tratto da Giovanna Pandolfelli, Guanti bianchi, Edizioni Draw Up, Latina, 2016
Quei suoni rimbombavano nella sua testolina, fragile, ma già matura abbastanza da capire che qualcosa si era guastato. Da quando quel giorno aveva saputo dell’incidente, non era più riuscita neanche a giocare con quei suoni. Era come se una parte del suo cervello si fosse oscurata, così d’improvviso e, insieme a suo padre, fosse morta per lei tutta una civiltà, un’identità, una cultura. «Torno presto» le aveva detto sulla porta e, come accadeva ogni volta, le aveva dato un buffetto affettuoso sulla guancia ed era uscito di casa con la sua ventiquattrore. Si era allontanato come ogni volta, con la promessa di tornare. Non era solito lasciarsi andare a smancerie, lui, era uomo del nord, un nord dove i sentimenti non si mostrano con facilità, dove specie gli uomini non parlano di ciò che provano né con gli altri né probabilmente con se stessi. Era abituato così, il suo papà e, nonostante vivesse da tanti anni in Italia, mai questo suo intimo pudore lo aveva abbandonato. Aveva conosciuto la mamma da giovane e da allora non si erano più lasciati, nonostante la distanza, e poi avevano scelto di venire a vivere in Italia. La nonna paterna, ormai vedova da tanti anni, si recava spesso a trovarli, anche se il sole del sud le dava molto fastidio e preferiva le mezze stagioni o addirittura l’inverno. Il papà lavorava con la Germania, quindi aveva occasione di fermarsi dalla nonna e di rivedere i suoi vecchi amici, per non sentirne troppo la mancanza. Non che non avesse amici dove viveva, ne aveva, anche di varie nazionalità, amava molto la città che lo aveva adottato e non sarebbe mai voluto rientrare in Germania, ma c’era sempre qualcosa che lo attirava verso quelle latitudini, qualcosa che andava oltre gli affetti familiari, un richiamo atavico che lo spingeva lì.
Quella mattina, come spesso accadeva, doveva recarsi per qualche giorno nella Germania meridionale per incontrare un cliente. «Affare di pochi giorni, vado e torno.» Era salito sulla sua macchina ed era partito spedito. Nessuno seppe mai bene come fosse accaduto: un colpo di sonno, un malore improvviso. Purtroppo, ironia della sorte, era accaduto sulle Alpi italiane, un incidente banale, avvenuto però entro i confini italiani. Gioia era sicura che il papà avrebbe preferito che succedesse sul versante svizzero, più vicino alle proprie radici. Gioia sentiva in lei radici profonde consapevoli che avevano prodotto due tronchi di egual misura: più robusto l’uno alla base, con un rigonfiamento all’altezza di un grosso nodo a pochi centimetri da terra l’altro. Dal giorno dell’incidente, era come se uno dei due tronchi, radicati dentro le sue viscere, si fosse d’improvviso seccato, fosse diventato piombo nel suo corpo, che lei ormai trascinava da mesi come un macigno incatenato alle sue gambette infantili. Lo sapeva Gioia che quell’albero non sarebbe più rivissuto, che da quel tronco secco non sarebbero spuntati più rami, quei rami che l’avrebbero fatta crescere, le avrebbero aperto nuovi orizzonti, l’avrebbero fortificata con il loro sostegno. No, quella parte di sé era morta con suo padre e i suoni della sua lingua si erano svuotati come il corpo del suo amato genitore dell’anima. Quella lingua per lei tanto dolce, che lei, bambina assetata di amore, assorbiva dai pori della sua pelle sin da neonata, era la lingua del maschio primordiale, delle braccia forti che la sollevavano, della barba che le solleticava il viso, lui era la sua lingua, che nessun altro sapeva pronunciare come lo faceva lui. «Ha un suono duro, sgraziato, tutt’altro che musicale» aveva sentito dire più volte dagli adulti riferendosi al tedesco. Ma lei non si offendeva, sapeva che quella gente parlava così perché non capiva il significato di quei suoni che per lei volevano dire gioia, allegria, sicurezza, protezione. Dopo il lutto, Gioia non aveva smesso di sorridere, no, non aveva cessato di giocare, no, era riuscita a contenere il proprio dolore in una bolla avvelenata che le aveva tolto la parola, non tutte le parole, ma solo quelle che provenivano dalla bocca di suo padre. «Gioia, mi senti?» gridava la madre tra il preoccupato e l’innervosito, «rispondi alla domanda della nonna?» Gioia era intenta a giocare sul tavolo della cucina, mentre le due donne preparavano il pranzo. Dalla morte del padre la nonna paterna si era trattenuta sempre più a lungo a casa loro, accolta come una di famiglia ben contenta di avere qualcuno con cui condividere il proprio dolore. In Germania le restavano parenti lontani, una sorella sposata a Berlino che aveva la sua vita. A lei non rimaneva nessuno se non la famiglia del figlio in Italia. «Sì, mamma, ti sento.» Ma no, non poteva rispondere, quella bambina adulta, Gioia-a-metà non poteva superare quel macigno perché quei suoni giungevano alle sue orecchie, ma la sua mente si rifiutava di decifrarle. Quella lingua apparteneva al papà, aveva il suo odore, il suo sapore, il suo timbro di voce. Era arrabbiata, Gioia, ce l’aveva con la nonna paterna perché si era impossessata impropriamente di quei suoni sacri, e così ce l’aveva con tutti quelli che pretendevano di imitare l’espressione di suo padre. Come osavano servirsi di quel codice che apparteneva solo a loro due, il codice dell’amore, della tenerezza, che un intero popolo assurgeva a lingua senza rendersi conto che ogni parola per lei era un pugnale? Avevano un’arma acuminata nelle proprie bocche che non faceva che allargare le sue piaghe. «Gioia, ma se parli con me perché non rispondi alla nonna? La nonna voleva molto bene al papà, sai tesoro, era suo figlio, gli voleva bene come papà ne voleva a te, le dispiace che tu non le rivolga la parola.» Gioia si fece pensierosa, sembrava che tutta la sua storia stesse attraversando i suoi occhi, sembrava che il suo pensiero raggiungesse sensazioni primordiali, finché si girò con lo sguardo di chi grida eureka verso la mamma. «La bambolina di pezza, mamma, dov’è?» La mamma mise per una volta da parte la ragione e cercò di seguire i pensieri liberi dell’infanzia. La prese per mano e la portò verso il grande cesto di vimini dove la sera solevano riporre insieme i pupazzi prima che la mamma accompagnasse Gioia a dormire… Affondarono insieme le braccia tra le forme di stoffa, braccia di adulto che diventano bambine, rami che raggiungono la luce attraverso il fitto della foresta ombrosa. Le loro dita incontrarono fili di lana, pizzetti, stralci di panno, finché non raggiunsero l’agognata bambolina di pezza, non una qualunque, ma quella che il papà aveva riportato a Gioia in regalo da un suo viaggio in Germania. «Ecco la bambolina, lei parla come papà» esclamò Gioia. La mamma ebbe sentimento che qualcosa stesse cambiando, ma non seppe dire di cosa si trattasse. Da quel giorno la mamma osservò come Gioia giocasse con quella bambolina di pezza e il suo viso cominciasse a rischiararsi di una luce diversa, finché un giorno la bambina e la bambolina non cominciarono a dialogare nella lingua del papà, quella lingua perduta e poi ritrovata, perché la lingua non è solo un insieme di parole, ma una sfera di sfumature cromatiche e sonore che vive dentro di noi come una pianta che si nutre di sensazioni e di legami.
PANDOLFELLI GIOVANNA. Italiana, residente da tempo in Lussemburgo, ha studiato in Italia e in Germania. Impegnata nella diffusione della lingua italiana all’estero, è presidente della “Dante Alighieri Lussemburgo”. Ha lavorato come insegnante di italiano per stranieri e ha una lunga esperienza come traduttrice presso l’UE. Nel 2015 ha ottenuto un incarico di docenza presso l’Università di Treviri, Germania.
Foto in evidenza di Lucia Cupertino, Il lume della bisnonna
Foto di Giovanna Pandolfelli, a cura dell’autrice