leggere
il fallimento – ma che importa se il cavallo è pelle e ossa;
osserva il cavaliere armato fino ai denti

con archi, coltelli, spada e ascia, che scruta dietro le spalle mentre si affretta, si spera,
verso la salvezza, sebbene il torbido dello sfondo di Rembrandt

ci risucchi, rifiutando ogni conforto
(le zampe del cavallo, afferma la targa, probabilmente
completate dall’apprendista del maestro). Vedi,
il soldato cavalca

il tipico arabo polacco grigio tormentato dalle pulci.
Certo, questa creatura può essere smagrita, ma è in forma.
Ignora i critici, e fidati del cavallo: sopravviverà
all’inverno, al disgelo e
a qualunque sbobba i locali gli lasceranno.

Se ti levi quel sorrisetto dalla faccia e infili
i piedi nelle staffe, con un po’ di fortuna, il cavallo
troverà la strada.

(Tratta da In Search of Landscape, Sixteen Rivers Press, 2007).

Traduzione di Marina Romani

Per le poesie in lingua originale vedere The Dreaming Machine n. 4

 

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fotoHelenWickes

Helen Wickes è cresciuta nella parte sud-orientale della Pennsylvania, in una famiglia di allevatori di cavalli. Ha frequentato il Vassar  College.  Vive da diversi decenni a Oakland, in California, città in cui ha esercitato per molti anni  la professione di psicoterapeuta. Nel 2002 ha conseguito un Master in Narrativa dai Bennigton Writing Seminars. La sua prima raccolta di poesia, In Search of Landscape, è stata pubblicata nel 2007 da Sixteen Rivers Press, la seconda, Dowser’s Apprentice, e la terza, Moon Over Zabriskie, sono stati pubblicate da Glass Lyre Press, mentre l’ultima, World as You Left It, uscita nel 2015, è stata pubblicata da Sixteen Rivers Press.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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