JEAN-CHARLES VEGLIANTE: TRADURRE COME ATTO DI PLURI-APPARTENENZA

Tradurre come atto di pluri-appartenenza

Je réservais la traduction.

(A. Rimbaud, Délires ii)

Io scrivo e traduco in e dalle mie due lingue, italiano e francese, ma non di rado anche – specie verso il francese – da altre lingue che bene o male posso conoscere almeno in forma scritta (latino, spagnolo, inglese). Più della competenza bilingue, importa provare allora un senso di empatia, di appartenenza possibile, di attrattiva forse – e qui aggiungerei volentieri l’arabo cosiddetto “classico” e il tedesco – riguardo alle lingue dalle quali si traduce (e, ovviamente, verso cui si traduce: lingue originarie e lingua o lingue destinatarie). Vale a dire, poiché le lingue in sé rimangono inafferrabili, da e verso determinati testi, dietro i quali ci sono autori, anche loro “originali” e “destinatari” (o meglio: vari autori di origine e un destinatario, il traduttore, con a mente quegli autori in nuce che sono o che spera di incontrare tra i futuri lettori del testo procurato). Per fare da subito un esempio, quando mi è stato chiesto questo intervento stavo rileggendo alcune versioni francesi del celebre Sonetto 33 di Shakespeare Full many a glorious morning have I seen…, quasi tutte a mio sentire troppo accademiche, o diciamo pure “professorali”, ossia esatte ma pesanti, senza quel ritmo incalzante dell’originale: quasi da parafrasi, come a volte lo si vede già in inglese sotto la dicitura “Translation” (ricopio dal net: I have seen many glorious mornings ecc.). Invece, un poeta qual era Bonnefoy si allontana liberamente dalla lettera (Que j’ai vu de glorieux matins! Ils caressaient…). Ora, quel tipo di traduzione va certo bene per chi può leggere l’originale a fronte, classico, e per di più nella lingua ormai arci-dominante di Shakespeare appunto; nel caso dell’italiano, per un poeta quasi ignoto in Francia quale… Pascoli (eh sì), sono un disastro assoluto, da cui (in parte) proviene il fatto che l’autore sia poco o niente noto: CVD. Provate a girare pedissequamente in altra lingua Il rosicchiolo, e vi renderete conto presto che risulta assolutamente illeggibile – ossia non pubblicabile se non alla macchia e, di nuovo, condannato all’ignoranza che di fatto perseguita il poeta almeno dagli anni Venti (del ’900, s’intende). Questo l’ho scritto da qualche parte, col titolo “Si può leggere Pascoli in francese?” prima di accingermi a tradurne una scelta, arredata del saggio L’impensé la poésie (2018). Quindi, siccome non si dà traduzione senza l’approccio di pratique-théorie cui siamo abituati nella nostra équipe CIRCE della Sorbonne Nouvelle; o, se si preferisce, siccome non si legge fino in fondo fin quando non si è provato a tradurre (dico, almeno per quanto riguarda il testo poetico), ecco un primo risultato di quella “prova di resistenza”, come amava ripetere uno dei nostri maestri, Franco Fortini:

Plusieurs fois j’ai vu la gloire du matin,

Vraie reine effleurer la cime des montagnes,

Son visage d’or baiser les frais regains,

Ambrer le flot glauque en divine cocagne ;

(ecc.).

In questa piccola prova, uso il verso che ho impiegato per La Commedia dantesca, una specie di endecasillabo adattato (all’italiana, quei versi sarebbero invero dodecasillabi), nel caso sempre a minori se così vogliamo continuare a dire (ossia di 5 + 6), e – ciò che qui più importa – quasi tutto giambico. Le rime, a volte possibili, non mi son sembrate praticabili per tutti i 14223 versi del Poema sacro senza sacrifici semantici piuttosto grevi, e ne ho cercato un modesto corrispettivo nella concatenazione metrica (di tipo capcaudata) con due décasyllabes canonici riconoscibili, rassicuranti, ogni due terzine. Ossia: 11 11 10, 10 11 11, 11 11 10, 10 11 11, ecc. Laddove la rima, o la bella assonanza, veniva spontanea, purché non fosse di seguito in posizione baciata, va da sé l’ho accolta con piacere. Ad esempio:

Et comme, par leur instinct naturel,

les corneilles ensemble, au lever du jour,

se remuent pour réchauffer leurs froides plumes ;

puis certaines s’en vont sans faire retour,

d’autres reviennent d’où elles sont parties

et d’autres à grands cercles font séjour ;

telle façon me parut être là,

(ecc.) – Par.xxi, 35 sqq.

(come si vede, in questo brano scelto la concatenazione sarebbe di 10 11 11, 11 11 10, 10… e la rima B in –our). L’opzione ritmica, quando verso la fine degli anni ’80 non mi peritai di fare quel “folle volo” dantesco, fu predominante, e di non facile decisione (le prime prove – come in quasi tutti i miei predecessori – furono in décasyllabes; poi in alternanza di 9 e 11, e alla fine nel verso originale che ho descritto sopra). L’incipit, quasi sempre invalso come “Au milieu du chemin de notre vie”, anche per il maestro Pézard, anche in prosa o nei versetti di Masseron, di delicatissima scelta, diventò infine “À la moitié du chemin de notre vie”, secondo me più adatto al “mezzo di” (non *In mezzo a) dell’originale dantesco; ma soprattutto, ripeto, non di cadenza così scontata e prevedibile come il vecchio décasyllabe francese, quindi – sempre a mio parere – forse meno sciatto rispetto all’assoluta novità del “divino” Poema. Ed è proprio qui, nel “valore” che ogni singolo segno linguistico, sintagma, verso, periodo, canto o capitolo riesce a salvare e sostenere nella lingua di destinazione, che risiede l’importanza primaria della partecipazione e di quella appartenenza duplice, triplice, plurima a diversi sistemi di lingua e di cultura, spesso da me rivendicata.

C’è, nella mia università di provenienza, un istituto specializzato per la traduzione e l’interpretariato abbastanza noto, credo, l’ESIT. Ebbene io non mi rivendico per niente delle competenze tecniche, né d’altronde delle metodologie di quell’eccellente istituto; anzi, un corollario della pluri-appartenenza sopra evocata sarebbe per me la necessaria sospensione del “comprendere” affrettato, davanti a un fenomeno semantico radicalmente nuovo qual è ogni vera espressione poetica, a maggior ragione all’altezza (anche storica, dottrinale, ecc.) della Commedia. Il traduttore non può pretendere di “comprendere”. A volte, in un primo momento non sa neanche “capire” (sotto i due verbi – e uno solo in francese – c’è comunque l’idea di contenere, di riuscire a inglobare in sé), e giustamente rimane senza parole, come affascinato, ipnotizzato da ciò che – per definizione – non aveva mai incontrato perché non era stato mai detto prima: Shakespeare, o Dante, Saffo, o Celan, o Baudelaire, o Góngora giustappunto… la poesia. Magari: intendere, entendre, understand, verstehen… o simili, in cui perlomeno si percepisce un moto, un’intenzione (o tensione): e infatti, al principio di ogni traduzione c’è pure il desiderio di andare incontro, quindi un soggetto che intende farlo. Questo, del soggetto e del desiderio di tradurre (e perché), sarebbe argomento di un altro intervento, troppo lungo da affrontare qui. A volte, per chi scrive-e-traduce, tradurre è anche (o innanzitutto) una via di scampo rispetto alla difficoltà di cominciare (la pagina bianca e quanto segue), ossia di prepararsi a finire – a morire? –, ché cominciare significa d’acchito entrare nella prospettiva della propria fine. E, senza pathos alcuno, andare irrimediabilmente verso il distacco del testo prodotto, lasciato dallo scriba, offerto al futuro lettore o meno, comunque autonomo e destinato sia a essere dimenticato sia a vivere soltanto attraverso la nuova, imprevedibile, libera lettura. O traduzione. Appunto. Per cui o sulle quali l’autore non ha nessuna precedenza rispetto ai suoi lettori-traduttori-interpreti; anzi, come sappiamo, si dimostra a volte pessimo critico di se stesso.

Per chi è di origine più o meno italiana, andare “verso” Dante non poteva essere che una risalita alla sorgente della lingua “nebulosa”, la “pantera” già cercata invano da Lui, specie nel De Vulgari Eloquentia. Oppure, in seconda lettura, la “gramatica” perfetta della “Langue” inarrivabile, non soggetta a comprensione completa perché essa non “cape” in nessun parlante o scrivente, se non come sua stessa ombra portata, a volte scialba, a volte sovrana e quasi abbagliante più della luce, come nel caso del Nostro: soprattutto se contemplato in lontananza, da qualche dispatrio per esempio, o da un qualche particolare dialetto o linguaggio minorato (Meneghello). La lingua “gramatica” agognata allora non è di sicuro lingua materna, né paterna, né di mamma né di patria, ma forse lingua congiuntiva: tesa cioè all’incontro con quelle voci da cui ci si sente attratti e quasi portati all’appartenenza; magari fantasmatica, sognata, da reine Sprache insomma (Benjamin) o meglio dadunkelstimmigen senza trascendenza (Celan). Ma il desiderio di tradurre può anche in-tendere (al) diverso da sé, poco noto prima (mi è successo di recente con Chetro De Carolis) o ammirato in quanto lontano dal proprio lavoro poetico (ad es. il laconismo quasi orientale di un Philippe Denis che ho provato a far conoscere in Italia attraverso Nuovi Argomenti). Cito da quest’ultimo:

Le rondini falciano.

Nessun interessamento,

i covoni non saranno legati.

[…]

sono esausto

nella mia parola –

Schiuma esplosiva,

mi trafigge l’alternanza

ove devo tener conto dello scoglio:

ardente lampada

di questa notte.

(Cahier d’ombres, 1974).

La notte, la lampada… Tradurre significa muoversi nel vasto Oceanos della Lingua che contiene le lingue, nell’indefinito arcitesto da cui siamo attraversati in continuazione, ben al di là dei singolari intertesti – per lo più citazionali (voluti o inconsapevoli) – senza limitazione di genere o di epoca: così, potrei menzionare Caproni (Perch’io…) “accendo cauto una candela / Bianca nella mia mente – apro una vela / timida nella tenebra” ecc. o anche De Signoribus “eppure anch’io ho un lume / e m’illudo d’essere visibile” (Fuggitivi); o, se mi è concesso, risalendo invece alle “pole” dell’Alighieri, dai miei in parte inediti Poèmes neufsles petites bêtes craintives se taisent, / même les corneilles sont devenues timides” (di 11 e 12 non alessandrino). Ma la cadenza rimane sempre di primaria importanza, a livello non di abbellimento ma di mera significazione. A maggior ragione se tenta di accennare, al di sopra delle distanze temporali, a un ritmo scomparso come quello saffico, restituito – sulla falsariga già presente in Orazio – da Giovanni Pascoli. Così nella famosa ode A me pare simile a Dio… di cui a mia volta tento di dare una proiezione in lingua francese:

Il me semble bien comme un Dieu cet homme,

quel qu’il soit qui est à côté de toi et

tout s’attache à toi t’écoutant très douce-

ment qui t’exprimes,

pour d’amour donner ton sourire et rire

(ecc.) – Lyra 1899.

Quasi un tour de force, dove ho evidenziato l’apice del dattilo centrale e l’attacco dell’adonio, senza trarne in vero particolare vanto, di là dalla sola trasposizione ritmica sulla scia maestra delle soluzioni pascoliane. In genere, la poesia spazia però in più vaste e libere dimensioni, fino all’ermeneutica dell’esistenza, terrena o metafisica. Ancora, avviandoci a chiudere: tra le sue molte caratteristiche, La Commedia ignora e trascende ogni limite di età, epoca, genere, sesso e addirittura religione (gli dei antichi, come tutti sanno, vi sono ben presenti, vuoi in quanto simboli, vuoi come prefigurazioni dell’avvento della religio più “vera”, quella dell’autore – non della Chiesa del Trecento – ovviamente). In tal senso, la mia prima raccolta edita, Vers l’amont Dante, con prefazione di Jacqueline Risset (1986), di cui spero di aver finora chiarito l’intento, non fu altro che una specie di traduzione o transduzione a partire dal sogno perseguito di un Dante cartaceo, spettrale, “a monte” di un possibile inizio “senza cominciamento”. In lingua insieme strana e famigliare (come per me può essere tuttora, mettiamo, l’inglese di Amelia Rosselli o di John Keats). La poesia, dicevo, e la riconquista di una lingua scomparsa, o spettrale anch’essa (o sommersa, imbrattata, resa estranea a se stessa dai media imperanti e poi, adesso, dai social incontrollati col loro tremendo “brutto poter” a portata di clic). Un mezzo, forse più simile al “rifacimento” fortiniano, per risalire la corrente, ritrovare un significato antico e forse a venire, nell’ambra “dorata” (in “gilding pale streams”) delle forme che, nonostante tutto, la poesia – di per sé conservativa soprattutto quando è invece en avant” per fare atto (Rimbaud) – senza illusioni, ancora ci preserva.

Jean-Charles Vegliante

Qualche possibile integrazione:

Traduire la forme http://circe.univ-paris3.fr/ED122-Traduire%20la%20forme.pdf

En langue étrange (ou presque) http://www.ticontre.org/ojs/index.php/t3/article/view/56

Traduction réciproque: Jean-Charles Vegliante & Chetro De Carolis https://doi.org/10.4000/rief.5433

Traduire, troisième dimension de la langue http://viceversaonline.ca/2018/10/traduire-troisieme-dimension-de-la-langue/

JcV_StudioJEAN-CHARLES VEGLIANTE (Parigi), poeta-traduttore, ha pubblicato D’écrire la traduction (Paris, PSN, 1996-2000), La traduction-migration (coll., L’Harmattan, 2000), e varie traduzioni: dall’Alighieri (La Comédie; Vie nouvelle con il CIRCE), da Leopardi, da Pascoli (L’impensé la poésie, 2018). A puntate su Recours au Poème in rete, un’Antologia della poesia italiana. Volumi di versi: Nel lutto della luce / Le deuil de lumière (tr. G. Raboni, Einaudi, 2004), Pensiero del niente (tr. F. Piemontese, Stampa2009, 2016), e Où nul ne veut se tenir (Bruxelles, la Lettre volée, 2017, premiato dall’Académie Française). Di recente Sonnets du petit pays… e Trois cahiers avec une chanson per i tipi de L’Atelier du grand tétrasUltimi saggi usciti in Italia: Modesta proposta per una rilettura de L’infinito, OBLIO VIII, 32 (2018, in rete); G. Ungaretti: Per una nuova lettura metrico-ritmica della transizione italo-francese tra L’Allegria e Sentimento del Tempo (1918-1920), in “Studi e Problemi di Critica Testuale” 97, 2018Premio “Leopardi”. Premio Internazionale “C. Betocchi – Città di Firenze”.

Immagine di copertina: Foto di Gin Angri.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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