Intervista di Reginaldo Cerolini a Loretta Emiri

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Realizzata il 16 dicembre 2020, per gentile concessione di Loretta Emiri.

 

R.C. Può presentarsi?

L.E. Sono nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 sono partita per l’Amazzonia brasiliana, dove ho vissuto per diciotto anni sempre lavorando con e per gli indios. Per più di quattro anni ho operato tra gli yanomami delle aree del Catrimâni, Ajarani e Demini. Successivamente mi sono stabilita in Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, dedicandomi alla sensibilizzazione della popolazione locale, fortemente ostile agli indigeni e quindi insensibile e irrispettosa nei confronti dei loro diritti. In seguito sono stata chiamata a organizzare il Settore di Educazione del CIMI – Consiglio Indigenista Missionario, che è l’organo creato dalla Chiesa cattolica per appoggiare gli indios nelle loro lotte. In questo periodo vivevo a Brasilia ma, organizzando incontri e corsi di formazione per maestri, ho avuto modo di conoscere alcuni dei popoli indigeni disseminati su tutto il territorio brasiliano.  Tornata in Roraima, mi sono dedicata alla formazione dei maestri delle etnie presenti nello Stato, incoraggiando e sostenendo anche il movimento indigeno locale.

 

R.C. Che tipo di formazione ha avuto?

L.E. Avrei voluto accedere all’università, ma le condizioni economiche della mia famiglia proletaria mi hanno indotta a frequentare la scuola per Segretarie d’Azienda, un corso professionalizzante che, immettendomi nel mondo del lavoro, mi avrebbe reso economicamente indipendente non pesando così sulla famiglia.

 

R.C. Quando ha deciso e come di andare in Brasile e in Amazzonia?

L.E. Nonostante l’idea di operare nel “terzo mondo” mi accompagnasse fin da bambina, per trasformare il sogno in realtà, naturalmente, ho dovuto aspettare l’età adulta. Nel 1975 ho partecipato a un campo di lavoro e formazione, nella speranza di poter decidere se il volontariato internazionale era effettivamente ciò che volevo per la mia vita. Durante questa esperienza una persona, che con loro operava, proiettò stupende fotografie degli yanomami e del loro lussureggiante habitat. Le foto mi sedussero. All’esperienza partecipavano giovani provenienti da varie regioni italiane; grazie all’energia da loro sprigionata, trovai il coraggio di fare la mia scelta esistenziale e dire “vado in Amazzonia”.

Avevo già preso contatto con una missione nello Zaire, perché negli anni settanta era soprattutto verso l’Africa che gli aspiranti volontari internazionali erano indirizzati; ma la decisione di andare in Amazzonia fu determinata anche dal fatto che avrei potuto agire attraverso una struttura cattolica che, almeno all’epoca, non si preoccupava dell’evangelizzazione, ma della sopravvivenza fisica e culturale del popolo yanomami.

 

R.C. Che cosa l’ha fatta rimanere?

L.E. Veramente, quando partii avevo in mente che sarebbe stato per sempre. Sono tornata in Italia dopo diciotto anni per una serie di ragioni. Ero stremata a livello fisico, e depressa a causa della congiuntura indigena, tragica anche all’epoca. Avevo il telefono sotto controllo, spie locali seguivano i movimenti di tutti noi alleati degli indigeni, un senso greve di minaccia aleggiava sul nostro quotidiano. Per non correre troppi rischi, avrei dovuto autocensurarmi, contenendo posizionamenti e azioni.

Mia madre era ormai invecchiata e aveva bisogno del mio sostegno. Decisi di prendermi cura di lei non solo perché era mia madre, ma perché, una volta superato lo sconforto che la notizia della mia scelta di vita le aveva provocato, divenne la mia più convinta sostenitrice, meritandosi così le attenzioni che le dedicai. È stata un’adorabile complice con cui ho vissuto momenti importanti e gratificanti sia in Brasile che in Italia.

Decisi di rientrare in Italia anche perché diventare scrittrice era l’altro mio sogno di bambina. Così, mentre accudivo mia madre, mi sono dedicata pienamente alla scrittura, cosa che non avrei potuto fare se fossi rimasta in prima linea.

 

R.C. Che cos’è l’Amazzonia? I brasiliani conoscono l’Amazzonia?

L.E. Un concetto banale e stereotipato definisce l’Amazzonia il polmone del mondo. Per me l’Amazzonia è un territorio lussureggiante, preservato intatto dalle civiltà che l’hanno popolata e sfruttata in modo rispettoso nel corso di migliaia di anni. L’Amazzonia è l’umanità che in essa vive e che di essa si prende cura: gli indigeni, i pescatori, i raccoglitori, i contadini.

Prima di trasferirmi nella foresta yanomami, trascorsi un periodo in Boa Vista, la capitale dello Stato di Roraima. Partecipai ad alcuni incontri con giovani e grande fu la mia sorpresa nel constatare che non sapevano dell’esistenza degli yanomami, il cui territorio inizia a meno di trecento chilometri dalla capitale stessa.

Negli anni settanta l’Amazzonia era vista quasi esclusivamente come un territorio vuoto, selvaggio, da abbattere per ricavarne legname e dove installare fattorie per allevare bestiame o impiantare monoculture. Negli anni ottanta è iniziata la corsa all’oro, realizzata dai cercatori ma incentivata da politici e oligarchie locali. Oggigiorno, grazie alla formidabile resistenza dei popoli indigeni e dei loro alleati, un numero maggiore di brasiliani conosce, ama e lotta per la preservazione dei popoli indigeni e dell’Amazzonia, ma la lotta è impari.

 

R.C. È mai stata presa dall’esotismo? Cos’è per lei l’esotismo?

L.E. L’esotismo è uno degli atteggiamenti che contesto; ne parlo e ne scrivo dato che a non voler essere trattati come esotici sono proprio gli indigeni. L’esotismo è supportato da chi predilige o indugia su ciò che è straniero, lontano, stravagante. In questa nostra epoca globalizzata e globalizzante gli indigeni non sono stranieri, né lontani, né stravaganti; eventualmente, si può dire che hanno un differente modo di vedere e affrontare la vita. Non vogliono essere solo guardati, ammirati, considerati esseri pittoreschi appartenenti al passato. Sono nostri contemporanei. Ci sono, esistono e resistono da 520 anni. Gli occidentali, che hanno trasformato il mondo in un tossico immondezzaio, avrebbero molto da imparare se solo avessero l’umiltà di ascoltarli.

 

R. C.  Quali sono le etnie e quanti sono oggi gli indigeni?

In Brasile sono presenti 305 etnie che parlano più di 160 tra lingue e dialetti.

Nel 1988, è stata varata la nuova Costituzione brasiliana, all’elaborazione della quale gli indigeni hanno partecipato attivamente e creativamente. In essa sono stati introdotti dei dispositivi a loro favorevoli, e ciò rappresenta una grande vittoria per il movimento indigeno; ma determina anche il cambiamento nell’abbordare la questione indigena da parte dello Stato, che pone fine ai tentativi di emancipare, assorbire, acculturare gli indios e riconosce loro il diritto alla terra e alla diversità culturale. La demarcazione di molte terre ha avviato una nuova fase esistenziale per i popoli indigeni, generando tranquillità e stabilità sociale e, di conseguenza, la popolazione è espressivamente aumentata.

Invece, il riconoscimento del diritto a un’educazione specifica e differenziata, attraverso anche l’utilizzo delle lingue materne, ha incoraggiato l’affermazione etnica; mentre negli anni settanta gli indigeni avevano vergogna di definirsi tali a causa della violenta discriminazione di cui erano oggetto, a partire dalla Costituzione hanno cominciato ad autoaffermarsi etnicamente.

Attraverso corsi specifici e differenziati, un numero sempre crescente di indigeni ha accesso all’università. Questa realtà ha reso possibile un ulteriore avanzamento in ambito etnico e sociale: anche individui che vivono in città fanno questione di definirsi indigeni. Così professori, ricercatori, giornalisti, scrittori, attori, pittori, disegnatori, ai loro nomi aggiungono il nome dell’etnia. Solo per fare degli esempi: Eliane Potiguara, scrittrice; Márcia Wayna Kambeba, poetessa; Arissana Pataxó, pittrice.

Un dato incoraggiante è che dai 220.000 individui che erano all’inizio degli anni novanta, secondo l’IBGE – Istituto Brasiliano di Geografia gli indios sono oggi 750.000. Sono sicura che il prossimo censimento demografico, che si terrà nel 2021, ci riserverà piacevolissime sorprese.

 

R.C.  Che vita svolgono gli yanomami?

L.E. Gli yanomami sono seminomadi. Vivono di caccia, pesca, prodotti coltivati o raccolti nella foresta. Dopo quattro o cinque anni spostano altrove il villaggio per dare modo all’ambiente di recuperarsi; trascorso un certo periodo di tempo possono anche tornare ad occupare la stessa area. Sono animisti e questo significa che si rapportano con sacralità a tutti gli elementi della natura, siano essi astri, pietre, oggetti, vegetali, animali. Secondo gli yanomami ogni elemento possiede uno spirito; con ogni probabilità è grazie a questa visione di mondo che hanno preservata intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni.

 

R.C. Qual è lo stato attuale della deforestazione?

L.E. Nel 2018 è stato eletto presidente della Repubblica Federativa del Brasile un essere ignobile, che ha portato avanti la campagna elettorale, tra l’altro, esibendosi nell’osceno gesto di puntare la mano come fosse una rivoltella, e che ha vomitato parolacce contro donne, omosessuali, negri, indigeni. I suoi discorsi di odio, naturalmente, incentivano la violenza contro le minoranze sopra citate, specialmente contro gli indigeni che preservano la foresta. Lui, e quanti l’hanno sostenuto e votato, vogliono sferrare l’ultimo attacco all’Amazzonia. Negli ultimi due anni c’è stato un aumento esponenziale degli incendi: una volta distrutto l’habitat, non ci saranno più indios a proteggerlo e i detentori del potere economico sovranazionale (di cui i politici locali sono i lacchè) avranno indisturbato accesso al sottosuolo e a ciò che vi è conservato.

 

R.C. La mancanza di un contesto libero o indipendente come e quanto rende impossibile vivere dei propri valori e delle proprie tradizioni?

L.E. Il diritto a un contesto libero e indipendente per vivere dei propri valori, usi, costumi, tradizioni è sancito nella Costituzione, peccato che lo Stato non lo rispetti e non lo faccia rispettare. Quindi, la lotta dei popoli indigeni continua ad essere immane, estenuante; allo stesso tempo la loro formidabile resistenza ha sedotto ampi settori dell’opinione pubblica che si sono trasformati in alleati, partner, sostenitori della causa indigena.

 

R.C.  Hanno ragione i giovani che se ne vanno dai villaggi?

L.E. Non tutti i giovani lasciano i villaggi. Molti di loro sono divenuti maestri, infermieri, vigilanti del territorio, guide. Ad esempio, nello Stato di Roraima, dopo aver recuperato aree che erano state invase e sfruttate dai bianchi, gli indigeni macuxi e wapichana vi hanno impiantato allevamenti di bestiame, creato laghi per la pescicoltura, incrementato agricoltura e frutticoltura. Oltre che garantire la sussistenza delle comunità locali, l’eccedenza di questi prodotti viene commercializzata nei mercati cittadini. Molto interessanti sono anche i progetti legati al turismo e all’artigianato, anch’essi fonte di sussistenza e di affermazione etnica.

 

R.C. Che rapporto di integrazione può esistere tra cultura indigena e il Brasile dei nostri giorni?

L.E. La parola integrazione riporta la mia mente a un tragico periodo storico. Negli anni settanta si era in piena dittatura militare. I militari volevano che gli indigeni sparissero e quasi ci riuscirono perseguitandoli e sopprimendoli nei più svariati modi, anche gettando zucchero avvelenato sopra i loro villaggi. Per quelli che riuscirono a sopravvivere, lo Stato studiò una proposta solo apparentemente meno violenta del genocidio, l’etnocidio; voleva “emanciparli”, cioè acculturarli forzatamente, riducendoli a individui marginalizzati e sfruttati all’interno della società nazionale, senza più diritti sulle terre tradizionalmente occupate dalle etnie di appartenenza. Lo Stato voleva “integrare” gli indigeni incorporandoli alla “comunione nazionale”. Proprio da questa situazione, grazie alla solidale intesa fra gli indigeni e i loro alleati, prese vita il movimento indigeno e indigenista organizzato brasiliano.

Ciò che gli indigeni rivendicano è la partecipazione attiva e creativa alla vita sociale, culturale e politica del paese, senza rinunciare ad essere sé stessi, senza rinunciare ad avere un modo proprio di sentire e agire, senza rinunciare ai valori tramandati dalle comunità di appartenenza, dando il proprio contributo per rendere la società brasiliana più giusta e democratica.

 

R.C.  L’educazione sta dando i suoi frutti? Essa basta a creare consapevolezza e identità?

L.E. L’educazione sta dando i suoi frutti. A partire dalla Costituzione del 1988, essa è stata trasformata da “educazione per l’indio”, pensata e imposta da Stato e Chiesa, in “educazione scolastica indigena”, pensata e amministrata dagli indigeni stessi. A promuovere consapevolezza e orgoglio della propria identità contribuiscono anche scrittori, poeti, pittori, attori, docenti, pensatori indigeni. Sono loro che stanno aiutando la società civile a capire che il Brasile è uno Stato multietnico, che la diversità culturale è un valore. Anzi, sono loro che stanno definendo la vera identità brasiliana, perché senza gli indigeni il Brasile non esiste.

 

R.C. Che difficoltà identitaria incontrano i giovani indigeni che devono formarsi?

L.E. Anche in ambito accademico la situazione è molto cambiata. Le università degli Stati con considerevole popolazione indigena, ma anche università prestigiose come quelle di Brasilia, San Paolo, Campinas, ad esempio, hanno creato dei corsi specifici e differenziati per gli indigeni. Questo tipo di politica non solo ha garantito l’accesso all’università da parte degli indigeni, ma gradualmente sta modificando l’assetto universitario stesso, incorporando cosmovisioni, conoscenze e aspettative indigene, rendendo così il mondo accademico meno etnocentrico ed eurocentrico.

 

R.C.  Come il COVID-19 ha intaccato la vita degli indigeni?

L.E. Il presidente della repubblica è negazionista anche in relazione al coronavirus, da lui definito “semplice influenza”. Durante la crisi sanitaria ha cambiato più volte il ministro della Salute perché non concordava con le misure che venivano prese nel tentativo di arginare la crisi sanitaria. Alla fine ha nominato ministro un militare obbediente e incompetente.

La percentuale dei decessi tra gli indigeni è più elevata rispetto al resto della popolazione. Sono morti tantissimi saggi anziani, maestri, leader. Una perdita incommensurabile di saggezza, esperienze, conoscenze.

 

R.C.  Che cosa può fare chi non vive in Brasile per aiutare la causa indigena?

L.E. Bisogna informarsi, documentarsi, prendere atto che a determinare la situazione degli indigeni non sono la società e i politici locali, ma il capitalismo selvaggio che imperversa su tutto il mondo. Bisogna sapere che la bresaola italiana è fatta con carne che arriva dal Brasile. È già qualcosa se si boicottano i prodotti ottenuti su terre rubate agli indigeni, ma non basta. Ciò che ognuno di noi può fare è rivedere profondamente atteggiamenti e scelte: basta di accumulare, basta con il superfluo, basta con l’individualismo, basta con la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi ricchi sfondati.

 

R.C.  Quali sono gli insegnamenti che più le sono rimasti di tutti gli anni di lotta, testimonianza e resistenza? Cosa ha imparato di se stessa e del mondo che non avrebbe imparato rimanendo in Europa?

L.E. Ho imparato che lottare, resistere e testimoniare può aiutare altri a portare avanti queste medesime sfide. In relazione a me stessa, con gioia ho percepito di essere stata fedele ai sogni infantili e coerente con gli aneliti di giustizia avvertiti in gioventù. Se non fossi partita, non credo che sarei riuscita a sopportare più a lungo la vita che facevo, piena di oggetti e di vuoto interiore, di relazioni fredde e formali, di lavori che forniscono danaro ma rubano il tempo, la libertà, l’opportunità di realizzare i propri sogni.

R.C. Ha mai pensato di mollare?  Chi è Loretta Emiri oggi?

L.E. Non ho mai pensato di mollare, ma ho un rimpianto: se fossi stata un po’ più coraggiosa sarei partita qualche anno prima per l’Amazzonia. Poiché la rielaborazione dell’esperienza fatta è esplicita e voluta, posso dire che, attraverso la scrittura, oggi sto dando continuità all’esperienza stessa. Sono una donna tra tre culture: italiana di origine, latinoamericana per scelta essendomi naturalizzata brasiliana, indigena per passione dato l’amore che nutro per gli yanomami.

 

Foto di copertina: dagli archivi di Loretta Emiri, parte di una  fotogalleria realizzata per La Macchina Sognante.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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