Intervista di Mirella Santamato a Karl Louis Guillen (a cura di Marina Mazzolani)

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Nota di Marina Mazzolani
E’ indubbiamente Karl Louis Guillen quello che risponde a Mirella Santamato. Lo si riconosce dallo stile, diretto, colloquiale, che mescola dentro e fuori, la dimensione personale con quella collettiva, uno sguardo acuto e una sorta di candore, integro: lo stesso stile che caratterizza i suoi libri: “Il tritacarne”, pubblicato in Italia nel 1999 da Multimage (Torino), per la traduzione di Fiamma Lolli, presentazione di Marco De Ponte, con la prefazione di Massimo Carlotto); “Il sangue d’altri”, pubblicato in Italia nel 2009 da Multimage, per la traduzione di Michela Romaniello, presentazione di Elisabetta Menini. La sua è una storia famosa, almeno tra i gruppi di Amnesty in Italia. Si formò un Comitato Karl Louis Guillen. I ricavati dei libri citati servirono a garantire la difesa di Karl, che, detenuto per oltre vent’anni di cui 18 passati in isolamento (due nel braccio della morte), ha rischiato la condanna a morte e la sua esecuzione e ora, da un anno e mezzo, vive da uomo libero, essendo riuscito a dimostrare la propria innocenza.
In prigione Karl scrive. Perché non scriva gli spezzano le dita della mano destra, gli sequestrano e rompono varie macchine da scrivere. Ma Karl continua a scrivere, ricominciando ogni volta da capo il racconto-testimonianza del percorso che lo ha reso “prodotto” carcerario, proprietà di chi ne ha confezionato e ne gestisce il destino. Karl scrive consapevole del valore universale della sua testimonianza (come sostiene anche Fiamma Lolli nella postfazione del libro “Il tritacarne”, “Il detenuto è stato tradotto”), proprio perché ne ricava una denuncia precisa di un meccanismo invisibile che stritola persone e diritti, basato in primo luogo sui privilegi economici che garantiscono ogni genere di potere, compresa la discrezionalità con cui si emanano e si interpretano le leggi. Il sistema carcerario statunitense rivela le sue profonde ipocrisie ma l’incubo denunciato da Karl si fa più esteso: il meccanismo di controllo è più vasto e le distorsioni forse stanno nelle fondamenta di quel sistema che chiamiamo “democratico”. Forse sono da rivedere i comportamenti collettivi, forse occorre interrogarsi sulle filosofie che ne stanno alla base, cercare di capire quali condizionamenti possano influenzare il nostro modo di pensare, di metterci in relazione ai nostri simili, e se qualcuno davvero possa pensare di condizionarci, a che scopo e secondo quali interessi.
Karl è stato consapevole di essere, a un certo punto e non a caso, stato fatto diventare pedina di un gioco. Ha visto il gioco, ha visto i giocatori che lo manovravano, ha percepito l’ineluttabilità della fine, ha temuto per sé l’oblio di ogni insignificante pedina. Credo che sia riuscito a uscirne sostanzialmente per due ragioni: perché non si è scordato di essere una persona e perché ha sempre sognato di veder riconosciuto il valore della sua scrittura (racconti, romanzi, poesie, sceneggiature…).

Da “Il tritacarne” (Op. cit. p. 154 e pp. 165 – 168).
“Io non mi sono mai bucato, né sono mai diventato dipendente da nessuna sostanza chimica. Ho la scrittura, e vi posso garantire che è già una bella dipendenza. Quando mi hanno tolto, per un anno e mezzo, la macchina da scrivere, ho avuto vere e proprie crisi di astinenza, molto dure: le mani mi tremavano, inarrestabilmente, in particolar modo tra le undici di mattina e le cinque del pomeriggio, vale a dire le ore in cui ero abituato a scrivere. A volte credo di non essere fatto come tutti gli altri esseri umani, perché per me le dita sono un’espressione del cervello a tal punto che batto a macchina alla stessa velocità con cui penso. Sì, le mie mani vanno di pari passo con i miei pensieri e con le trame e le battute dei dialoghi che mi affollano la testa incessantemente, come una corrente continua. Quando scrivo a penna o a matita, invece, mi capita di perdere il filo a metà di una frase perché la mia testa sta già pensando alla frase successiva.”

“Il giorno in cui quell’uomo fu ucciso in quella mensa affollata è ormai lontano. Sono passati cinque anni. Mi hanno detto che il 15 giugno ci sarà il processo, e che per quella data avrò un nuovo avvocato. Credo che sarà il settimo, se non l’ottavo. Nessuno di loro finora ha mai indagato su alcunché e temo che i documenti relativi ai primi processi, e da me ripetutamente richiesti ai miei primi avvocati, siano stati distrutti. Dopotutto cinque anni sono lunghi. Credetemi.
Ho paura di andare sotto processo ma unicamente perché sono stato azzannato più di una volta dai cani da guardia del sistema per crimini mai accaduti. Ho sfidato l’apparato sia senza alcuna assistenza né difesa che con un’assistenza e difesa inefficaci, ma sta di fatto che in entrambi i casi la pallottola del sistema di giustizia mi ha centrato in pieno, causandomi ferite che secondo la corte richiedono una lunga riabilitazione: più di diciotto anni per la prima, ventisei per la seconda. Stavolta, però, la pistola è puntata direttamente alla tempia. E non c’è riabilitazione che possa riparare i danni di un colpo alla testa.
Quando ero all’esterno, fuori di qui, credevo a tutto quel che il governo mi diceva sulle prigioni, la criminalità e la gente al di là delle sbarre. Ero convinto – beninteso, nelle rarissime occasioni in cui perdevo il mio tempo a pensare ad argomenti del genere – che i detenuti fossero tutti bugiardi e che nessun agente di polizia avrebbe mai potuto mentire o manipolare la realtà o fabbricare prove solo per sbattere qualcuno in galera. La privazione forzata della libertà mi ha obbligato ad aprire gli occhi, come se solo il silenzio fosse in grado di farmi lentamente decifrare il disegno nascosto nella disposizione dei punti sulla carta. L’opinione pubblica può riuscire, se lo vuole, a collegare elementi apparentemente sconnessi, mettendoli a loro volta in relazione con determinati uomini politici – e con parecchi giudici – corrotti, nonché con alcune leggi e procedure. Tutto dipende, in ultima analisi, dalla feroce dicotomia tuttora esistente tra poveri e ricchi: la giustizia è un lusso in vendita che pochi possono permettersi di comprare, e chi non può viene gettato in una discarica speciale appositamente approntata dal governo: una discarica per rifiuti umani.
Se sarò sottoposto a processo prima di poter trovare le decine di migliaia di dollari necessari a pagarmi un vero avvocato allora con ogni probabilità verrò giudicato colpevole e condannato a morte. E se così andranno le cose, allora mi trasferiranno in un ennesimo braccio, stavolta definitivo.
Il braccio della morte.
Non sarà granché diverso dal braccio in cui mi trovo adesso, tranne che per un particolare: i miei vicini di cella. […] Persone di questo genere, che hanno tolto la vita come se niente fosse, così, senza nemmeno sapere perché. So quello che dico, perché ho parlato con alcuni di loro e ho capito come stanno le cose. Da quando ho imparato che nelle loro relazioni, documenti e rapporti ufficiali la verità si mescola implacabilmente alle menzogne sulle quali si fondano, non credo più al governo o ai tribunali.
A tutto questo bisogna aggiungere che i mezzi di comunicazione di massa – radio, televisione, giornali – con il loro linguaggio intriso di iperboli distolgono ulteriormente la pubblica opinione dalla pura e semplice verità dei fatti, svolgendo alla perfezione il loro compito di megafono della propaganda del sistema. La semplicità di un evento viene così complessificata e rimodellata che le mani del potere possono usarla come materia prima per la fabbricazione di ulteriori, innumerevoli storie e teorie, incessantemente, fino alla completa realizzazione degli obiettivi che si erano prefissi. A quel punto ci passano il prodotto finito e noi abbocchiamo senza fiatare, arrivando a fargli pubblicità; siamo talmente sicuri che sia la verità!
Pochi giorni prima di essere giustiziato mi porteranno alla “casa della morte”. È una palazzina di mattoni rossi, piccola: sul tetto c’è un comignolo, un tubo verticale non molto grande, dal quale un tempo disperdevano il gas venefico in eccesso. Oggi come oggi la camera a gas è stata riconvertita in una stanza per iniezioni letali. Non so a che cosa penserò pochi giorni prima di essere ucciso: spero solo che mi permettano di scrivere fino all’ultimo. Tempo ne avrò. Non so se riuscirò a piangere per la mia morte come mi capita di fare per le altre che vedo in televisione, ma ve lo racconterò, se me lo concederanno. Poche ore prima dell’ora stabilita per la mia esecuzione avrò il permesso di scegliere che cosa mangiare. Sarà la prima volta in anni e anni. Poi un’infermiera entrerà in cella e mi praticherà un’iniezione di barbiturici, per calmarmi i nervi. La punta dell’ago mi entrerà in corpo e sentirò una grande tranquillità avvolgermi, poi mi sembrerà che la lingua diventi spessa e pesante. Hanno calcolato i tempi con una tale perfezione che la droga raggiunge il massimo dell’effetto proprio mentre ti accompagnano per i pochi metri che separano la cella della morte dalla stanza dell’esecuzione. Non ci sarà da meravigliarsi, allora, se dalla mia bocca non usciranno le famose “ultime parole”; stordito, lo sguardo soffocato dalle luci, sarò a malapena cosciente delle forme confuse dietro il vetro: mia madre, il mio patrigno, mia sorella, i miei amici, gli zii… presenze, che rima ancora di essere separate da me da una lastra di vetro, saranno rese invisibili dalla luce che vi si rifletterà sopra. Batterò le palpebre, una, due, tre volte; a quel punto la bocca mi si sarà completamente seccata e inghiottirò a vuoto. Non avrò alcun panico perché gli antidepressivi mi avranno privato di qualsiasi emozione residua, appesantendomi le palpebre e facendole cadere come serrande metalliche che vengono chiuse, lentamente ma inesorabilmente. Chissà, forse mi arriverà il singhiozzo di qualcuno accanto a me (non potrei mai sentire i miei familiari o gli amici, per via del vetro), così almeno sarò rassicurato: la mia morte, dopotutto, sarà davvero una tragedia.
E con lei la fine delle poesie e delle canzoni. Il mio ultimo romanzo resterò incompiuto, sempre che il destino non voglia mettersi una mano sul cuore. Forse per quel giorno sarò diventato un autore pubblicato, o forse una delle mie venti e più sceneggiature avrà trovato un produttore. E forse qualcuno scriverà la storia di Karl, quello col K, giovane uomo gettato in mezzo ai lupi per crimini mai commessi, crimini addirittura mai accaduti, condannato a una pena durissima e senza fine. Magari sarà una storia strappalacrime che comincerà con la mia infanzia per poi farcirla di falsità, tipo che sono stato violentato o che ho subito ogni genere di abusi e maltrattamenti fino all’ultimo giorno della mia vita. Oppure sarò solo dimenticato dai più, un numero tra milioni di altri numeri, talmente insignificante da far sembrare la sua esecuzione una conclusione perfetta, un evento da ricordare durante le future riunioni di famiglia.
“Ah, Karl, era così un bravo ragazzo…”
“Non avrebbe mai dovuto partire per l’Arizona…”
“Ma perché, perché è partito?”
“E la sua bisnonna, te la ricordi? Prima di morire aspetto che Karl nascesse.”
“È vero! E poi quando nacque, lo toccammo tutti quanti insieme, dal primo all’ultimo; dicevamo che era “il bambino del miracolo”.”
Quando volerò via dal mio corpo restituirò la mente e i pensieri mentre la mia anima, leggera, vagherà per il mondo. Andrò a trovare tutti i miei carissimi amici che avranno combattuto al mio fianco senza ricevere alcun aiuto da chi pure avrebbe potuto dargliene. Sarò la brezza tiepida che sentiranno sulle guance, il sussurro che gli sembrerà di avvertire nelle orecchie, e poi via, sarò andato al di là, al di là dell’al di là. Ma a chi mi ha amato resterà tutto di me, a cominciare dalla mia memoria per finire – spero – con il mio sorriso. A chi mi ha amato e anche a chi, senza avermi mai incontrato, mi avrà creduto e difeso lealmente, con fiducia.
Ma forse tutti questi forse non avranno mai luogo, e la mia vita sarà risparmiata. Dipende tutto da quante e quali persone si preoccuperanno di agire davvero invece di limitarsi a parlare: e tra queste persone conto anche te.”

Da “Il sangue d’altri” (Op. Cit. p. 16, pp. 19 – 20, p. 25)
Non venire qui a cercare un finale degno di Shakespeare
o versi melodiosi di sonetti nati da un saggio ingegno,
a metà della ricerca potresti trovare
canali cristallini colmi di lacrime, una miniera di diamanti.
Osserva l’uomo quando il male o il bene è costretto a ponderare,
quando al giusto è affidato
dell’uomo in gabbia il controllo totale:
due bestie diverse nello stesso buco nero
che annaspano e si aggrappano ciascuno a ciò che si può afferrare.
Non preoccuparti della mia surreale realtà,
del sangue sul pavimento di casa mia,¹
né delle urla di agnelli scannati:
questo è un mondo di incubi erranti e di follia.
Questo è un mondo senza cielo né stelle,
senza treni che attraversano la campagna,
né sentieri da esplorare né ruscelli di montagna,
dove lo schiocco della frusta scandisce le regole da rispettare
e la mezzanotte non porta cieli stellati, ma urla orripilanti.
Cerca le mie verità in questi versi,
parlane o segui le tracce che ho tracciato,
traine sofferenza o insegnamento: a te la scelta.
Le parole che ti offro dal profondo mi lasciano a languire nel dolore.
Non venire qui a cercare ciò che la prigione esige,
perché le sbarre e la vita di cemento si sono presi tutto ciò che un tempo ho conosciuto.
Dentro gli ingranaggi del Tritacarne, fra i suoi flagelli e punte affilate,
scoprirai che il lubrificante è il sangue d’altri…

¹In gergo carcerario “home”, cioè “casa”, corrisponde alla cella del detenuto.

 

“È stata denunciata la presenza di un razzismo intrinseco al sistema di giustizia penale [statunitense] – dalla polizia alle corti – e chi sostiene tale teoria può avvalersi di numerosi dati di fatto: all’incirca un terzo della popolazione nera statunitense è sotto il controllo del sistema di giustizia penale; gli uomini di colore costituiscono fino al 59% della popolazione carceraria in America, mentre non rappresentano che il 6% della popolazione totale statunitense. Già queste statistiche da sole costituiscono argomenti convincenti del fatto che il sistema ha un’anima razzista. Pur ritenendo valida questa tesi, Karl dissente da un punto di vista che individua esclusivamente nel razzismo la chiave dell’ingiustizia. Lui ritiene che sia la classe a fare la differenza, vale a dire, chi ha tanto e chi niente. I ricchi e i poveri. È un punto di vista convincente, se si considera a che classe appartengono quelle persone che, invece di ricevere una tirata di orecchie, vengono mandate in carcere. O se si considera chi viene mandato sul patibolo e chi, invece, viene risparmiato. Karl dimostra che il classismo economico e culturale ha soppiantato il razzismo.
Dopo quasi vent’anni trascorsi in carcere, all’autore non è ancora capitato di conoscere qualcuno che fosse ricco al momento dell’arresto. Tranne un uomo di nome Giovanni, dichiarato colpevole di bigamia, conosciuto nel 1990. Possiamo convenire sul fatto che l’America ha il sistema di giustizia migliore che il denaro possa comprare. Se l’ingiustizia è un problema, classe e denaro possono aggirarlo.”

“Un governo tenderà sempre verso favoritismi aristocratici e provvedimenti legislativi di parte. Non tutti i poveri e i borghesi, soggiogati, comprendono che la lotta di classe è ancora viva. Le leggi, e le risorse che ci sono dietro, reprimono efficacemente qualsiasi proposito rivoluzionario del proletariato. Le prigioni trattengono potenziali rivoluzionari, mente la pubblicità e lo sport ipnotizzano gli altri.”
1) Chi è Karl Guillen secondo Karl? Come ti definiresti?
Karl è Karl, non è nessuno, è solo Karl dopo aver passato l’inferno, più o meno. Tento di aiutare le persone a guarire dalla paura, e anche a vedere la verità in questo mondo. Le verità che sono pericolose da manifestare, o anche quelle semplici, ma importanti.

2) Quale è stato il pensiero che ti ha tenuto in vita nei momenti più terribili della tua prigionia.
Dapprima era la rabbia a tenermi in vita, La rabbia di essere condannato per qualcosa che non avevo commesso, o, addirittura, che non era neanche accaduto. Avevo rabbia contro l’America, che aveva tradito il mio senso di giustizia, e la gente che sembravo degli antichi spettatori Romani con il pollice verso contro gli innocenti nel Colosseo. Non sono sicuro quando questo è cambiato, ma certo, dopo anni di isolamento, cominciai a sopravvivere per aiutare gli altri e non mi preoccupavo più di me. Semplicemente volevo che la gente uscisse, o almeno, ricevesse aiuto per la riabilitazione, consigli per uscire dalla droga, lavoro e cure mediche in prigione.

3) In quale momento hai realizzato che ce l’avresti fatta, anche se eri ancora in carcere?
Non ero così straordinario, sapevo solo che ce la potevo fare.

4) Secondo il tuo racconto, tu sei stato tradito molte volte, soprattutto da chi si dichiarava tuo amico. Che cosa è il tradimento per te e che cosa diresti ora a queste persone, se la avessi in questo momento davanti agli occhi?
Che cosa è il “tradimento”… Qualcuno direbbe che è un marito che inganna la moglie. Alcuni lo definiscono come una nazione permette degli abusi sui suoi cittadini. Io dico che il tradimento avviene quando le tue azioni, come Bruto o Giuda, cambiano in male la vita di un’altra persona, con l’aggravante di essere amici o innamorati. Il tradimento a volte è necessario per crescere. E’ un coltello ficcato nel cuore, una morte di un amore, ma può essere anche un momento di grande pulizia. Un momento di chiarificazione, in cui capisci che la persona di cui ti fidavi, è falsa. Spesso questo è un piccolo tradimento. Quando i predicatori in TV, che hanno milioni dai loro devoti Cristiani o Cattolici, vengono sorpresi con delle prostitute, o con Ferrai fiammanti “Ho peccato!” esclamano, ma è solo per finalità proprie che loro chiedono il perdono. Anche se solo Dio può perdonare i nostri peccati, secondo la loro Bibbia, perché chiedono alle persone di perdonarli? Soldi! Ego! Ma questi pagliacci, sono solo questo, dei clowns e dei buffoni. Se tu HAI FIDUCIA CHE QUALCOSA SARA’ FATTO E NON VIENE FATTO, QUESTO È TRADIMENTO. Quando qualcuno ti promette qualcosa e non lo fa, questo è tradimento.

5) Che cosa rappresenta per te la scrittura? E la pittura?
Io scrivo e dipingo per esprimere amore. L’amore è un lavoro reso visibile. Può essere anche sofferenza, amore, gioia, tristezza, o una verità di qualcosa di importante. Mi piace scrivere.

6) Dove abiti ora e dove vorresti abitare? 7)Tu hai più volte dichiarato che ami moltissimo l’Italia. Perché?
Vivo passando di casa in casa o dormo in macchina. Dipende dall’ospitalità degli amici. Sto aspettando di arrivare in un posto, o di avere abbastanza denaro per mettere su una base solida. Io non voglio pesare sui miei amici qui in Italia dove si lotta già con i soldi e lo spazio. Inoltre io sono un po’ troppo esuberante affinché i miei amici mi sopportino più di due giorni, anche perché io non capisco molto gli usi e i ruoli sociali, le donne, ecc.. Sono piuttosto ingenuo nei miei pensieri. Mi piace però pensare bene della gente. Per quanto riguarda l’Italia, questo è il posto del mio cuore, ma so anche che solo quando il mio cuore sarà insieme ad un altro, allora quella sarà casa. Non importa dove lei sarà, so solo che sarà italiana. Sorridi, per favore!

8) Karl e le donne. Come definiresti il tuo rapporto con loro?
Donne… Amo mia madre. Rispetto la sua natura di gran lavoratrice e lei mi è sempre sembrata bellissima. Credo che le donne siano il gentil sesso, le madri del mondo, senza le quali noi saremmo in guai seri. Io penso di essere fortunato, perché molti dicono così, ma io lo credo fermamente e seguo questi dettami quando incontro una donna. Loro non sono certo meno intelligenti di un uomo, anzi, l’uomo spesso ragiona troppo con altre parti, e perde di vista l’obiettivo. Spesso le cose sono chiare, ma poiché la Porche del signor Roberto è più piccola di quella del signor Giacomo, tutto si perde nell’ego e nelle cose dei maschi. Sorridi! Io ASCOLTO. Io non sento solo, io ascolto. Io non sono qui per il sesso o per cose impure. Io sono presente, i tutti i momenti in cui sono necessario, e ascolto la sua risposta, e la lascio piangere sulla mia spalla senza giudicare. SENZA GIUDIZIO. Io non sono certo Dio per poter giudicare qualcuno. Vedo quello che c’è e quello che non c’è. Se non vedo, ce la metto tutta per vedere. Ho scoperto che questo è vero sia dopo il rilascio, ma anche prima. LA VITA è SEMPLICE, SIAMO NOI CHE LA RENDIAMO DIFFICILE. Una donna ha bisogno di un uomo che la ascolti e senta che cosa dice al di là delle parole, con i suoi occhi, con il corpo, con le mani i sorrisi e la postura… e anche un uomo ha bisogno di una donna che lo ascolti ma spesso uomo è troppo bravo a parlare ad una donna e questo non va bene.

9) Karl e la legge. Che ne pensi delle leggi americane?
Penso che alcune leggi americane siano grandiose, ho scritto dei libri su queste leggi. Eppure c’è il gregge, la massa, il sistema che distorce e gira queste leggi in loro favore. Di solito una legge comincia in modo chiaro, per questo o quest’altro motivo, ma quando è attaccata dalle Corporazioni, dalla Polizia, dai Giudici, dagli Avvocati, e da tutte le parti corrotte della società, che spesso è corrotta lei stessa. La legge diventa nulla e vuota. E’ solo una ragione per fare male a qualcuno.

10) Come vedi il tuo futuro? Che cosa pensi di fare della tua vita miracolosamente recuperata?
Mi piacerebbe vedermi innamorato, sposato con un’anima bella e non essere famoso per farmi sentire da tutti, ma solo per avere soldi sufficienti per aiutare gli altri e girare il mondo. Casomai vorrei comprarmi un camper per dormirci quando vado in giro. Mi piacerebbe dimostrare delle verità che sono evidenti. Mi piacerebbe insegnare alle persone ad aver fede e forza. Ricordate che è la fede che fa muovere il primo passo, anche se non si vede l’intera scala.

 


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Karl Louis Guillen (scrittore e artista) è stato protagonista, benché innocente, di una intricata vicenda giudiziaria che lo aveva portato vicino alla condanna a morte, in Arizona, nel carcere di Florence. In modo rocambolesco il manoscritto autobiografico che racconta la sua vicenda, Il Tritacarne, è arrivato alla Multimage, diventando un libro-campagna che, all’inizio degli anni duemila, ha coinvolto centinaia di persone in una rete che ha diffuso questo libro in tutta Italia, con l’obiettivo di pagare le spese legali a Karl e strapparlo all’esecuzione. Sono state vendute circa 4000 copie e successivamente sono stati pubblicati anche le poesie Five Thinks e il seguito de Il TritacarneIl sangue d’altri. La vicenda giudiziaria si è conclusa con un patteggiamento che ha permesso a Karl di uscire di prigione, dopo vent’anni, nell’agosto del 2013. (Fonte: Pressenza -International Press Agency)

 

Mirella Santamato

Mirella Santamato Scrittrice, poetessa, giornalista, ricercatrice di Verità.Laureata presso l’Università di Bologna, iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti,Collabora con alcuni settimanali e mensili a diffusione nazionale. Ha pubblicato vari libri tra cui: L’altro centesimo del Cielo ( ed. Inedit) Io sirena fuor d’acqua ( ed. Mondadori) The Texas Death Row Hotel ( ed. Phoebus)- seconda edizione La Trappola Invisibile ( ed. M.I.R.)- seconda edizione – Il Segreto della Vita ( ed; Hobby & Work) L’Uomo che non c’è – Perché l’uomo non c’è? – ( Equilibrisospesi) -Le Principesse Ignoranti ( I codici segreti delle Fiabe Iniziatiche) ed. La Nuova. Ha vinto numerosi premi di poesia, ha partecipato a vari programmi Rai e Mediaset. Alcuni titoli delle sue conferenze:“ Chi è felice non si ammala”, “ I codici segreti delle Fiabe Iniziatiche” , “Eros il grande guaritore” ecc Conduce seminari dal titolo: “ Vivere felici e contenti”. Tiene conferenze ed incontri in tutta Italia. Per contatti e informazioni : Mobile: +39-347 3911095 www.mirellasantamato.net   www.viverefeliciecontenti.i  www.tolivehappilyeverafter”.com

 

 

MarinaM

 

Marina Mazzolani Vive a Imola. Laureata in Architettura a Venezia, si occupa di teatro dal 1977. E’ attrice, regista, drammaturga, ideatrice e organizzatrice di eventi culturali, direttore artistico. Scrive poesie e altro. Progetta azioni e percorsi teatrali ed artistici con forti valenze sociali, come induttori di movimento (motus contra status quo). Collabora o partecipa a progetti di altri.

Foto del quadro realizzata da Karl Guillen.

Foto degli autori, a cura di Karl Guillen, Mirella Santamato e Marina Mazzolani.

Riguardo il macchinista

Marina Mazzolani

Marina Mazzolani Vive a Imola. Laureata in Architettura a Venezia, si occupa di teatro dal 1977. E’ attrice, regista, drammaturga, ideatrice e organizzatrice di eventi culturali, direttore artistico. Scrive poesie e altro. Progetta azioni e percorsi teatrali ed artistici con forti valenze sociali, come induttori di movimento (motus contra status quo). Collabora o partecipa a progetti di altri.

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