LA CITTADINANZA COME LUOGO DI LOTTA di Leonardo De Franceschi, recensione di Reginaldo Cerolini

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“Ciò mi fa credere che anche in te c’è qualcosa di anacronistico, che anche per te, sia pure in forma molto diversa dalla mia, è avvenuto che per qualche anno sei rimasta ai margini del flusso di vita e non sai come emergerti di nuovo (o credi di non sapere, mentre forse non ti accorgi di aver già da un pezzo ricominciato a lavorare)” Antonio Gramsci  19-dic. 1932 a Iulca let. 319

 

Nello stesso giorno in cui, con una lettera del Direttore Editoriale, mi viene proposto di essere inserito tra i referenti della casa editrice Aracne Editore (a cui avevo pochi giorni fa mandato il mio CV), scopro in Arcana TV che pochi giorni orsono a Roma si è fatta la presentazione del libro La cittadinanza come luogo di lotta. Le seconde generazioni in Italia tra cinema e serialità (Aracne Editore, 2018) di Leonardo De Franceschi, nella libreria Fahrenheit. Mumble mumble! Ho un sospetto. È un nome che conosco; prima ho il dubbio che si tratti di un professore italico parcheggiato in America a cui feci richiesta di lettura di suoi testi, per lo studio dei Race Movie, e che mi snobbò alla grande, ma non sono certo. Del resto i rapporti con gli accademici sono sempre incerti, quasi si fosse tra ricercatori legittimati o meno dal sigillo della nobiltà culturale degli Highlander assatanati di eterna unicità (o solipsismo).

Rileggo il mio saggio Negro a Milano (2015 Lamacchinasognante), in Cinema60 2015 presumo- e lo individuo nel testo e nella prima nota. Mi rassereno, è possibile che gli abbia anche scritto ma sono più certo di aver letto il suo interessante lavoro L’Africa in Italia. Per una controstoria postcoloniale del cinema italiano (Aracne editrice, 2013). Non solo interessante, unico nel panorama italiano. Poi mi viene in mente che la Macchinasta Madre (Pina Piccolo), mi aveva chiesto di recensirlo ed io infatti attendevo il cartaceo. Allora chiamo la Macchinista Madre confermo l’intuizione e la esorto a mandarmi anche via pdf il lavoro dell’accademico De Franceschi. Farò lo sforzo di leggere più di 250 pagine online, perché sono attento a quelle che Jung chiamerebbe sincronicità.

Detto fatto scorro con l’indice le pagine, con una lentezza atavica (la mia manualità tecnologica è negletta!), vedo che il testo a parte la cospicua prefazione Nuova cittadinanza visuale si divide in 3 capitoli. I (Ri)costruire l’egemonia, II Cittadinanza e italianità: l’ordine e la battaglia, III La seconda generazione fra piccoli e grandi schermi. Sono spaesato già alla prefazione fortemente civico-politica, infatti non colgo subito il nesso tra immaginario e cittadinanza, ma quando leggo il riferimento ad Antonio Gramsci, nell’interpretazione ‘molto densa‘ di Stuart Hall, annaspo. Poi però faccio due analogie, i riferimenti di attiva lotta civile da parte dell’autore, la formazione culturale, la funesta istanza temporale che lega lo scritto del 2013 a quello di quest’anno (2018) e capisco che l’esigenza di senso e di origine, di una finalità esistenziale alle sue competenze affondano le radici in una profonda delusione politica e identitaria dove PD, Renzi e contesto italiano di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Nuova, probabilmente anche Cinquestelle e fatti di cronaca destano un sincero sgomento. Capisco anche dai suoi molti riferimenti interdisciplinari tra storia, antropologia, filosofia, letteratura, critica e cronaca che incasellato in un soffocante sistema accademico, Quaderni dal carcere risuoni in lui come una promessa di libertà nell’idea, almeno. Mi piace. Mi riprometto di rivangare la mia ottusa rimozione di Gramsci.

Il secondo capitolo che parte dalle testate giornalistiche e politiche di Manifesto e Forza Nuova sulla visione inclusione/esclusione e aggiungerei spauracchi del ‘migrante’ estende una cronaca serrata di fatti, movimenti (tra cui G2, o seconda generazione, e le più pregnanti NonUnaDiMeno), normative europee, di manifesti culturali e prese di posizione. Si parla della presenza politica (più cospicua ed attiva quella di ‘destra’, con nostalgie da fascioraichismo), outing degli intellettuali e degli accademici ( “fin che la barca va …”), Saviano con la campagna di “bacio feroce”, dei dati ISMU-ISTAT sulla naturalizzazione degli ‘stranieri’  tra 2006 e 2016, e sulle pirotecniche impattanti di Salvini  (vox puerorum) e dell’Italia dell’anno zero 2.7.2018. C’è spazio anche per una revisione dell’inattualità di un Agamben e per una conclamato arrocco critico di un Zizek  (tempi moderni), ma a questo punto scalpito in cerca di migranti, negri o quanto meno della loro rappresentazione.

Il sadismo culturale di De Franceschi (che abbia studenti annoiati?!) ci porta fino al terzo a capitolo, cioè a pagina 129 dove con uno sproporzionato e succulento capitolo ci conduce nel vivo della tematica proposta. E qui esplode. Analizzando il declino del cinema, in favore di un emergere del postcinema a causa della minor presenza di pubblico per le ingerenze di Amazon e Netflix (chissà…), spiega anche l’emergere frammentario delle realtà meno evidenti o da botteghino, e quindi Ozpetek e la rappresentazione dell’Italia da parte del talentuoso cineasta Carpignano. Io confesso che quando per la critica culturale cita De Bois, ho quasi un orgasmo, ma questi sono fatti personali.

Quello che sorprende in questo critico ed intellettuale (prima ancor che meramente accademico) è l’estensione del suo orizzonte, l’anelito alla documentazione, il magma orgiastico della sua poliedricità di riferimenti. Per questo la sua analisi della rappresentazione, diacronica e sincronica (distinta in lungometraggi, cortometraggi, documentari, serie tv e web), che parte dal concetto di ‘stereotipo’ (Lippman 1922, Dyer, Bakhtin) in riferimento alle politiche raziali del casting (ed aggiungerei dei temi trattati) in contrapposizione con il concetto di ‘distorsione’ (Shohat, Stam) è di fatto un documento e una denuncia di una storia che stiamo vivendo sulle nostre pelli. E cosi da La presa di Roma (Alberini, 1905) sulla costruzione dell’italianità contrapposta all’alterità contenuta nelle colonie come esempi di un immaginario ‘addomesticato’ menziona, fra i molteplici riferimenti, Cabiria (Pastrone, 1913) Maciste (Borgnetto, Denizot, 1915) etc.; passa poi a presentare i film dove l’immaginario si plasma e sono Campane a martello ( Zampa, 1949), Il mulatto (De Robertis, 1950), Il nero (Vento, 1966 in cui compare anche la critica e cantante Nwosu), Faustina (Magni, 1968); i non fiction Ballata di un nero di Puglia ( Campobasso, 1981[1]), Nati sotto il segno del leone (Bortone, 1988), I colori dell’odio ( Squitieri, 1989) fino ad arrivare al 2000 con Zakaria (Deserio, 2005),  Last minute Marocco (Fraschi, 2007), Iago ( De Biasi, 2008), Mediterranea ( Carpignano, 2015) i documentari La mia Italia: madre o matrigna? (Tesfamichael, 2008), 18 Ius soli (Kworno, 2011), e il serial web Arabiscus-le conseguenze dell’invasione (Moutamid 2016-17), ed i film Il pugile del duce (Saccucci, 2017), A Chambra (Carpignano, 2017 candidato all’Oscar).

Ci sono certo molte perplessità nell’opera pioneristica e priva di riferimenti (a parte Gramsci)[2] dogmatici (che sia un orizzonte di libertà? …[3]), che vuole essere testimonianza, coscienza ed atto civile di narrazione critica della multiculturalità che attraversa lo stivale. Il cinema ha poi un limite, è un’industria costosa e volente o nolente, se non per sorte, chi vi si avvicina è già parte di un parziale engagement [4]. Questi non sono limiti espressivi né di immaginario – ci mancherebbe!, il Neorealismo insegna-, ma certamente dati fattuali di un egemonia della narrazione ben al di là della provenienza e della pelle. Allo stesso modo lo spazio di diffusione del mezzo cinematografico e le classi sociali e non classi (i migranti) che tocca devono essere certamente esigue ancora, non condividendo una storia di autoidentificazione, il che di norma succede col raggiungimento del riconoscimento di stato di umanità prima (soggetto degno di vita e di valore)[5] e civile poi (quindi anche di cittadinanza).

Nonostante questi limiti storici, di cui l’autore non è responsabile (e come potrebbe!?), come fu per Quaglietti, traduttore e primo ricercatore divulgatore italiano, con il libro Il negro nel Cinema di Noble, e come fu per la voce solista di Nwosu con il libro Cinema e Africa[6] questo testo di De Franceschi carico di contemporaneità viva e soggiacente è già storia e come tale, si tratta di un riferimento imprescindibile. Lunga vita alla capacità critica ed al Cinema!

 

Reginaldo Cerolini

[1]                     In Cinemafrica è sempre di De Franceschi, nel sito di cui è direttore, la presentazione dell’iter artistico di Antonio Campobasso: http://www.cinemafrica.org/spip.php?article1556. De Franceschi oltre all’attività di docente dirigere la rivista Studi postcoloniali di cinema e media, organizza e promuove eventi culturali legati al tema della migrazione e del cinema.

[2]                     Ma io suggerirei anche, e senza proselitismo, un sempre verde Michel Foucault, un rampante Pierre Bourdieu, un dimenticato Rodney Needham, uno smaliziato Clifford Geertz, per non parlare di Margaret Mead, Pina Piccolo, Tony Morrison, Abadias Nascimento e ovviamente James Baldwin etc. .

[3]                     Secondo quanto mi disse Mino Argentieri superata la selezione della pigra ignoranza dei docenti di Letteratura, di Storia e Di Filosofia, le novelle cattedre di Cinema furono officine di libertà e lotta civile fin da subito.

[4]                     Ne ho un’esperienza diretta come Free Lance, come studente ‘masterizzato’ alla New York Film Academy etc. Ritengo che solo i cortometraggi, veri e propri atti di devozione da parte degli autori, e l’web anarchico (non quello blasonato e a sua volta inglobato) hanno ancora una libertà autoriale che raramente è frenata da limiti economici e dalla visibilità mediatico-rappresentativa.

[5]                     E ciò nell’Italia del 2018 si mostra possibile solo con un’immediata risposta sociale – ben oltre l’identificazione politica- o con una guerra raccapricciante di non umani ( o almeno non ancora intesi come tali, ovvero i migranti) e civili ( gli italiani ed europei, -sic!-)

[6]                     In Antropologia diremmo, una visione emica.

 

Per accedere all’intervento di Leonardo De Franceschi sul suo libro, contenuto in questo numero di LMS cliccare su questo link http://www.lamacchinasognante.com/cinema-serialita-e-g2-verso-una-nuova-cittadinanza-leonardo-de-franceschi/

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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