La bufera che viene. Note di lettura a “Stranieri” di Francesco Sassetto

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a cura di Paolo Polvani

 

 

 

 

L’ultimo libro di versi di Francesco Sassetto scandaglia la cronaca, pubblica e privata, e ce la restituisce sotto forma di piccole storie, ballate in cui riverbera il fuoco del quotidiano, di quelle minime vicissitudini che ci vedono testimoni degli accadimenti che riguardano un’umanità spicciola, marginale, frettolosa, sospinta alla periferia della storia.

Qui è la consapevolezza che sconfigge la distrazione entro la quale ci dibattiamo con una certa colpevole familiarità, perché sono tante le vicende che ci sfiorano e che preferiamo ignorare, abbandonare alle derive dell’indifferenza.

Emblematico di un disagio appare già il titolo, Stranieri. Nella sequenza delle poesie, il lettore incontrerà figure di stranieri, ma incontrerà anche molte situazioni e storie che con gli stranieri non hanno un legame diretto, per cui siamo autorizzati a ipotizzare che si tratti di estraneità esistenziale quando si parla della situazione di Venezia, e soprattutto quando si parla della scuola, dove le direttive operative giungono da un potere che ha perso qualsiasi legame con la realtà. Stranieri indica dunque un sentimento di separazione, di distanza tra noi e le persone, tra noi e le situazioni.

Ho spesso pensato che la poesia trovi la sua principale sorgente nello sguardo, ma forse lo sguardo non è che il mezzo, il canale privilegiato di trasmissione, perché nel caso di Stranieri credo si possa affermare che nascono dalla pelle i versi di cui è intessuto il libro, nascono dall’impatto con la sensibilità del poeta, da una sua particolare ricettività, empatia, dalla ferita, dall’amarezza, dal senso di frustrazione e anche di colpa che accompagna quello sguardo.

E si esprime attraverso la lingua più vicina e diretta, quel veneziano che certamente è stata la prima fondamentale esperienza con cui si è imposta fin da bambino la consapevolezza del reale. Sarebbe interessante conoscere dall’autore quale sia stato il criterio discriminante della scelta della lingua, perché la prima parte si esprime in veneziano, la seconda in italiano, con temi che vengono trattati indifferentemente nei due idiomi.

Così apprendiamo dai versi che Gigi è sparito da tre mesi (no ‘l xe più drìo del bancon) perché affetto da un male grave, e non tornerà più, e nel trambusto del bar di prima mattina, con i clienti di fretta e i camerieri affannati, e la preoccupazione dell’acqua alta che si preannuncia, la rivelazione viene sussurrata come un segreto, un’afflizione che passa svelta. Apprendiamo della mamma malata, che non vedeva l’ora di andar via di qua, dai dottori, dalle badanti, dal girello, e di Mario, che tàca botòn co tute quante, el ride, el schersa… poi ascoltiamo il racconto della signora anziana, in treno, che ha perduto da poco il marito e si chiede e che cosa faccio adesso che lui non c’è più ?

Alcune ballate amare sono dedicate alla situazione di una scuola sempre più squilibrata, stretta nell’assedio di una burocrazia oppressiva e dalle aspettative delle famiglie, e nel mezzo dei fuochi i ragazzi, condannati a istupidire, a inseguire miraggi illusori. E poi Venezia, venduta e mercificata, e la festa del 25 aprile, disertata dai politici, e con la statua della Partigiana che:

sta là abandonàda, coverta da le onde…un brasso drito a mostrar un domàn / che no xe mai rivà.

Sembra che il presente non conceda margini di salvezza né di speranza:

qualcuno dice

che dovrà arrivare un salvatore

lo dico anch’io

ma temo giunga un altro carnefice sorridente

messia di qualche nuova forma del dolore.

Ora la poesia pone domande più che offrire risposte, la poesia non s’illude di cambiare il mondo, e tuttavia non rinuncia a sperare, a tentare, ad andare nella direzione di un cambiamento. Le mie poesie non cambieranno il mondo, recita una famosa poesia di Patrizia Cavalli, e con la mente razionale anche noi concordiamo, le poesie non bastano per cambiare il mondo. Il mondo cambia per i fatti suoi, è troppo impegnato nelle sue velocità, nei suoi traffici e nei suoi drammi. Eppure il poeta non rinuncia alla sua illusione, di scrivere per costruire un argine alla disumanizzazione, alla indifferenza, alla crudeltà di chi si volta dall’altra parte. In un bellissimo libro dal titolo La forma dell’anima, il regista russo Andrej Tarkovskij scrive: – L’arte non esiste solo per riprodurre la realtà. Deve anche armare l’uomo di fronte alla vita, dargli la forza di contrapporsi ad essa… – e ancora: – Pur non offrendo risposte pronte, l’arte ci lascia una sensazione di fede.. L’arte ci dona questa fede e ci riempie del sentimento della nostra dignità. Inietta nel sangue dell’uomo, nel sangue della società, una sorta di reagente, di resistenza, la capacità di non cedere.. L’uomo ha bisogno della luce. E l’arte gli dona luce, fede nel futuro, prospettiva.-

Così la poesia, che costituisce la forma più alta di eloquio umano, e secondo Brodskij rappresenta per l’uomo il suo imperativo biologico, non si limita a dispiegare la sua energia sul fronte estetico, ma coinvolge il piano etico, investe la coscienza di una fiammata di fede. Altrimenti Francesco Sassetto non avrebbe scritto una bellissima poesia dal titolo

Siamo cresciuti con la guerra di Piero

nel cuore e le lettere piene d’amore del poeta

in trincea e Dylan e Remarque e Uomini contro

siamo stati obiettori, disertori all’appello

alle armi comandato dall’alto,

col disgusto nel ventre per divise, bandiere,

costruttori di morte

e patria, eroe e onore

le bestemmie della mia generazione.

Ed è con questo spirito che vengono letti e affrontati gli avvenimenti del mondo, i drammi che non ci sfiorano più soltanto, ma c’investono ogni giorno con la crudeltà di un’evidenza non procrastinabile, soprattutto la tragedia dell’immigrazione, che vede il nostro paese in prima linea nella diatriba tra accoglienza e respingimenti, con la sola voce del Papa rimasta a dire “qualcosa di sinistra”, o forse meglio a parlare ancora con voce umana. E la poesia può anzi deve svolgere questa funzione di argine, deve impegnare i suoi muscoli nella difesa a oltranza del restare umani.

Sentila, sentila bene anche tu la bufera che viene,

questa tempesta straniera che preme,

che avanza dall’est, dal sud della fame

e sbarca alla vigna ubertosa

dei signori d’Europa e vuole

il lavoro e la casa

e vuole una fetta del sole

che accarezza quest’aiuola felice del mondo.

E tutto questo fa nascere paure, diffidenze, e una ferocia nuova, quella che affila le unghie, e spranga porte e balconi, e alza la voce, e invoca leggi e pistole, e cani e cancelli a difesa del suo metro di terra.

  • E l’aria già odora di guerra.

Così tutte le poesie del libro registrano sentimenti, discorsi, situazioni quotidiane in cui l’autore vive sulla propria pelle l’esperienza diretta e indiretta del fenomeno epocale della migrazione, ascolta i discorsi della gente, annota, riflette, appunta:

  • Noi dalle nostre rive sfogliamo stancamente il giornale

che già annuncia altri barconi in avvicinamento, assuefatti

alla compassione ad intermittenza. –

La parte finale del libro è tutta dedicata alle esperienze personali, fatte nell’esercizio della professione di insegnante nei centri territoriali permanenti per l’educazione in età adulta, dove agli stranieri vengono forniti i primi rudimenti della lingua italiana, passo iniziale verso l’integrazione.

  • I nuovi arrivati hanno comprato case e

negozi svenduti dai precedenti abitatori

fuggiti altrove e ora si sta tra kebab,

telefonia e copisterie mediorientali, pulitrici

a secco bengalesi, sarti indiani, librerie

di corani e preghiere musulmane. In fondo

a via Aleardi una moschea, un’altra a destra

di via Dante, la sera prostitute nigeriane..

Versi che fotografano una situazione diffusa all’interno del paese, e un’altrettanto diffusa atmosfera:

si respira

silenzio e ostilità, tacita avversione, ansietà,

si viaggia tutti a batticuore, tutti ignoranti,

stranieri e distanti, nella notte

tutti senza amore.

Un libro senza dubbio dalla forte valenza storica e sociologica e antropologica. Un libro che registra una situazione complessa. Un libro che tuttavia spalanca le porte al sentimento dell’empatia, della solidarietà, contribuisce a creare un baluardo contro la disumanizzazione crescente.

Scritto parte in veneziano, parte in italiano, si avvale di un verso narrativo, lungo, che non rinuncia a una pregevole, artigianale fattura, e ci restituisce la capacità di uno sguardo buono. Attraverso frammenti, sprazzi di vita, narra le vicende di un’umanità in fuga, così la cinese qui ribattezzata Giulia che sa bene la miseria

l’acqua alle ginocchia

la schiena che si spezza

la risaia che ammala e ammazza..

Sono brevi lampi che illuminano squarci di esistenze, la marocchina Assira che ora

scrive la sua cupa storia tutta d’un fiato

due pagine piene…

e l’albanese Marjie, alla quale non rimane che passare il mare

che ti sta davanti, una notte, in gommone,

tutta la famiglia

da Durazzo a Bari.

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Foto in evidenza di Lucia Cupertino

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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