Intervista e traduzione a cura di Lucia Cupertino
Qualche anno fa, in una giornata berlinese soleggiata, mi ritrovai a prendere un bus che mi avrebbe portato a Francoforte e a notare una ragazza brasiliana in difficoltà, portava la custodia della sua chitarra e altri bagagli, le diedi una mano e da lì cominciammo a parlare in portugnolo. Immaginavo un viaggio silenzioso, con lo sguardo rivolto al finestrino e allo sfilare dei cartelli in tedesco. Invece mi si aprì una finestra sul Brasile profondo, attraverso lo sguardo di una ragazza della mia età, come me artista e appassionata di culture indigene. Mi mostrò il documentario che aveva realizzato, Fiore brillante e le cicatrici della pietra, sull’impatto di una cava in un territorio indigeno Guaranì-kaiowà, raccontato attraverso la voce e la prospettiva di una anziana del villaggio. Era stato tradotto in varie lingue e per questo Jade era in tournée in Europa. Sentì che sarebbe stato importante sostenere il progetto audiovisuale e lavorare alla versione italiana. Effettivamente, di lì a qualche mese, pubblicammo e diffondemmo questa narrazione visuale in Italia. Da quel momento lei, Jade Rainho, continua ad essere la mia finestra sul Brasile ed è a lei che ho pensato di fare alcune domande per comprendere quali cambiamenti profondi sta vivendo la società e la natura brasiliane. Ringrazio ancora la custodia della sua chitarra che in terra teutonica propiziò il nostro incontro.
LC: Grande allerta in tutto il mondo per la situazione delle foreste del Brasile e del Sud America. Vivi nel Mato Grosso, qual è la situazione ambientale e sociale lì? Com’è cambiata negli ultimi anni?
JR: Vivo con la mia famiglia nella capitale del Mato Grosso dai tempi della mia infanzia, nei primi anni ‘90. Cuiabá era conosciuta come la “città verde”, piena di alberi da frutto lungo tutti i marciapiedi. Ricordo di aver camminato per le strade vicino a casa mia e di aver raccolto molte specie di mango e anacardi. Ricordo anche i senza tetto che attingevano a quei frutti. La città è sempre stata molto calda, nonostante le piogge regolari. Attualmente la realtà è completamente diversa. Non ci sono molti alberi in generale e ci sono pochissimi alberi da frutto. Cuiabá è stata fortemente urbanizzata e ha sofferto un forte abbattimento di alberi per far posto ad una serie di infrastrutture legate ai Mondiali del 2014, protagoniste di uno dei più grandi scandali di corruzione della nostra storia. Quelle opere sono ancora incompiute e hanno trasformato la città in un cantiere a cielo aperto, che assomiglia più a una pista automobilistica malfatta. Inoltre c’è stato il boom dell’agroindustria. Il Mato Grosso è diventato una potenza mondiale nella monocultura di soia, permettendo ai baroni che la sostengono di acquisire potere e infiltrarsi nelle politiche pubbliche. In quel processo, il degrado ambientale è stato profondo, incontrollabile e indiscutibile. Qui, nel Mato Grosso, ci sono tre importanti biomi nazionali: il Cerrado, l’Amazzonia e il Pantanal. Il Cerrado non è così noto come gli altri due, anche se è un ecosistema altamente biodiverso e con le sue peculiarità. Questo bioma fu il primo ad estinguersi praticamente e cedere il passo al latifondismo agricolo. Tutta questa negligenza è molto chiara, triste e sconvolgente.
I paesaggi rurali sono diventati vasti deserti con piantagioni transgeniche e omogenee. Di recente sono andata a lavorare in una riserva indigena nel nord dello stato del Mato Grosso, in una zona di transizione, dove la strada è piena di infinite piantagioni di soia e cotone. Gli alberi non sono più visibili, tutto è molto arido e pianificato. La comunità era l’unico luogo verde in cui era conservata certa diversità naturale. Come un’oasi che cerca di respirare nel mezzo dello sfruttamento.
Continuavo a guardare dalla finestra quel susseguirsi di un orizzonte immutabile, tra sbarre, macchinari per la raccolta e la schiavitù servile della terra. Percepisco quel dominio ed estrattivismo perpetui come un tipo di schiavitù delle forze vitali della terra. È come se schiavizzassimo la natura non consentendone l’espressione originaria. Come se la percepissimo e la dominassimo, dalla prospettiva dei nostri limiti umani, a un’esistenza servile e inanimata, con la sola funzione di darci incessantemente tutte le risorse che ha e che desideriamo. Senza rispettare la sua diversità, la molteplicità di vite che germogliano in essa, quelle che genera e con essa vivono spontaneamente. E ciò riflette gran parte della nostra relazione come società e umanità che agisce nel mondo. Siamo stanchi di oggetti, articoli e servizi da consumare e scartare senza importanza o cura. Ma quanto di tutto ciò è rinnovato, autogestito e rispettato di fronte ai ritmi biologici e naturali della vita sulla terra? È una grande discrepanza che sentiamo irrimediabilmente nel corpo e nell’ambiente.
Non piove, gli incendi si diffondono ovunque, in campagna e in città. Cuiabá si sveglia e va a dormire fumante, il sole sorge e tramonta con un colore diffuso. L’umidità relativa è del 10%, oggi ho letto che vivere qui è come fumare mezzo pacchetto di sigarette al giorno. Abbiamo previsioni di pioggia per ottobre. È così arido che è molto fastidioso respirare e stare all’aperto. Il caldo è insopportabile, raggiungiamo i 41°C e temperatura percepita di almeno 45°C. La Protezione Civile dello Stato ha diramato lo stato di allerta, evidenziando il rischio di morte per ipertermia. Cosa accadrà tra 5 o 10 anni? Quanti gradi in più registreremo? Come sopravvivere in condizioni così inospitali?
Sento che, all’interno del Brasile, siamo lo stato che ha già dimostrato gli impatti di questa devastazione inconscia e diffusa. Se gli altri stati settentrionali e centro-occidentali del Paese continueranno a bruciare le loro foreste per far spazio alle praterie di bestiame e monocoltura, come renderemo possibile la vita in questi territori? Nel Mato Grosso stiamo già affrontando un clima desertico. Diventeremo un vasto deserto dell’agroindustria?
Le foreste sono fonti primarie di acqua. Quando piantiamo alberi è come se seminassimo anche acqua. Senza acqua non c’è vita. Inoltre nella foresta c’è un intero universo, fatto di forme diverse d’esistenza, medicina e rimedi naturali, che ancora non siamo capaci di comprendere totalmente. È come ci dice il proverbio indigeno: “Quando avrai tagliato l’ultimo albero, inquinato l’ultimo fiume e pescato l’ultimo pesce, ti accorgerai che il denaro non può essere mangiato”.
LC: Anche dal punto di vista culturale si registrano cambiamenti? È possibile fare cultura incentrata sul pensiero critico e sulla diversità?
JR: Stiamo attraversando un periodo di estremi, in molti ambiti. È come se molte cose cresciute nell’ombra stessero venendo a galla, tutte assieme. Dal 2013 si generò la frattura sociale che si è resa evidente nelle ultime elezioni, sempre più marcata tra coloro che hanno votato e sostenuto Bolsonaro e coloro che non lo hanno votato e sono contrari alla barbarie da lui legittimata. La mia generazione, che proviene da un processo di ridemocratizzazione del Paese, dall’attuazione di politiche pubbliche per espandere l’accesso ai diritti fondamentali, allo sviluppo e alla partecipazione sociale, e che si è sentita molto libera di esprimersi, creare, essere e vivere oltre il razzismo, il sessismo, l’omofobia e il degrado ambientale, si è svegliata ora in una realtà brutale, zeppa di incontri con posizioni minacciose, odiose e violente che forse erano rimaste sempre lì, senza mostrare le dimensioni della loro presenza. La maggioranza della popolazione con pregiudizi e una visione estremamente individualista cresce insieme alle battute d’arresto permesse dal discorso del presidente e della sua famiglia. È come se i valori che cerchiamo per una società più egualitaria e armoniosa, che comprenda e rispetti la diversità, le minoranze e i diritti umani e dei lavoratori, di colpo non fossero più protetti e in voga. D’altro canto, è anche vero che c’è un forte movimento di empatia, unità e cooperazione tra coloro che cercano di vibrare ad un’altra frequenza ed essere un ponte verso nuove strade.
È ancora più evidente che il basso livello di istruzione e alfabetizzazione funzionale offerto alla maggior parte dei brasiliani, unito a tutti i tagli all’istruzione e alla ricerca che stiamo soffrendo, e che smantellano scienza e cultura, rivela un oscuro piano di potere che cerca di ridurre le possibilità di sviluppo umano delle masse, di bloccare l’elaborazione del pensiero critico e di limitare le azioni che offrono opportunità per una costruzione efficace e collettiva delle trasformazioni necessarie.
Ad ogni modo, faccio parte di coloro che affrontano le sfide e fanno confluire le loro energie verso le pratiche quotidiane, piantando più semi di coscienza in tutto ciò che toccano. In questo momento, posso dire che siamo vivi, siamo insieme e siamo in molti.
LC: La tua nascita e la tua infanzia sono legate alla selva e al mondo indigeno. Che rapporto hai ancora con queste dimensioni? Qual è stata l’eredità di quell’esperienza primigenia?
JR: I miei genitori si conobbero e iniziarono ad innamorarsi in una tribù Assurini a Pará, nel mezzo della foresta amazzonica, quando stavano facendo un volontariato per prendersi cura della salute degli indigeni. Vivevano in un piccolo paese sorto a seguito della costruzione della centrale idroelettrica di Tucuruì, la prima grande centrale elettrica nella regione, inaugurata proprio nell’anno in cui sono nata. Ho vissuto lì tutta la mia prima infanzia e ho un sacco di vividi ricordi legati alla grandezza e bellezza della foresta. Ricordo la sua possente presenza nel nostro giardino, dove l’abbondante foresta si apriva con il canto multiplo dei suoi uccelli colorati. Ricordo l’affascinante sensazione di esserle di fronte e sentire il suo profondo richiamo a penetrarne i misteri. Ricordo anche di aver visto i delfini rosa nei fiumi. Un universo così bello, vibrante e affascinante!
Crescendo, quando ho iniziato a riconnettermi con la mia essenza, per eliminare comportamenti e pensieri standardizzati che acquisiamo e assimiliamo come indicandoci chi dovremmo essere, mi sono rivolta a quell’origine e alla natura. Mi sono riavvicinata alle culture indigene e ho riconosciuto nel loro modo di vivere la mia ricerca di esistere a contatto e in armonia con la Terra. A poco a poco ho rivolto le mie energie all’apprendimento delle loro conoscenze e alla difesa delle loro possibilità di esistenza.
Delle migliaia di popoli indigeni esistenti in Brasile quando arrivarono i portoghesi, oggi ne abbiamo circa 255, che vivono un processo di lotta costante e disuguale per il mantenimento dei loro diritti. Le realtà sono molteplici ma, in generale, devono affrontare molte discriminazioni, lottare per il riconoscimento, la delimitazione e la conservazione dei loro territori, affrontare progetti politici volti a forzare la loro acculturazione e integrazione nella società urbana e bianca, oltre a tutte le violenze e marginalità a cui sono sottoposti quotidianamente. Quando mi soffermo sulla loro situazione, è impossibile non associarla direttamente a ciò che stiamo facendo con la Terra. È come se l’incoscienza circa la nostra appartenenza ad essa, nel sentirci parte della natura e connessi a tutte le forme di vita sul pianeta, si riflettesse in ogni negligenza, mancanza di rispetto e maltrattamento delle culture indigene. Una civiltà che distrugge la natura si sta suicidando, privandosi dell’opportunità di imparare dalla pluralità dell’esistenza e cammina in disaccordo con i principi stessi della vita sul pianeta, che è abbondante, diversificata e cooperativa.
Credo che la trasformazione della coscienza non provenga da un territorio di disputa, separazione e guerra. È più presente nell’opportunità di riconoscerci come una famiglia umana diversa, al di là delle differenze culturali, nel creare spazi aperti per il contatto, il dialogo e la comprensione di altri modi di essere e realtà. Il documentario audiovisivo, genere a cui mi dedico da tempo, apre queste finestre di ascolto e percezione allargata, dove possiamo imparare gli uni con gli altri, affrontare diversi punti di vista, ma anche ritrovarci nell’umanità che ci unisce.
LC: Quali proposte ci sono da parte del Brasile che non accetta le politiche di Bolsonaro per contrastare l’altra metà del Paese? Pensi che siano proposte valide? Le supporti o hai un’altra proposta?
JR: Non sono a conoscenza di così tante proposte efficaci, a livello macro. Quello che ho visto è una grande divisione tra le persone e molti discorsi di attacco da entrambe le parti. In realtà, siamo spaventati, abbiamo a che fare con un governo autoritario, totalmente incapace, che smantella le politiche pubbliche educative, culturali, sociali e ambientali. È vergognoso svegliarsi ogni giorno e incontrare dichiarazioni antietiche e infantili e così tante misure irrilevanti da parte del governo Bolsonaro e della sua famiglia. Non è più possibile credere che esista una giustizia legittima nel paese in cui il giudice che condanna un ex presidente senza prove reali assume la posizione di ministro della giustizia nell’attuale governo, che ha favorito tale decisione.
In contrapposizione al rovesciamento e al conservatorismo dell’estrema destra che è salita al potere, c’è un movimento importante di molti attori sociali nelle arene politiche del paese, che rappresentano le minoranze che cercano spazio e valorizzazione delle loro culture e diritti. Come esempio, c’è il mandato collettivo per il deputato statale della Bancada Activista1 di San Paolo, che ha eletto nove membri, tra cui una donna indigena e una donna transessuale. Sono anche felice e fiduciosa per l’elezione di Erica Malunguinho, una donna nera e la prima transessuale ad avere un posto nell’Assemblea legislativa di San Paolo. Artista, educatrice, grande intellettuale e catalizzatrice che ha creato l’“Aparelha Luzia”, che è uno spazio culturale e politico riconosciuto come un “quilombo“2 urbano. C’è anche l’arrivo di Joênia Wapichana al Congresso Nazionale. La prima donna indigena a diventare avvocato nel paese e anche ad essere eletta deputata federale nelle ultime elezioni, premiata alle Nazioni Unite per il suo ruolo nella difesa dei diritti umani. Credo che tutto ciò che stiamo vivendo sia una chiamata a prendere il nostro posto e ad agire direttamente nella trasformazione che vogliamo per la nostra società.
Non serve a nulla delegare o credere che il cambiamento provenga dall’esterno o dalle promesse di un partito e/o di un leader distante. Il nostro sistema politico ha bisogno di una riforma strutturale, un grande rinnovamento, sono trascorsi molti secoli di dominio da parte dei grandi colonnelli e delle loro famiglie, un’élite politica ed economica che agisce per continuare a proteggere i propri privilegi e poteri, senza pensare al beneficio popolare o lo scrupolo delle sequele prodotte alla maggioranza, naturalizzando la corruzione, la segregazione e gli abissi economici e sociali. Dobbiamo essere vicini, agire nelle nostre comunità, nei microcosmi a cui abbiamo accesso. Lavorare in rete e partecipare alle decisioni. Ogni atto, in sé, possiede una forza politica, ha conseguenze e consegna qualcosa al mondo.
Ho studiato e riflettuto molto sulla necessità di avanzare verso una Dichiarazione universale dei diritti della natura, come proposto dall’ecuadoriano Alberto Acosta, in cui tutte le forme di vita possano avere i loro diritti all’esistenza costituzionalmente garantiti e riconosciuti da tutte le nazioni. Sappiamo che questo primo lavoro di legislazione e accordi internazionali non implica l’immediata adozione dei suoi principi, ma che il processo di assorbimento di concetti che rendono praticabile un cambio di paradigma è già un punto di partenza.
LC: Dopo il documentario Fiore brillante e le cicatrici della pietra, che ha raggiunto diversi angoli e lingue del mondo, che ha vinto premi e entusiasmato gli spettatori… a cosa stai lavorando?
JR: Rimango ferma nella mia intenzione di agire per la trasformazione positiva e amorosa della coscienza umana, di lavorare attivamente con le popolazioni indigene e per i diritti della natura. Come documentarista, cerco di ritrarre le realtà dei popoli nativi attraverso narrazioni che privilegino e accolgano l’importanza e la voce delle donne in queste comunità. Negli ultimi anni, ho indagato e seguito la lotta dei Guarani Mbya di Pico do Jaraguá, periferia della città di San Paolo. Ho sviluppato un progetto cinematografico, la cui sceneggiatura e regia erano a mia cura, che è stato approvato per ricevere un finanziamento del recentemente estinto MINC (Ministero della Cultura). Ci aspettavamo di iniziare la produzione questo semestre, ma abbiamo ritardato tutto, anche ciò che è gestito dall’ANCINE (Agenzia nazionale di cinema). Con l’attuale governo, lavorare su questi problemi, già di per sé marginali e quasi utopistici, è diventato ancora più impegnativo. Mi sto organizzando per accedere ad un master all’estero, con l’obiettivo di svilupparmi professionalmente e insegnare nelle università, ma anche costruire ponti e trovare istituzioni e persone associate per continuare ad avere il sostegno e il finanziamento per lavorare qui.
Di recente sono stata nel nord-ovest del Mato Grosso per un corso sul documentario che offro ai giovani indigeni Myky, insieme alla documentarista Amanda Palma. In questo momento stiamo strutturando un progetto più dettagliato di educazione audiovisiva, incentrato sulle donne indigene, con l’obiettivo di trascorrere periodi di full immersion nei villaggi insegnando gli attrezzi del mestiere del cinema documentario, così da creare in loro autonomia nelle produzioni di storie, nella costruzione di immagini e autorappresentazioni sul valore della preservazione delle loro culture, lingue madri, nell’espansione delle loro voci e denuncia delle violazioni dei diritti. Mi rendo conto che l’educazione audiovisiva e documentaria, oggi, riveste un’importanza analoga all’alfabetizzazione, dal momento che molti giovani leader indigeni, anche nelle comunità più distanti dai centri urbani, sono iperconnessi coi loro telefoni cellulari, navigano e sono attivi nei social, condividono e creano contenuti multimediali e digitali.
La poesia continua ad essere viva in me in ogni momento e permea tutto ciò che faccio, indipendentemente dal linguaggio espressivo. Attualmente diffondo anche la mia produzione poetica e lo spettacolo “Força Mulher“, assieme alla cantautrice Estela Ceregatti. Ho anche iniziato a organizzare un nuovo libro di poesie e a scrivere racconti.
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Proponiamo una poesia-cantico di Jade Rainho, presentata nel corso dello spettacolo Força Mulher, a Cuiabà (Mato Grosso), nell’agosto 2019.
Madre, io voglio germogliare come le Foreste
selvaggia, spezzando il cemento dalla mente ristretta
albero coraggioso, che cresce contento
come la forza della Terra nel fiore della parola
indipendentemente da ciò venga,
saper nutrire ed ergere i colori della Libertà – che è la stessa vita
che la mia presenza sia fresca e accogliente
e lasci frutti abbondanti, robusti e condivisi
tra coloro che toccheranno la mia materia
che le mie parole sappiano cogliere ed elargire
nella semplice lingua della nostra gente
e che io posso essere abbastanza umile
da ascoltare e ricevere la saggezza di ognuno
che il mio operare sia per tutti noi
il mio cammino abbia pace e forza
e anche nel mezzo della tempesta possa imparare
a riconoscere l’insegnamento offerto
che io ringrazi la preziosa opportunità di documentare
e che la mia vista sia abbastanza generosa
da percepire la bellezza di tutto ciò che ci accompagna
che abbia coraggio per manifestarmi interamente,
anche se non sarò gradita a tutti
e che questo cammino sia saldo e ininterrotto,
coltivando un giardino che possa ispirare altri
che la mia missione sia condividere con la gente
e lo scopo sia essere in linea coi loro tempi,
meditando le cure necessarie
che ci sia gioia e dolcezza negli occhi curiosi
e la possibilità di nutrirci e liberarci sempre
Madre, io sono il tuo seme nel mondo
radice eterna del cuore profondo.
– – –
Mãe, eu quero brotar como Florestas
selvagem, rompendo o concreto da mente tapada
árvore valente, crescendo contente
com a força da Terra na flor da palavra
Independente do que vier,
saber nutrir e erguer as cores da Liberdade – que é a própria vida
que a minha presença seja fresca e acolhedora
e deixe frutos abundantes, sadios e compartidos
entre todos que tocarem minha matéria
que minhas palavras saibam colher e repartir
na simplicidade do falar de nossa gente
e que eu possa ser humilde o suficiente
para ouvir e receber a sabedoria compartilhada por cada um
que meu serviço seja para todos nós
e meu caminho tenha Paz e fortaleça
e que mesmo na tormenta eu possa aprender
a reconhecer o ensinamento oferecido
que eu saiba agradecer essa oportunidade preciosa de nos retratar
e que meu olhar seja generoso o bastante
para perceber a beleza de tudo que nos acompanha
que eu tenha coragem para me mostrar por inteiro,
mesmo que nem sempre venha a agradar a todos
e que este caminho se faça firme e contínuo,
semeando um jardim que possa inspirar a outros
que eu encontre meu lugar e missão nessa troca com a gente
e o propósito sempre se alinhe com seu tempo,
refletindo as curas necessárias
que eu tenha alegria e leveza nos olhos curiosos,
que possam sempre nos nutrir e libertar
Mãe, eu sou sua semente no mundo
raiz eterna do coração profundo.
JADE RAINHO (Tucuruí, PA, 1985)
Poeta, ricercatrice culturale, documentarista audiovisuale, educatrice, attivista per i diritti umani e della natura, pone a disposizione i suoi doni per generare una trasformazione amorosa della coscienza umana e la preservazione e difesa delle culture indigene. Il suo documentario Fiore brillante e le cicatrici della pietra è stato ampiamente tradotto, anche in italiano, diffuso in 21 Paesi, premiato in Brasile, Bolivia, Perù e Messico. È anche poetessa e sue poesie hanno ricevuto riconoscimento in alcuni premi in Brasile.
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Traduzione italiana: Lucia Cupertino
Traduzione dal portoghese allo spagnolo: Marcella Freitas e Katyussa Veiga.
Immagini: “Bambino Xavante, Seme coraggioso”, di Jade Rainho e Allyson Alapont.
Foto di Jade Rainho, Cla Virmond e Pedro Ivo.
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1 Uno dei nuovi movimenti sociali dal basso del Brasile, caratterizzato da candidature collettive e la promozione di buone pratiche politiche, sociali e ambientali.
2 Denominazione attribuita alle comunità africane in America latina, in particolare in Brasile e Cono Sud.