Kahlil Gibran e la riconciliazione blakiana degli opposti (Sana Darghmouni)

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Blake is the God-man. His drawings are so far the

profoundest things done in English – and his vision,

putting aside his drawings and his poems, is the most godly.

 

Kahlil Gibran in una lettera del 06 ottobre 1915 a Mary Haskell[1]

 

 

 

Ispiratosi al modello europeo e soprattutto ai suoi grandi pionieri, il romanticismo nel mondo arabo nasce come un movimento di radicale opposizione al classicismo della letteratura e del pensiero precedenti. Così all’inizio del ventesimo secolo si sviluppa, fra vari scrittori arabi, una coscienza romantica alla ricerca di un nuovo linguaggio e di un’adeguata struttura di pensiero; tale coscienza comincia ad acquistare la sua maturità confrontandosi, da una parte, con le esigenze del contesto sociale in cui nasce e, dall’altra parte, aprendosi alla letteratura occidentale, soprattutto alla ricca e vasta tradizione ottocentesca. Una figura poetica di primo piano in questo percorso è senz’altro Gibran che, scoprendo il modello romantico, ne ha permesso l’introduzione, anche se in forma non subito ufficiale, nella letteratura del mondo arabo. In questo articolo mi soffermerò sulla più evidente influenza da egli subita, cioè quella del modello poetico di William Blake.

Di origine libanese, vissuto e morto in America a cavallo fra fine 800 e inizio 900, adottando sia la lingua araba nei primi anni della sua carriera letteraria che quella inglese nelle opere della maturità fino alla morte, lo scrittore del movimento Mahjar[2] Gibran Kahlil Gibran si trova sin dall’inizio del suo percorso dinanzi ad una contraddizione lacerante tra due mondi diversi, Oriente e Occidente, che egli da scrittore immigrato risolve solo con l’arte, specialmente la poesia, nella sua veste di riconciliatrice degli opposti. A distanza di quasi un secolo dalla grande stagione del romanticismo europeo, lo scrittore libanese viene, appunto, definito da A. Rodin nel 1908 “le William Blake du vingtième siècle”[3], per la sua poesia visionaria, per il suo tentativo di trovare una sintesi alle contraddizioni più rilevanti e per la consapevolezza stessa che egli aveva delle proprie doti profetiche, come scrive in una lettera del 1930 a May Ziadeh:

I was born to live and to write a book –only one small book- I was born to live and suffer and to say one living and winged word and I cannot remain silent until life utters that word through my lips.[4]

 

 

Gibran incarna, prometeicamente, il simbolo del genio romantico in lotta contro la realtà mediocre con la quale si scontra costantemente nel suo itinerario verso l’infinito, ma che proferirà la sua parola per la quale è venuto al mondo, una parola profetica che lo ha sempre infiammato finché non si è finalmente concretizzata nella produzione artistica. Il suo “living and winged word” di cui parla nella lettera citata si è tradotto infatti in un messaggio di amore e di libertà, in una poesia di unione che cercherà di abbracciare gli opposti, di riconciliare le contraddizioni e di stringere le distanze, fino a fonderle in un incontro ideale, ispirandosi ai precedenti ideali ottocenteschi di cui si è nutrito il pensiero romantico europeo, e, in particolare, al poeta inglese William Blake, “the God-man”, secondo le parole di Gibran stesso. La scoperta di Blake, avvenuta proprio grazie a Rodin nei primi anni di contatto del giovane scrittore arabo con la cultura occidentale durante un viaggio-studio a Parigi[5], è stata molto decisiva e importante per la sua formazione futura, e Gibran ricorda così l’incanto duraturo di questo momento straordinario:

How strange, that fates should led me to-day to Rodin who led me to Blake. Truly do they say that things do not happen except in their due time. There is a due time for everything. I always thought me a stranger in this world. Now comes Blake to keep me company. I thought me a lonely wanderer; now is Blake with his torch lighting my path. What kinship is there between me and that man? Has his soul come back to this earth to dwell in my body? (…) I shall be happy when men shall say about me what they said of Blake: ‘He is a madman.’ Madness in art is creation. Madness in poetry is wisdom. Madness in the search for God is the highest form of worship.[6]

 

 
Kahlil Gibran, Hands, Female, Nude, Baby, 1919 (Brooklyn Museum)(1919)

 

A sostegno dell’affermazione profetica di Rodin, la prima affinità palese che lega Gibran a Blake è senz’altro quella dell’uso contemporaneo di due arti espressive, ovvero la poesia e la pittura, non sempre indipendenti l’una dall’altra, specialmente nel loro caso. Infatti, unendo la parola al disegno, in un quadro armonico, i due artisti danno piena espressione al loro pensiero scegliendo, pertanto, una scrittura simbolica, basata sulla realizzazione di una mitologia in cui convergono, in un modo coerente, il verbale e il visivo. E così, nasce, nelle loro opere e in modo particolare nella loro poesia, il mondo mitologico come una specie di controsistema in cui il concettuale e il visivo convivono, traducendosi in un genere visionario e di unificazione. Blake tenta la riscrittura della realtà e la ridefinizione del processo vitale in chiave simbolica, ermetica a volte, ma la fonte ispiratrice della narrazione blakiana rimane comunque la Bibbia, in quanto la sua mitologia si accosta al mito della caduta e alla figura salvifica, identificata con Cristo o con il “Genio Poetico”, che riscatta l’umanità dal peccato originale. La mitologia gibraniana percorre lo stesso itinerario, perché comincia partendo da un mondo popolato da dei e abitato da angeli e demoni, per poi fluire anche essa in una sintesi di chiave cristiana, che coincide sia con la figura di Gesù, tanto amata dallo scrittore libanese fino all’ossessione, che con il messaggio della salvezza finale e dell’amore, sfondo quasi costante della sua produzione artistica.

Comunque quella dei due artisti, anche se ispirata al messaggio biblico, rimane una mitologia piuttosto personale creata per fungere da maschera dietro la quale nascondere, a volte, le proprie delusioni del mondo e, altre volte, la propria consapevolezza di una realtà contradittoria nella quale si trovano a dover vivere; è la consapevolezza dello spirito romantico, dissidente e ribelle, che, una volta rigettato il mondo reale del suo tempo, ha bisogno di creare e di dipingere un mondo nuovo, il proprio. Tuttavia, nonostante il suo carattere personale, questa mitologia è anche un ordine in cui convergono passato e presente, in cui il destino individuale si estende ed abbraccia quello universale, in cui visione e storia si sposano. Spesso il ricorso a trame mitologiche potrebbe essere l’espressione velata di un desiderio profondo di cambiare l’ordine attuale e di un richiamo esplicito alla rivoluzione. Nell’impotenza di attuarla, si cerca di sconvolgere la struttura del reale creando un mondo fantasioso e irrazionale sul quale proiettare le proprie frustrazioni e aspettative mancate, e quindi si può affermare che la mitologia dei due artisti, intesa come alternativa, non è soltanto un rifugio idealistico, ma ha anche alcune implicazioni di tipo politico, perché usando un genere di tipo apparentemente irreale, i poeti lasciano intravvedere le loro critiche e disapprovazioni. Consapevole della reazione forte che i suoi scritti spesso suscitano nel mondo arabo dell’epoca, per le proprie posizioni politiche e letterarie in genere troppo audaci e provocatorie per lo spirito di allora, Gibran confessa in una lettera all’amica Mary[7]:

I am an Absolutist, Mary, and Absolutism has no country –but my heart burns for Syria. Fate has been cruel to her – much more than cruel. Her gods are dead, her children abandoned her to seek bread in faraway lands, her daughters are dumb and blind, and yet She is still alive –alive –and that is the most painful thing. She is alive in the midst of her miseries. I am writing something which may turn the whole Arabic world against me. But –I am prepared for it! I am getting used to being nailed on the cross.[8]

 

Quasi tutti i poemi di Blake, soprattutto quelli del periodo della maturità, ruotano attorno al tema della caduta che il poeta romantico personalizza e percepisce come il mito della divisione che avviene all’interno dell’io. Nonostante questo suo carattere conflittuale, essa è tuttavia, secondo la concezione di Blake, un processo obbligatorio determinato dalla scissione dell’unità originaria, ovvero dal passaggio dallo stato dell’innocenza a quello dell’esperienza.

Infatti nella prospettiva gnostica la caduta interviene non solo a spiegare la scissione ma anche a preparare, come destino provvidenziale o atto della divina misericordia, ciò che concilia e salda e restituisce a sé l’unità disintegrata. E in questo senso, veramente, la caduta esprime il momento della mediazione.[9]

 

The Four Zoas, ad esempio, si apre con il canto delle figlie di Beulah che introduce l’evento della caduta di Albione e, sin dal principio, si nota il carattere salvifico e positivo che Blake attribuisce ad un fenomeno come quello della caduta che diventa strumento di rinascita: l’io compie una discesa verso il mondo della finitezza fino ad arrivare al regno della degradazione, o addirittura alla morte, per poi rinascere in eterno. Prima della scissione, i quattro eterni partecipavano all’unità originaria con la quale erano in assoluta armonia, ma dopo la caduta e dopo che Albione si è trovato nella condizione degradata di un uomo caduto, l’armonia iniziale viene spezzata e, di conseguenza, subentrano sentimenti di conflitto e di contrasto tra gli stessi Zoa. In principio, cioè nello stato originario, questi esseri rappresentavano quattro elementi fondamentali nella natura umana, Urizen, la ragione; Urthona, l’immaginazione; Tharmas, il corpo; Luvah, l’emotività. E con la caduta e con il conseguente capovolgimento degli ordini, invece, la situazione si rovescia: gli Zoa continuano a rappresentare gli stessi elementi ma nella loro negatività, cioè nel loro stato degradato. In seguito all’allontanarsi dalla fonte primaria, essi entrano in conflitto tra di loro e si combattono, nelle prime sette notti del poema, e così all’armonia originale si sovrappone la volontà di predominio sull’uomo: con la caduta, passaggio necessario e inevitabile per recuperare l’integrità perduta, diventano strumenti di restrizione e di annientamento e fonti di fratture continue[10]. Il finale del racconto, tuttavia, esalta la rinascita e il trionfo che passano attraverso la scena apocalittica:

 

The Sun arises from his dewy bed, and the fresh airs

Play in his smiling beams giving the seeds of life to grow,

And the fresh Earth beams forth ten thousand thousand springs of life.

Urthona is arisen in his strength, no longer now

Divided from Enitharnom, no longer the Spectre Los.[11]

 

Nella sua opera The Earth Gods, anche Gibran tratta il tema della caduta e del conflitto che affligge l’anima umana prima della risoluzione finale, quella della divinizzazione dell’io, the god-self[12]. Il poema, imperniato sul destino dell’uomo, è scritto in forma di dialogo fra tre dei, che rappresentano tre grandi tendenze del cuore umano, mentre l’uomo, oggetto di questo dibattito titanico, sembra un campo aperto sottoposto alle influenze di un conflitto invisibile ma infinito. In questa lotta, i due destini, quello divino e quello umano, devono intrecciarsi per giungere ad un’unica meta finale, poiché, nella mitologia gibraniana, gli dei non sono altro che il simbolo stesso di tre desideri, non manifestati, della natura umana che, a sua volta, non è altro che il prolungamento dell’io divino. L’apparizione dei tre dei, the Master Titans of life[13], anche qui avviene di notte, quando entrano in scena e iniziano i loro dialoghi in un’elevata atmosfera notturna che aleggia sulle colline. Il primo è un vecchio dio pessimista, dallo sguardo spento, disgustato dalla vita e stanco delle sue faccende che desidera il proprio annientamento; i valori, per costui, non sono che delle vanità e la sua unica brama è quella di svanire e di annientarsi dalla memoria del tempo per passare al nulla:

 

Weary is my spirit of all there is.

I would not move a hand to create a world

Nor to erase one. (…)

Could I but lose the primal aim

And vanish like a wasted sun; (…)

Could I but be consumed and pass from time’s memory

Into the emptiness of nowhere![14]

 

Diversamente dal dio del pessimismo, nel second God, emerge una grande volontà di potere e di espansione, che lo spinge ad esaltare la vita e, di conseguenza, a scartare la morte sostenendo che gli dei governano la vita e lo spirito, che solo loro conoscono i misteri e i segreti del tempo e che crearono l’uomo dal matrimonio tra il mare e il sole[15], e anche qui il tema del matrimonio tra gli elementi come primordiale comunione degli opposti richiama indubbiamente un’analogia con il pensiero blakiano; il secondo dio è il dio dell’ambizione, il cui scopo è quello di dominare l’uomo e di trarne beneficio e lode:

I would not be so vain as to be no more.

I could not but choose the hardest way;

To follow the seasons and support the majesty of the years; (…)

To raise man from secret darkness,

Yet keep his roots clinging to the earth;

To give him thirst for life, and make death his cupbearer; (…)

Thus shall we rule man unto the end of time,

Governing the breath that began with his mother’s crying,

And ends with the lamentation of his children.[16]

 

Il third God invece predica l’amore come unico senso e valore della vita, mentre i primi due, uno immerso nel suo pessimismo e l’altro accecato dal desiderio di dominio, continuano a dialogare senza prestare attenzione a ciò che dice l’ultimo, che, tuttavia, finisce per trionfare alla fine e a guidarli attraverso la strada della bellezza per rendere loro l’amore accessibile. Nella sua prima apparizione, la terza divinità introduce i suoi valori usando la metafora del ballo, come movimento liberatorio e trascendente, e sollecita gli altri ad osservare la danza di una fanciulla sotto la luna:

Brothers, my august brothers,

Down in the myrtle grove

A girl is dancing to the moon,

A thousand dew-stars are in her hair,

About her feet a thousand wings.[17]

 

Come i quattro Zoa di Blake, anche i tre dei della mitologia del poeta libanese rappresentano tre tendenze prevalenti dell’animo umano, in uno stato di turbamento e di conflitto tra di loro. Dopo la caduta, l’anima, schiava del suo carattere terreno, è ancora prigioniera in un io che non ha ancora percorso la strada verso la divinizzazione, secondo la filosofia gibraniana. La condizione che Blake definisce “Selfhood”[18], per esprimere l’atto con il quale l’io pone sé stesso al di sopra di tutto, allontanandosi così dalla divina visione, è lo stato in cui si trovano i primi dei di Earth Gods, il primo perché esalta il suo io negativo, il secondo perché colloca la sua ambizione egoistica al di là di ogni altra considerazione. Nella mitologia blakiana, di carattere molto più complesso, il dio della ragione, figura demiurgica in opposizione con l’immaginazione, e quindi con la visione, viene sconfitto, e così la caduta si rovescia in un’apocalisse e, infine, in una rinascita. Alla ragione astratta e basata sul controllo misurato e sulle leggi morali, il poeta inglese contrappone una mitologia visionaria, fondata sull’immaginazione e impregnata di elementi di carattere inesauribile, essendo l’uomo stesso e il suo desiderio infiniti come sostiene Blake stesso in There is no Natural Religion: “The desire of Man being Infinite, the possession is Infinite and himself Infinite.”[19]

Se nella mitologia blakiana è la ragione, Urizen, che viene sconfitta con il trionfo di Los, l’incarnazione dello spirito di profezia, in Earth Gods, gli istinti dell’ambizione e quelli dell’annientamento vengono superati dall’amore, senza per questo sopprimerli. Il terzo dio diventa perciò anche il dio della mediazione. In questo modo i conflitti, nell’opera di Gibran, vengono sempre riconciliati aderendo ad una dialettica positiva che, nel suo tentativo di sintesi, non sopprime nessuno degli elementi, ma li trascende. Come anche con Blake la riconciliazione finisce per includere tutti i principi, perché se la ragione appartiene, da una parte, alla dimensione della caduta e all’orizzonte del limite, dall’altra parte è spinta dalla vocazione all’eterno e all’emancipazione; anche se è percepita nel regno della temporalità, essa ha in sé una tendenza verso l’infinito. Il terzo dio, come l’eroe blakiano, ribalta il principio dell’illusione nel principio dell’amore, che non è altro che il principio dell’infinito; è la figura del Redentore, fonte di creazione e di trasformazione, che, per tanti aspetti, ricorda anche l’agnello dei Songs of Innocence, simbolo di mitezza e di salvezza. Infatti i tre dei di Gibran rappresentano delle tendenze coesistenti nell’animo umano, così come anche l’agnello dei Songs of Innocence ed il suo corrispettivo dall’altra parte, la tigre dei Songs of Experience, non sono altro che gli stati contrari dello spirito umano, senza negare la loro interdipendenza, cioè la loro unità e trascendenza. Si può dire quindi che in Blake e in Gibran, la visione dell’infinito si effettua non attraverso l’annullamento di un polo da parte di un altro, ma nell’eternità stessa della loro contraddizione, e così la mitologia dei due poeti sembra affermare che tutto è infinito finché contiene in sé la propria identità e la propria alterità.

Come l’esempio di Blake, anche l’ispirazione del poeta arabo ha superato e ripudiato l’idealismo platonico, dei primissimi anni, per confinare sé stessa in una visione piuttosto gnostica. Come Platone, sia Blake che Gibran rigettano la realtà terrena, ma mentre il filosofo greco condanna l’elemento corporeo come ostacolo assoluto alla condizione infinita e come prigione dell’anima, e perciò destinato quindi all’annientamento, per Blake la risurrezione conferisce al corpo la sua forma divina, e per Gibran, grazie al processo della divinizzazione dell’io, il corpo può riacquistare la sua dignità originaria e superare la condizione del limite.

L’homme n’est pas une entité statique mais il est dynamiquement stratifié. Du pygmy-self au god-self il y a tout un travail à faire, toute une libération à vivre, ce que nous appelons: divinization. Le point de départ de l’homme étant le moi-pygmée, il ‘atteindra’ son moi-divin, toujours horizon, grȃce à deux efforts. L’un, personnel et collectif, l’autre cosmique.[20]

 

 

Il parallelismo si può notare con Milton, un altro libro profetico che contiene, in modo più esplicito, il mito blakiano della caduta, rivoluzione e risurrezione. Versione personalizzata della caduta e della redenzione, l’opera è la narrazione di un viaggio verso la salvezza spirituale, e vede come protagonista John Milton che accetta un ritorno al mondo per risolvere la contraddizione fra le due nozioni di eternità e di mortalità.

And Milton said: “I go to Eternal Death! The Nations still

Follow after detestable Gods of Priam, in pomp

Of warlike selfhood contradicting and blaspheming.

When will Resurrection come to deliver the sleeping body

From corruptibility? (…)

I will go down to self annihilation and eternal death,

Lest the Last Judgement come and find me unannihilate.[21]

 

 

In questa sua nuova presenza, Milton si trova così a dover confrontarsi con le disparità del mondo, tra positivo e negativo, e con i poli del bene e del male. Ma l’originalità della sua impresa consiste nel fatto che non assume la dimensione di un annientamento finale, cioè di una morte eterna, ma di essere una transizione necessaria per il superamento dei contrari, facendo così confluire la caduta in un’apocalisse e ricomponendo l’ordine dopo la rivoluzione. Facendosi uomo, Milton si reincarna in un corpo destinato a subire la morte, per poi rinascere in una nuova dimensione, quella immortale, affronta, liberamente, la prova dell’annullarsi per riscattarsi. Milton incarna dunque la tesi blakiana della funzione del genio poetico, colui che permette l’incontro finale fra le due estremità, morte e vita, caduta e salvezza. “That the Poetic Genius is the true Man”, dichiara Blake in All Religious are One.[22], mentre in Milton viene definito “the eternal all-protecting Divine Humanity.”[23]

Evidentemente Milton è Blake stesso, e in Gibran questa figura del genio poetica coincide con quella del poeta-profeta, archetipo dell’umanità perfetta e che, divinizzandosi di continuo, guida gli altri verso la via dell’emancipazione. Tuttavia, se l’eroe blakiano deve annientarsi per rinascere eterno, quello gibraniano non ha bisogno di tale prova, perché l’uomo, secondo il poeta arabo, diventa divino con un processo individuale di purificazione. Nell’universo di riconciliazione di Gibran non esiste più una separazione tra l’io umano e quello divino, come non esistono dicotomie tra spazio e tempo, tra l’oggi e il domani. Infatti in The Prohet, si legge:

Like a procession you walk together towards your god-self.[24]

 

E in The Madman, in una parabola intitolata God, Gibran esprime così la sua teoria della divinizzazione dell’io:

My God, my aim and my fulfilment; I am thy yesterday and thou art my tomorrow. I am thy root in the earth and thou art my flower in the sky, and together we grow before the face of the sun.[25]

 

Una volta ripudiata la dottrina neoplatonica del tempo come limite al ciclo del divenire, il tempo riesce a liberarsi dalla propria condizione e ad assumere un ruolo profetico ed abbracciare la nozione dell’infinito. Infatti, nella sezione dedicata al tempo, alla domanda: “what of Time?”, il Profeta gibraniano risponde insegnando:

you would measure time the measureless and the immeasurable. (…) yet the timeless in you is aware of life’s timelessness, and know that yesterday is but today’s memory and tomorrow is today’s dream .[26]

 

 

Seconda questa logica, l’oggi conserva il ricordo del passato, ma guarda verso il domani, profetizzando il futuro, perciò il Profeta continua esortando: “and let to-day embrace the past with remembrance and the future with longing.”[27] Per Blake, il tempo ribalta il processo della degradazione avvenuto in seguito alla caduta, trasformandosi così in elemento catartico. Il poeta inglese lo considera frutto della misericordia divina, perché liberandosi, il tempo libera anche l’anima da ogni restrizione fisica e la riconduce allo stato eterno che non è sottoposto a nessuna legge temporale o spaziale; infatti, in Milton il tempo diventa l’unico veicolo per garantire la rinascita, come si legge “Time is the mercy of Eternity; without Time’s swiftness, which is the swiftest of all things, all were eternal torment.”[28]

Il mito delle origini assume dunque, con Blake, la veste di una scissione primordiale avvenuta dopo la caduta e la presunzione di un recupero dell’unità perduta e di una riconciliazione finale con la forma divina. Infatti, in The Divine Image, tutto ciò che è umano finisce per rivestire una forma divina: “and all must love the human form,” perché “there God is dwelling too.”[29] Se per la tradizione neoplatonica, gli stati opposti dell’essere, spirito e materia, bene e male, anima e corpo, sono assolutamente inconciliabili, sia per il poeta libanese che per il romantico inglese, invece, gli stati, proprio nella loro opposizione, hanno funzioni reciproche e sono partecipi dello stesso principio divino. Questa dialettica degli opposti è la tesi di The Marriage of Heaven and Hell, in cui la luce e le tenebre, il cielo e la terra, l’alto e il basso si riconciliano e ritrovano l’originaria unità perduta. Sulle orme del suo predecessore, Kahlil Gibran dichiara in The Prophet: “life and death are one, even as the river and the sea are one.”[30] Infatti nelle varie sezioni di quest’opera, ogni cosa contiene in sé anche il proprio opposto; l’amore, ad esempio, “crowns” e nello stesso momento “crucify you”[31], la gioia e la sofferenza sono inseparabili e se per Almustafa, il protagonista di The Prophet, “your joy is your sorrow unmasked”[32], per i proverbi dell’inferno blakiano era già detto che “joys laugh not! Sorrows weep not!”[33] Anche la passione e la ragione, nonostante la loro apparente differenza, sono dialetticamente complementari: secondo Gibran “reason, ruling alone, is a force confining; and passion, unattended, is a flame that burns to its own destruction”[34], come anche Blake include “Reason and Energy” nella dialettica dei contrari, necessaria per il progresso:

Without Contraries is no progression. Attraction and Repulsion, Reason and Energy, Love and hate, are necessary to Human existence.

From these contraries spring what the religious call Good and Evil. Good is the passive that obeys Reason. Evil is the active springing from Energy.[35]

 

 

Tutti gli elementi sono dunque strettamente legati gli uni agli altri in un’unità che trascende la diversità apparente, in quanto derivano dalla stessa fonte, e in quanto tendono continuamente a fluire in essa, e tutti i valori si possono ribaltare, e ogni principio è reso possibile dall’esistenza del suo contrario. In The Garden of the Prophet, Gibran afferma: “the saint and the sinner are twin brothers”[36], a sostegno delle idee esposte prima secondo le quali il male e il bene sono due principi coesistenti, e solo l’immaginazione, o la visione, potrebbe concepire la positività delle opposizioni, nel seno di un progetto unitario.

Dall’accettazione dei contrasti come realtà ultima, sorge una conseguenza comune nel pensiero dei due poeti, vale a dire la bontà e la santità di ogni cosa. Ogni cosa è sacra quando è sé stessa, quando si rivela per quello che essa veramente è, e quindi, nel momento in cui è lasciata al suo libero progresso dialettico, senza reprimere nessun atto.[37] Per Blake, ogni cosa è la sua propria causa e il suo proprio effetto: “each thing is its own cause and its own effect”[38], e questa bontà degli atti, quando sono opposti, è presente anche nella natura dell’uomo: “man is twofold being, one part capable of evil and the other capable of good.”[39] L’eco di queste affermazioni scritte in From Annotations to Lavater’s Aphorisms on man è presente parallelamente in alcuni aforismi di Gibran, come, ad esempio, trattando della coesistenza del bene e del male, l’eroe di The Prophet dice: “what is evil but good tortured by its own hunger and thirst.”[40] Questa teoria, di stampo boehmiano, che sfocia nella coesistenza degli opposti in Dio, assume delle implicazioni ancora più profonde nel pensiero dei due visionari. Se per Blake “God is in the lowest effects as well as in the highest causes”[41], per Gibran “we are the breath and the fragrance of God. We are in God, in leaf, in flower, and oftentimes in fruit.”[42] L’uomo diventa parte del tutto, organo partecipe dell’infinito.

Le affinità e le analogie eclatanti con l’arte di Blake e l’apprezzamento che Gibran stesso dimostra per questa figura hanno fatto sì che Mary Haskell, in una discussione sulla rincarnazione, esprimesse una teoria molto ardita:

“Blake died in 1827, and Rossetti was born in 1828; Rossetti died in 1882 and Gibran was born in 1883”[43]

 

 

Con la poesia, la pittura o la mitologia, il tentativo di Kahlil Gibran è stato quindi quello di andare oltre i limiti razionali del visibile e di spingere la realtà al di là dei confini stessi della logica e della ragione umana, per restituirle la sua innocenza originaria, in un continuo gioco di associazioni, di rovesciamenti e di messaggi da decifrare, sostenuto da una straordinaria capacità visionaria, che fa di lui un pioniere della modernità araba.[44] L’originalità dell’arte di Gibran non è stata subito compresa e accolta, ma, come nel caso del suo maestro, ha suscitato reazioni forti che si sono spesso tradotte in accuse di pazzia e di eresia. Infatti per questi motivi, il poeta immigrato ha abolito un vecchio sogno di comprare un terreno nel suo villaggio natale e di passare gli ultimi anni della vita nel suo amato Libano, come confessa in una lettera all’amico e compagno Mikhail Naimy: “There is danger, however, that the monks, once they discover who the prospective buyer is, would refuse to sell. For I, as you know, am an atheist in their eyes.”[45] Operando dall’America, portatore di una parola profetica, Gibran ha contribuito nella creazione di una nuova corrente nella storia della letteratura araba, aprendo la strada alla libertà di stile e di pensiero e ad un romanticismo mai conosciuto prima. Nonostante abbia sperimentato vari generi, adottato due lingue e percorso due arti figurative, Gibran ha sempre avvertito dolorosamente l’incapacità del linguaggio di esprimere la sua visione; quel “winged word” mai pronunciato e di cui parla spesso con gli amici intimi è la sua poesia alla ricerca di sperimentare il linguaggio stesso, di svuotarlo, di adattarlo o di rivoluzionarlo. Infine concludendo, riporto le stesse parole con cui Almustapha di The Prophet si congeda alla fine del libro, consapevole di non aver detto tutta la sua verità e perciò promette di ritornare. Questa situazione rispecchia quella vissuta dall’autore che esprime forse la sua speranza di avere altre vite per poter completare il suo messaggio, un progetto forse impossibile per chi vuole il suo messaggio una voce dell’infinito:

forget not that I shall come back to you.

A little while, and my longing shall gather dust and foam for another body.

A little while, a moment of rest upon the wind, and another woman shall bear me.[46]

 

 

 

 

 

 

 

[1] Virginia Hilu, Beloved Prophet, The love letters of Kahlil Gibran and Mary Haskell, New York, Knopf, 1972, p.260.

[2] Adab al-Mahjar (lett. letteratura dell’esilio o dell’immigrazione) è un movimento letterario nato in America, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, in seguito ad un’ondata di emigrazione di arabi provenienti dalla Siria e dal Libano.

[3] Jean-Pierre Dahdah, Gibran l’homme et l’oeuvre in Kahlil Gibran: Poète de la Sagesse, Question de Albin Michel : revue dirigée par Marc de Smedt, Paris, 1990, p.14.

[4] Kahlil Gibran, A Self-portait, translated and edited by Anthony R. Ferris, London, Heinemann, 1974, p.90.

[5] Jean Gibran and Kahlil Gibran, Kahlil Gibran, His Life and World, Interlink Books, New York, 1998, p.183.

[6] Mikhail Naimy, Kahlil Gibran: a Biography, with a pref. by Martin L. Wolf, London, Quartet Books, 1988, pp.87-88.

[7] Mary Elizabeth Haskell, direttrice di una scuola per ragazze a Boston e con la quale Gibran ha avuto un rapporto di amicizia e di amore fino alla fine della sua vita, è stata una figura molto importante e determinante per la sua formazione linguistica in inglese, per lo sviluppo del suo pensiero e per la sua introduzione in alcuni ambienti intellettuali e culturali a Boston. La figura femminile è stata sempre decisiva per la carriera letteraria di Gibran, a cominciare da quella della madre, Kamila Rahme, donna coraggiosa e sensibile che da sola, dopo un rapporto conflittuale con il marito, ha aperto a Gibran e ai suoi fratelli le porte dell’immigrazione verso l’America.

[8] Virginia Hilu, Beloved Prophet, cit., p.100.

[9] Sergio Givone, William Blake, arte e religione, Milano, Mursia, 1978, pp.18-19.

[10] Ibidem, p.106.

[11] William Blake, Vala Or The Four Zoas in William Blake, Opere, a cura di Roberto Sanesi, Ugo Guanda Editore, Parma, seconda edizione 1991, p.464.

[12] Kahlil Gibran, The Prophet, with an introduction by Robin Waterfield, Penguin Classics, London, 2002, p.47.

[13] Kahlil Gibran, The Earth Gods, Alfred-Knopf, New York, 1966, p.3.

[14] Ibidem, pp.5-6.

[15] Ibidem, p.15.

[16] Ibidem, pp.6-8.

[17] Ibidem, p.10.

[18] Sergio Givone, William Blake, arte e religione, cit., p.108.

[19] William Blake, There is No Natural Religion in William Blake, Opere, a cura di Roberto Sanesi, cit., p.66.

[20] Joseph Al-Yammouni, La divinisation de l’homme in Kahlil Gibran: Poète de la Sagesse, Question de Albin Michel, cit., p.105.

[21] William Blake, Milton in William Blake, Opere, a cura di Roberto Sanesi, cit., p.564.

[22] William Blake, All Relgious Are One in ibidem, p.70.

[23] William Blake, Milton in ibidem, p.562.

[24] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., p.47.

[25] Kahlil Gibran, The Madman, His Parables and Poems, Dover Publications, Inc. Mineola, New York, 2002, p.10.

[26] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., p.70.

[27] Ibidem, p.71.

[28] William Blake, Milton in William Blake, Opere a cura di R. Sanesi, cit., p.608.

[29] William Blake, Songs Of Innocence in ibidem, p.90.

[30] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., p.89.

[31] Ibidem, p.13.

[32] Ibidem, p.35.

[33] William Blake, The Marriage of Heaven And Hell in William Blake, Opere, cit., p.178.

[34] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., pp.56-57.

[35] William Blake, The Marriage of Heaven And Hell in William Blake, Opere, cit., p.170.

[36] Kahlil Gibran, The Garden of The Prophet, cit., p.47.

[37] Sergio Givone, William Blake, arte e religione, cit., p.67.

[38] William Blake, From Annotations to Lavater’s Aphorisms on man, in William Blake, Opere, cit., p.60.

[39] Ibidem, p.54.

[40] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., p.72.

[41] William Blake, From Annotations to Lavater’s Aphorisms on man, in William Blake, Opere, cit., p.58.

[42] Kahlil Gibran, The Garden of The Prophet, cit., p.41.

[43] Jean Gibran and Kahlil Gibran, Kahlil Gibran, His Life and World, cit., p.204.

[44] Adonis, At-Thabit wa al-Mutahawwil, Dar al-Fikr, Beirut, 1973, p.161.

[45] Mikhail Naimy, Kahlil Gibran: a Biography, cit., p.183.

[46] Kahlil Gibran, The Prophet, cit., p.107.

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Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E’ stata docente di lingua araba presso l’Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all’Università di Bologna.

 

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Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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