Adrián Bravi, La gelosia delle lingue, eum, 2017.
Che Adrián Bravi fosse un fine scrittore di romanzi, lo sapevo già; che avesse una scrittura pulita e accattivante, anche questo lo sapevo già; che fosse autore di saggi, di quelli che sono capaci di spingerti e accompagnarti verso la riflessione, l’ho scoperto leggendo La gelosia delle lingue, l’ultimo lavoro dell’argentino (o italiano o italo-argentino … la questione si fa intricata!), pubblicato da eum (Edizioni Università Macerata) nella primavera del 2017.
Bravi si è affermato nel panorama letterario italiano con una serie di romanzi pubblicati da Nottetempo (La pelusa, Restituiscimi il cappotto, Sud 1982…), in cui racconta – con ironia e disincanto – le ossessioni umane o rielabora e rivive il passato argentino; si è dedicato alla letteratura per ragazzi con il suo romanzo L’albero e la vacca (ed. Nottetempo e Feltrinelli) e con una raccolta di racconti a tema migrante; è stato per molto tempo inserito in quella che veniva chiamata “letteratura migrante italiana”, definizione quanto mai superata ma che rimanda ancora a quel contesto letterario composto da autori che, nati in un altro paese – un altrove lontano fisicamente ma più spesso culturalmente, carico di stereotipi con cui spesso sono stati identificati anche i libri da loro scritti – con la scrittura hanno raccontato la loro esperienza di migrazione o ne hanno affrontato il tema.
La critica letteraria lo ha scardinato da quella categorizzazione per inserirlo in un contesto di letteratura nazionale (e anche su questa definizione ampio dibattito potrebbe aprirsi!), all’interno del quale Bravi si è mosso scrivendo in una lingua non sua, o almeno non dall’infanzia, quell’italiano che diventa per lui la nuova lingua da abitare mentre i contenuti dei suoi libri continuano a oscillare tra l’Italia e l’Argentina, ovvero tra presente e passato, segnato quest’ultimo da un’altra lingua, stavolta della sua infanzia e della sua formazione, lo spagnolo-argentino, lo stesso di Borges, Sábato, Arlt e Piglia.
In più di una circostanza Bravi ha raccontato come il vivere in due lingue sia stato a lungo motivo di riflessione. Uno scrittore lavora con la lingua, la analizza, la fraziona, ci gioca, la vive. E in questo saggio, La gelosia delle lingue, l’autore fa il punto su questa riflessione che lo accompagna ormai da anni. Nelle prime pagine del libro afferma: “passare da una lingua all’altra significa porsi di fronte a un rischio […] non si tratta di avere più o meno dimestichezza, o padronanza, quanto essere nella lingua, viverla e trasformarla dall’interno” […] Non parliamo questa o quella lingua ma siamo in questa o quella lingua”. (p. 8) E lui il rischio lo ha corso e l’ha affrontato. E ancora qualche pagina dopo scrive: “Ora qui in Italia, sento di aver recuperato la lingua paterna della mia famiglia, senza però aver perso la maternità dello spagnolo argentino. Dunque, parlo e scrivo l’italiano, ma sullo sfondo di una lingua nascosta che ancora mi suggerisce parole e toni che appartengono alla mia infanzia. Eppure, mi sento di non avere una lingua mia, una lingua senza tormenti, senza insicurezze; ovunque vada sono uno straniero che deve rovistare tra le parole e, se non trova quella giusta, deve cercare del bailamme delle perifrasi” (p. 23). Correre il rischio non significa uscire dal labirinto, ma sicuramente questo lungo percorso per Bravi ha significato trovare l’equilibrio necessario per vivere in due lingue, tra l’una e l’altra o forse in entrambe contemporaneamente.
In questa riflessione contemporanea sulla lingua, che parte proprio dalla sua personale esperienza di vita tra lo spagnolo prima e l’italiano poi (e tutto quello che questo comporta in termini di storia familiare, arrivo in Italia, estraniamento linguistico, nascita del figlio, scrivere in una lingua diversa), Bravi si fa accompagnare da altri illustri letterati che, come lui, hanno vissuto un rapporto “speciale” con le lingue: Hector Bianciotti, argentino di genitori piemontesi e naturalizzato francese, l’ungherese Agota Kristof, l’indiana Anita Desai, il brasiliano Julio Monteiro Martins che ha vissuto per anni in Italia, per citarne alcuni. In loro compagnia ci conduce nell’intricata questione della lingua che diventa spazio da abitare, parte della nostra identità all’interno di esperienze significative come l’esilio linguistico, ci racconta dell’avversione che si può provare verso una lingua, la capacità che essa ha di svelare la nostra identità, la nostra appartenenza culturale, affronta il tema della necessaria ridefinizione del concetto di letteratura nazionale, delle interferenze linguistiche e della traduzione (ricordando il ruolo che Doña Marina o La Malinche ebbe come traduttrice nella conquista del Messico da parte di Cortés).
La gelosia delle lingue è un libro prezioso, apparentemente scritto per un pubblico settoriale, di esperti della materia, per poi, leggendolo, rendersi conto che la bravura di Bravi sta nell’offrire la sua riflessione ad un pubblico ampio di lettori dotato di curiosità e sensibilità nei confronti della lingua/delle lingue, asse essenziale delle società mobili nelle quali ci troviamo – fortunatamente – a vivere, perché tutti, come lui stesso afferma “Siamo in transito tra le lingue e, allo stesso tempo, transitati dalle lingue” (p. 177)
Adrian N. Bravi nasce a Buenos Aires (Argentina) nel 1963. Si trasferisce in Italia alla fine degli anni ’80 e si laurea in filosofia all’Università degli studi di Macerata. Vive a Recanati e lavora come bibliotecario a Macerata. Nel 1999 pubblica in lingua spagnola il suo primo romanzo, Rio Sauce, e nel 2000, con Restituiscimi il cappotto, comincia a scrivere in italiano. Collabora con varie riviste e ha scritto numerosi romanzi, editi da Nottetempo. I suoi ultimi lavori, Variazioni straniere e La gelosia delle lingue sono editi da EUM, Edizioni dell’Università di Macerata. I suoi testi sono stati tradotti in inglese, in francese e in spagnolo.
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Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.