Intervistare Mino Argentieri (classe 1927) è intervistare un pezzo della storia del cinema e della critica cinematografica italiana, me ne accorgo quando riesco a leggere stralci dei suoi intelligenti articoli, e quando scopro un po’ la storia della rivista Cinema60 (presentata per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia 1959) tutt’ora esistente. Per la verità prima ancora avevo mandato alla redazione di questa rivista un mio saggio, e nell’arco di un tempo lungo (alcune settimane) viene confermata dal mio intermediario con Argentieri, che la rivista è interessata a pubblicare il mio saggio. Inutile dire che mi sento onorato, ma il mio obbiettivo è ora di fare un’intervista a Argentieri, perché nonostante la mole del suo lavoro e l’impegno civile di decenni, non si trova molto materiale su ciò che ha fatto (a meno di non consultare direttamente i suoi libri e la rivista da lui diretta). Ci riesco intorno a luglio. In un giorno molto caldo, mi risponde al telefono, mentre io lo chiamo da Skype registrando direttamente l’intervista dal PC, con una voce squillante e solare. Ho l’impressione di sentire nel tono della sua voce una eco di familiarità ed eleganza –educata, sì, ma non formale- di altri tempi. La mia emozione riverbera felicità mentre posso, finalmente, porgli alcune domande.
- Che cos’è il cinema?
- A.Eh … tante cose. E’ parte integrante della vita, va oltre la vita, racconta, aiuta a sognare, a immaginare. Mette ognuno di noi davanti a se stesso, a ciò che viene fantasticato … è la vita. Una parte importante ed assolutamente irrinunciabile della vita.
- Come è arrivato al cinema?
- A.Io ho avuto un itinerario un po’ tortuoso, nel senso che come tutti i bambini di questo mondo negli anni ’30, anzitutto sono stato attratto dal lato favoloso del cinema, poi a dire la verità, il mio interesse è stato attirato dal teatro delle marionette perché era qualcosa che mi stava vicino. Mentre rispetto al cinema uno andava a vedere i film e poi nei giochi cercava di ricostruire quel mondo lì, il teatro delle marionette era qualcosa che si poteva fare in casa, tra mia madre, mio padre ed io, quindi mi vedevo soggetto più attivo. Si tratta di un altro tipo di gioco, perché poi io rivedo il cinema nei nostri giochi di bambini come un rifacimento ed invenzione delle avventure che avevamo vissuto nel buio della sala.
- Come è stato il passaggio al cinema?
- A.Il passaggio è stato un po’ graduale, perché poi a vent’anni questo avvicinamento al teatro, nell’immediato dopoguerra divenne una cosa un po’ più concreta. Questo perché avevo letto delle poesie di Garcia Lorca, in una vecchia rivista teatrale che però aveva ripreso le pubblicazioni dopo la fine della guerra, dopo la Liberazione e lì avevo letto una bellissima intervista che Garcia Lorca aveva rilasciato, prima diciamo della guerra civile, al nostro grande studioso di Storia del Teatro, Silvio D’Amico. In questa intervista lui parlava dell’ esperienza della Barraca. Si trattava della creazione di un gruppo di teatro di non professionisti, che però andava in giro per la Spagna a rappresentare alcuni classici del teatro spagnolo ed anche alcune piece scritte da Lorca. Questo mi aveva molto affascinato. Dissi, a me stesso, che bisognava mettersi in un gruppo di amici, per cercare di fare insieme anche da noi qualcosa del genere. Infatti formammo una compagnia che si chiamava La Baracca, traducendo ed italianizzando la Barraca di Lorca. Andavamo in giro o nelle sezioni del partito, o nel dopo lavoro, nei paesi o nelle scuole a rappresentare atti unici di Pirandello, Anouilh, O‘ Neill, pezzi diciamo sempre pescati in un repertorio non convenzionale. Poi la vita ha voluto che io fossi interessato – ad un certo punto- a una nuova professione che nasceva dopo la fine del fascismo e si materializzava nella figura dell’assistente sociale. L’assistente sociale non aveva allora una figura giuridica o un riconoscimento da parte della legge. Io seguivo una scuola bellissima, formidabile, che era diretta da uno dei nostri maggior filosofi, Guido Calogero. Attorno a lui c’erano degli storici di grande fama, critici letterari come Muffetta, che già insegnava all’Università Storia della Letteratura Italiana e anche lui ricordo tenne delle lezioni sul romanzo popolare italiano del 1800. Poi c’erano professori di psicologia. Era una cosa veramente nuova, innovativa, laica e ricchissima di contenuti e di stimoli culturali. Là dove questo mestiere dell’assistente sociale durante il Fascismo ed anche immediatamente dopo era invece consistito soprattutto in un’opera di assistenza limitata alla previdenza sociale, alle misure di sicurezza sul lavoro, invece questa scuola voleva essere qualcosa di più. Un laboratorio di formazione culturale per assistenti sociali, che non avessero una funzione non dico burocratica ma paraburocratica. In questa nuova scuola si voleva invece che imparassero ad usare soprattutto delle chiavi per avere un rapporto con la realtà sociale. Io lavorai poi, per un certo periodo di tempo, in un campo profughi dove avevo seguito un doposcuola e mi sorse il problema di usare il cinema. Dovevo far vedere dei film, non avendo però né un proiettore, né una macchina da 16 mm, insomma nulla, allora mi rivolsi all’USIS , che a quel tempo disponeva di un ricco repertorio di documentari americani, che erano stati portati in Italia. C’era, per esempio, tutta la serie curata da Frank Capra Perché Noi Combattiamo? dove, si spiegava quel pezzo di storia del ventesimo secolo che ha visto l’avvento del fascismo, del nazismo e del militarismo giapponese. C’erano poi nell’archivio documentari di animazione molto belli, ingegnosi sull’igiene orale e documentari sulle realizzazioni del New Deal. Un altro sulla Battaglia di S. Pietro qui in Italia, diretto da John Huston, che direttamente aveva filmato sul campo tutto quello che era successo. Da questo, su questi dati, ho dunque preso il mio avvio. La mia cultura cinematografica era modesta, abbastanza sguarnita.
- Quanti anni aveva in questo momento a cui si riferisce ?
- A.Avevo vent’anni. A quel tempo c’era il Centro Sperimentale che aveva una sua rivista, però molto specializzata, con una scarsa diffusione e la cui lettura presupponeva una preparazione di base che non avevamo, o poco consistente, perché derivata dalla lettura dei settimanali di cinema e dai quindicinali di cinema. Allora i settimanali in genere erano giornali popolari che si interessavano soprattutto alla vita dei divi, ad aspetti piu superficiali … salvo qualche eccezione ovviamente. I quindicinali invece, come Cinema diretto da Guido Aristarco, poi Cinema Nuovo che sarebbe nato da un dissidio interno alla rivista Cinema, questi consideravano il cinema un fatto culturale e quindi erano una fonte di informazione critica, orientativa e formativa. Poi il Centro Sperimentale, insieme ad una casa editrice milanese del dopoguerra, pubblicavano, dei libri sul cinema. Bisognerà attendere la fine della seconda metà degli anni ’40 con l’affermazione della casa editrice Einaudi, la quale darà vita ad una collana, guidata ed ispirata da Guido Aristarco, per vedere pubblicato, ad esempio, la Storia Universale del Cinema scritta da Georges Sadoul, testi che per noi erano delle finestre aperte. Sono state un po’ la nostra scuola elementare e diciamo la nostra università. Da lì in poi, sempre con questa visione dinamica e aperta culturalmente dell’assistenza sociale, sono passato a lavorare per un periodo, nella Organizzazione dell’ Assistenza Sociale del Sindacato cioè la CGIL, sto parlando del ’49, ’50. Lì facevamo cose curiose come, per esempio, corsi sulla Costituzione Italiana, corsi per l‘aggiornamento professionale dei lavoratori. Poi nacque l’idea di creare un Centro Cinematografico Popolare, per portare il cinema nei luoghi di lavoro e negli ambienti popolari. Così il mio interesse per il cinema man mano andò crescendo, finché mi sono identificato in questo tipo di attività che è prima consistito nell’organizzazione di queste proiezioni popolari, poi nell’organizzazione di un circolo del cinema. La formammo perché avevamo avuto degli incidenti con le autorità prefettizie avendo proiettato qualche film che la censura non voleva che fosse messo in circolazione, e dunque ci illudemmo – per dire la verità -che creando un circolo del cinema dunque, un’associazione a carattere privato, avremmo potuto godere di maggiore libertà. Demmo così vita a Roma nel 50’ al Circolo di Cultura Cinematografica Charlie Chaplin. Prima parlavo di un’illusione perché poi le autorità, in effetti, non smisero di riconoscere a queste associazioni private il privilegio di sfuggire alle regole per le proiezioni a carattere pubblico; quindi avemmo di nuovo degli scontri, ma imparammo a organizzare proiezioni clandestine di film che non potevano essere proiettati e il Circolo è andato avanti fino al 1967. Nel frattempo abbiamo dato vita a delle proiezioni di film in cicli monografici Il Lunedì del Rialto, scegliendo il giorno commercialmente più fiacco della settimana per il cinema, per riproporre film di valore e dimostrare che poteva esserci un pubblico per esso. Il Circolo, e parlo di una storia che non riguarda solo me, è stata la scuola. Lo volevamo fare per vedere i film di Chaplin, Griffith, il vecchio Cinema Espressionista e poi se possibile, film stranieri che non arrivavano nel circuito commerciale . Questo però divenne molto difficile perché il regime democristiano non lo consentiva. Ci fu grande ostilità da parte di Andreotti e di tutti i ministri e sottosegretari che sono venuti dopo. Una certa libertà si è raggiunta solo con il centro-sinistra nel 63/64, facendo respirare un po’ meglio i circoli di cinema. Nel frattempo mi chiamarono all’Unità per fare il secondo, il critico cinematografico. Allora si usava così in Italia, si aveva la figura del vice. Uno che andava al cinema ma non firmava, non essendo il titolare della rubrica e si lavorava molto perché arrivavano molti film e c’era da sgobbare. Per parecchi anni sono stato il vice dell’Unità, fino agli inizi degli anni ’60. Poi fui chiamato a fare il critico cinematografico del settimanale Rinascita. Era una rivista nata nel ‘44 con l’arrivo di Togliatti, poi si è trasformata in un settimanale. Per 25 anni ho fatto il critico cinematografico lì.
- Mi ha dato un sacco di materiale. Volevo tornare su due cose per chiarire meglio: quando faceva riferimento all’intervista di Garcia Lorca, di che rivista si trattava?
- A.Il Dramma, mentre l’intervista l’aveva fatta Silvio D’Amico. Naturalmente non ho mai capito se questa intervista fosse stata pubblicata al tempo. Credo di no, perché poi la vicenda politica che ha travolto Garcia Lorca non poteva … perché qualche lavoro di Lorca, poesie, anche testi teatrali Nozze di sangue, erano, sono stati pubblicati però senza entrare nel merito della morte, di come era morto e perché era morto. Per cui ho l’impressione che questo fosse un testo che Silvio D’Amico aveva tenuto nel cassetto a suo tempo e che lo avesse tirato fuori dopo la Liberazione.
- Quando invece faceva riferimento alla sua attività iniziale di quando aveva 20 anni, nel campo profughi, mi può spiegare meglio come è venuto il passaggio al cinema?
- A.Quando lavoravo nel campo profughi, diciamo la mia provvisoria ‘conversione’ era nata da uno spettacolo che avevamo tenuto in una colonia di ragazzi, dove avevamo dato una piece in un atto di Checov e poi una farsa Abbasso il Frolloccone di Vittorio Metz che era una cosa così … comica. Lì accadde che una donna molto intelligente che era l’animatrice di questa scuola diretta da Guido Calogero, si tratta di Angela Zucconi studiosa sia del danese che della lingua tedesca, aveva avuto un’esperienza in Danimarca già negli anni della guerra, aveva collaborato al settimanale Omnibus. Settimanale brillante e intelligente che ha avuto una vita breve (38-39), che era un giornale non dico antifascista (sarebbe inesatto), ma riuniva scrittori di una certa qualità. Riuniva il meglio del giornalismo italiano in quel periodo storico. Lei aveva scritto anche un libro, Ludovico Innamorato che era un romanzo biografico su Ludwig, protagonista su cui poi Visconti farà il film. Avendo poi conosciuto queste realtà dell’assistenza sociale in un paese scandinavo, che già prima della seconda guerra mondiale aveva conseguito delle realizzazioni piuttosto avanzate per quel tempo, rispetto all’Italia ma anche ad altri paesi europei, fu lei che dopo aver visto questo spettacolo mi disse, “Ma perché non vieni a lavorare con noi, … tu con i ragazzi entri facilmente in comunicazione, perché non facciamo dei giornali parlati, facciamo una specie di radio del Campo”. Si trattava di una colonia estiva che era stata aperta vicino a Trastevere, sotto il Gianicolo. Pian piano mi hanno tirato dentro a questa scuola. Tra l’altro poi davano un piccolo gettone di partecipazione, modesto ma che era anche motivo di attrazione. Però soprattutto quello che mi aveva affascinato era questo passaggio improvviso dalla scuola alla vita, dunque il campo profughi, questi tentativi di fare le colonie d’estate per ragazzi che avevano fame. Una delle cose che facemmo era un’inchiesta sull’alimentazione di queste famiglie. Se mangiavano carne, formaggio, se avevano lo zucchero perché cercavamo anche di tirare fuori dei dati per capire meglio la situazione. Quindi il mio cammino verso il cinema è stato molto particolare. Nessun altro all’infuori di me, credo, abbia fatto questo percorso.
- Lei dice campo profughi, ma oggi è diverso il concetto di campi profughi. Lei intende campi profughi per italiani o da dove venivano questi a cui si riferisce?
- A.Erano italiani che provenivano o dalla Libia o dai territori del Veneto, la parte che confinava con la Jugoslavia, quindi italiani profughi. Devo dire anche che questi italiani, in gran parte, erano anticomunisti perché, certo, la loro condizione era peggiorata. Da una parte per ciò che la colonia italiana aveva fatto in Libia, dall’altra su vicino alla Jugoslavia la dura condizione. Quindi noi assistenti sociali eravamo visti con sospetto … . In ogni modo con noi lavoravano persone politicamente, ideologicamente che avevano le più disparate e diverse provenienze. C’è poi stato un momento in cui sono stato in Danimarca per alcuni mesi.
- In che anno pressapoco?
- A.Parlo del 1947. Ci fu un iniziativa presa dalla Croce Rossa danese da un lato e dall’altro da un’associazione del mezzogiorno, a Napoli, per la salvezza dei ragazzi e per portare aiuto ai ragazzi più bisognosi. Fu creata una colonia di ragazzi che sarebbero stati ospitati per tre mesi da famiglie danesi. Poiché l’incontro tra questi ragazzi e le famiglie danesi, per via delle loro abitudini psicologiche e dei costumi, aveva creato delle difficoltà si era deciso di ospitarli in una bellissima residenza estiva del re di Danimarca. Si era allestito un campo per tutti i ragazzi che non avevano superato la prova della comunicazione con le famiglie ospitanti. Lì insomma si mandavano i ribelli, quelli che magari avevano rubacchiato qualcosa per seppellirla in un giardino e poi chissà portarla via ma, anche cose minori come per l’ incomunicabilità. Io andai lì per un mese e mi trovai benissimo con questi ragazzi, che non potevano essere capiti da questi danesi perché erano ragazzi che avevano, un paio, persino partecipato all’ Insurrezione di Napoli e questi della Croce Rossa che erano reduci da un travaglio, perché la Danimarca era stata occupata, si lamentavano dei loro atteggiamenti …. ma per me era una cosa che francamente faceva sorridere, anche perché l’ incomprensione veniva da temperamenti diversi. Noi poi cercavamo sempre di ispirarci al modello di La città dei ragazzi di padre Flanagan e dall’altra all’ esperienza di Makarenco nella Russia degli anni ‘30. Quindi gioco, scuola attiva, tentativo sempre di far capire cos’è la democrazia e come la si esercita. Sono state esperienze bellissime che su di me hanno agito con grande concretezza e mi hanno sempre ispirato a vedere il cinema mai come qualcosa di autoreferenziale. Per me il cinema è sempre legato ad una funzione, che può essere anche intelligentemente didattica o didascalica, ma comunque con un suo contenuto conoscitivo. Attività di esercizio critico che poi, per quanto mi riguarda, è stato sempre al centro del mio interesse. Senza vedere il cinema mai come forma, ma invece con contenuto umano, poetico, ideologico. Questo ha segnato tutta la mia maturazione ed approccio al cinema, che non è stato da cinefilo. Amore per il mezzo che voleva dire riconoscimento per la forza di questo mezzo che sarebbe stato sempre più importante, nella misura in cui avesse trasmesso, prodotto, provocato, stimolato riflessione, pensiero, emozione non solo di tipo emotivo ma anche intellettuale morale e così via. Quindi una visione ripeto non da fanatico. Tutto questo mi ha portato sempre più a vedere il cinema nel concerto di tutte le espressioni artistiche, Poesia, Teatro, Letteratura e anzi combattere la cinefilia, perché ci ho sempre sentito qualcosa di molto arido, ristretto e snobbistico. Quando la cinefilia si diverte a rivalutare film trash, in fondo non fa che mettere a nudo un aristocraticismo.
- Quali sono stati i suoi punti di riferimento nell’ambito critico ?
- A.Sono stati Chiarini, Barbaro poi naturalmente i grandi teorici, Steiner, Pudovkin, però tutto questo e’ avvenuto in un secondo tempo, perché fino al 1950 in Italia era stata pubblicata la Storia del Cinema di Pasinetti, scritta nel ‘39, qualcosa che era molto lontano. L’attenzione che veniva prestata al cinema nell’anno in cui io frequentavo le scuole medie, senza dunque essere ancora un frequentante dell’università dove gia’ esistevano i cine GUF organizzazioni degli studenti universitari fascisti, ma direi anche qualcosa di più, infatti organizzava la produzione di piccoli film o film documentari a 16 mm, dotando questi cine GUF delle attrezzature necessarie, per realizzare questi piccoli film. Io dunque non appartenevo per ragioni anagrafiche a questa leva dei giovani che si erano accostati al cinema attraverso i cine GUF e che sono stati anche autori che poi si sono rivelati di una certa importanza come Lattuada, Comencini, Lizzani, De Santis, etc. . La mia generazione usciva da una scuola che il cinema lo ignorava, se non lo ignorava si trattava solo di qualche film o documentario di propaganda fascista proiettato per le scolaresche. Per noi quindi il cinema era qualcosa di affascinante e stregante ma anche lontano, salvo andare nel cinema sotto casa e vedere i film; ma vedevamo i film americani, La carica dei seicento, I lancieri del Bengala con Errol Flynn, film d’avventura e spettacolari, non è che avessimo il sospetto che nel cinema ci fosse anche qualcosa d’altro come dell’arte. Io mi ricordo una cosa però, e cioè che ero affascinato dai film francesi; mi piaceva molto il personaggio di Jean Gabin. I film francesi erano stati molto ostacolati dai fascisti perché loro vedevano la negatività di quel mondo, che presentava uomini sconfitti ed antieroi. Però dal 1939 in poi, era cambiato l’atteggiamento della censura per una ragione, sì particolare, ma che aveva avuto poi la sua importanza. Nel 1938 lo stato fascista prese una decisione per ragioni non ideologiche, non di politica culturale, ma per ragioni valutarie poiché in quegli anni a dominare il mercato era soprattutto la cinematografia americana. Mussolini disse “Ma perché noi dobbiamo tramutare questi incassi copiosi del cinema americano che vanno in America trasformati in valuta pregiata?” e stabilisce una politica delle importazioni dall’estero e da tutti i paesi del mondo che doveva passare attraverso un’organizzazione di stato italiana regolamentatrice del prezzo, di cosa si prendeva, si importava e quanto si dovesse pagare per l’ingresso di questi film. Questo è un primo passo che ha per conseguenza la reazione delle grandi compagnie americane ( Metro, Paramount, Warner Bros …) che vendevano i loro film attraverso le loro agenzie in Italia, e che quindi decidono di sospendere l’invio dei loro film in Italia. Questo libera il mercato. Questi 500 /600 film americani che venivano da lì, andavano sostituiti ma non era possibile farlo con la produzione italiana e nemmeno con quella tedesca, messe insieme, per cui si incominciò a riaprire le porte verso altre cinematografie europee, come la francese, l’ungherese, il rinascente cinema spagnolo, i film norvegesi, danesi. Questo fece sì che film bellissimi come quelli che citavo di Jean Gabin fossero ammessi dalla censura e portati al grande pubblico, magari in versioni un po’ accommodate e rimaneggiate nei dialoghi. Questo atto del fascismo provocò una reazione terribile dalla Chiesa Cattolica italiana, perché nel cinema francese ravvisavano la visione di un mondo profondamente “immorale”. Per cui ci fu addirittura nel corso degli anni della guerra un braccio di ferro tra la censura fascista che paradossalmente era diventata un po’ più permissiva, per ragioni di politica economica e non culturale, e la Chiesa Cattolica. Ci fu un batage continuo che culminò nel 1943 con il sequestro di Ossessione di Luchino Visconti. Si capì che il cinema francese era latore di una visione morale e di una società diversa. I fascisti meno ottusi, paradossalmente, sostennero la tesi che questi film dovevano invece circolare in quanto espressione della decadenza di un Paese (la Francia) di un popolo, di una cultura di una potenza. Si sosteneva, insomma che questi film fossero la testimonianza e la spiegazione del perché la Francia nel 1940 fosse crollata.
- Secondo lei questa trovata da parte dei fascisti è da ritenersi una semplice furbata o i fascisti che si appellavano a questa visione credevano realmente quanto asserito?
- A.Diciamo la verità, la parte fascista più furba ma sostanzialmente stupida. Questo era un argomento che dilagava nella stampa e nella propaganda, però poi il gruppo di cinema Vecchia Serie, che è stata una delle riviste che soprattutto dal ‘40 a ‘43 ha fatto delle battaglie per un cinema che andasse alla scoperta della realtà italiana, loro invece sostenevano i film di Renoir, di Carneri come dei film capaci di esprimere un’ umanità dolorosa, profonda. Un’umanità più vera. Io di questo dibattito culturale ne sono venuto a conoscenza dopo, perché non leggevo ancora riviste di cinema di un certo livello, perché a quindici sedici anni ero ancora troppo ragazzino, però tutto questo è documentato e vero. La sconfitta della Francia venne portata come l’esempio del “marciume della democrazia parlamentare”.
- Quale è secondo lei l’attuale posizione della critica cinematografica italiana anche in relazione a quella europea ?
- A.Secondo il mio punto di vista, oggi si può dire che sia difficile ritrovare una critica che intanto abbia un progetto, un’idea di cinema, perché sono avvenute trasformazioni enormi, sul piano strutturale e culturale. Il cinema è diventato così, un altro capitolo. Da un punto di vista economico e strutturale, oramai, il cinema non vive più la sua lunga vita dei grandi schermi ma sui piccoli schermi. Una volta, negli anni ‘30 e anche del dopoguerra fino anni ‘50, la vita commerciale di un film era di cinque anni. Esisteva un mercato, prima visione, seconda visione, terza visione, film che non arrivavano alla terza visione, altri solo alle prime, oppure i film cosiddetti popolari napoletani ispirati a delle sceneggiate americane, questi non arrivavano nelle grandi sale delle città, ma neppure in quelle medie. Ora è cambiato tutto, il mercato è stato travolto dal mercato delle televisioni private che hanno fatto uso e abuso dei film, ma non limiterei il discorso all’arrivo delle televisioni. E’ il consumismo che ha offerto al grande pubblico altre alternative. L’Italia era stata un paese povero e come sempre nei paesi arretrati il cinema ha sempre un grande successo, non a caso in India si fanno più di 500 film. Oggi la vita commerciale di un film non è di 5 anni ma di 20, 30, 40 anni perché c’è una canalizzazione diversa che passa attraverso la televisione, le videocassette e poi a tutto quello che va verso il micro, sempre più micro fino ad internet. Insomma l’economia è stata sconvolta nelle sue radici. Quando io ero un ragazzo, i critici maggiori avevano una formazione di tipo umanistico, erano intellettuali che amavano la letteratura, il teatro, le arti figurative, la musica etc. etc.. Negli anni ‘50/’60 nei giornali quotidiani, e nei settimanali il cinema di qualità artistica e culturale aveva guadagnato molto spazio, sino in alcuni casi per i film di Pasolini o di Fellini La Dolce Vita arrivare ad occupare le prime pagine. Adesso tutto questo è finito, tutto questo è stato ucciso perché i giornali e i critici dei giornali che fanno opinione, anzitutto non hanno un’idea di cinema nuovo, come rinnovarlo, cambiarlo, come non adeguarlo al peggio dei tempi correnti, come difendere l’intelligenza nel cinema e combattere la stupidità che dilaga da ogni poro. Poi i direttori dei giornali si limitano, in fondo, ad assecondare i film che sono considerati al momento. A volte anche film d’arte intendiamoci. Eventi, allora c’è l’evento e tutta l’informazione concorre per una compatibilità con l’istituzione dell’evento, perché fanno anche loro un giornalismo basato principalmente sull’ evento in cui quest’ intreccio dove la ragione critica viene sempre più meno. Nei giornali, oramai le rubriche di critica si riducono a poca cosa, il punto di vista critico sui film di un festival si riducono a quindici righe, mentre tutto il resto è colore, folclore, dei divi, o anche dei registi anche loro diventati in qualche modo dei divi. Attraverso i grandi strumenti di informazione, giornali, televisione, si può dire che rispetto ai tempi di La Dolce Vita e di Pasolini sono stati fatti enormi passi indietro. Poi rimangono le riviste, però in Italia le riviste di cinema non hanno una diffusione, una eco o incidenza come l’hanno in Francia perché sono riviste di nicchia, messaggi lanciati attraverso una bottiglia buttata nel mare, quindi sono riviste che si rivolgono a un pubblico molto ristretto. In Italia è impensabile una rivista di cinema come Le Cahiers du Cinema , che ha ventimila lettori, si parla invece di qualche migliaio di lettori nel migliore dei casi. E’ vero però che l’ingresso del cinema negli studi universitari si è sviluppato soprattutto negli anni ‘70 anche se c’erano stati nel passato casi, ma parliamo di due o tre cattedre sempre in città di provincia con un bacino ristretto di utenza e di incisività. Adesso ormai quasi tutte le università italiane dislocate sui centri più importanti del Paese esistono, forniscono per molti giovani delle occasioni e degli strumenti che non sarebbero arrivati. Questo è perché in molte città i circoli di cinema sono morti e non esistono ormai da anni. L’Università è diventata quanto meno una potenzialità per effettuare lavori di ricerca in profondità, sia per gli studenti. Però nella scuola italiana nel suo insieme il cinema non è una materia entrata.
- Le faccio due domande rispetto a quello che sta dicendo. Questo fenomeno a cui si riferisce dell’Università non rischia a sua volta di diventare elitario? Poi in relazione a questo le chiedo che cosa rappresenta la sua rivista Cinema60?
- A.Il vero pericolo è che l’università possa sostituire la vecchia struttura dei cineclub, che si difende ancora oggi ma insomma ha subito anch’essa delle ripercussioni di questa trasformazione globale del fenomeno audiovisivo e cinematografico. Un pericolo, sì, ci potrebbe essere, di una forma di elittarismo. Però bisogna tener presente che, parlo dalla mia prospettiva di 25 anni di insegnamento a Napoli. La maggioranza dei miei studenti era rappresentata da ragazzi e ragazze che venivano dalla provincia, e in provincia non c’erano strutture dove si aveva il cineclub e la sala di cinema d’essai. Devo dire che il livello di conoscenze cinematografiche di questi ragazzi era minimo, non mi riferisco al livello di altri ragazzi di altre città. C’era un livello culturale per la cultura in genere molto basso e questo confessato, riconosciuto, ammesso o no, ritengo sia un pezzo consistente della realtà attuale. Però per questi ragazzi è stata un’occasione. A parte, va considerato l’insegnamento del cinema inserito nel DAMS, ovvero dei settori dell’università dove si accorpano più materie, teatro, musica, allora lì la formazione diventa più compatta. Però rimane sempre il grande interrogativo: che faranno questi giovani? Alcuni giovani, anche dei miei studenti, sono riusciti ad entrare al Centro Sperimentale, sono diventati organizzatori di produzioni, alcuni critici, altri montatori e così via ma la grande massa poi non si capisce che fine farà, perché l’inizio dell’incontro è quello di credere che un giorno diventeranno registi, attori ma questo invece vale per pochi, assolutamente per pochi. L’università può svolgere una funzione di stimolo culturale, poiché il cinema è tanta parte, nel bene e nel male, della cultura del popolo delle masse. Io esortavo sempre i ragazzi ad approfittare di questa occasione che sarebbe stata un primo passetto, perché poi la cosa fondamentale è diventare persone che abbiano una visione del mondo, della cultura, dell’arte e quindi di considerare il cinema come uno strumento che potrà servire a loro se andranno ad insegnare. Qui c’è proprio il baco grosso, nelle università il cinema è entrato e si è diffuso, ha favorito la formazione di nuovi docenti, ha arricchito la ricerca storica però poi non è entrato nell’ordinamento scolastico perché se fosse entrato avrebbe offerto occasione di lavoro ai ragazzi che hanno avuto il primo impatto a livello universitario. Queste sono un po’ le contraddizioni. In poche parole il sunto è che il cinema è entrato nell’università sulla spinta dei movimenti del ‘68 perché senza questi non sarebbero nate delle discipline che riguardano la contemporaneità, la Sociologia’ ad esempio sarebbe stata più confinata. Non è un caso che il cinema entra nell’università dopo il ’68, su una spinta ad aprire l’università verso i nuovi saperi, e su nuove visioni dei vecchi saperi. Tutto questo non è stato programmato dallo Stato, ma nasce su spinte Baronali, cioè per aumentare il potere dei professori. I docenti come me, ad esempio, non sono stati esaminati da professori che si fossero occupati di cinema, ma invece da architetti, critici d’arte e storici del teatro, cioè discipline, cattedre e baronie che volevano accrescere il loro potere aprendolo alle nuove discipline. Il panorama che descrivo è pieno di contraddizioni. Per rispondere all’altra domanda: la nostra rivista è nata da alcuni critici di sinistra, comunisti, che già scrivevano su giornale di ispirazione marxista o comunista. Noi sentivamo il bisogno di avere uno strumento molto libero, aperto, perché pensavamo che la destalinizzazione nei paesi dell’Est e in URSS andava lentamente e che c’era da rinnovare con più rapidità e con più coraggio, rompere gli schemi, le rigidezze e le schematizzazioni rispetto quel che rigardava il fenomeno dell’Est. Per quanto riguarda l’Italia, esisteva un rinnovamento nel cinema, negli anni sessanta, ma questo rinnovamento era frenato da un processo di commercializzazione, che nell’immediato dopo guerra, per quello che concerneva le cose più riuscite del cinema neorealista, non c’era. Quel cinema aveva goduto di una maggiore libertà ma era un cinema che il grande pubblico non aveva seguito. Mi riferisco a Rossellini, o La Terra Trema , salvo il caso di Roma Città Aperta, non avevano incontrato il pubblico perché erano più avanti del pubblico. Questa considerazione è valida per Ladri di Biciclette, Suscia’, Miracolo a Milano, i film di Castellani, Zampa, Germi, Lattuada, in cui si sente lo sforzo di parlare ad un grande pubblico senza venir meno ad esigenze di rigore, erano stati visti. Alcuni avevano avuto persino un discreto consenso. Noi nel sessanta sentiamo che proprio quest’ala che corrisponde ad un’ala dell’industria cinematografica italiana vuole riprendere e tessere un filo che aveva prodotto questi esiti eccellenti, ma dei film isole. Film che sono stati poi valorizzati, -vivono sempre- ma che in quel momento avevano poi in fondo dovuto fare i conti con la maggioranza di un Paese che era abbastanza reazionario, conservatore, su cui la chiesa Cattolica di allora aveva avuto un influenza nefasta in quanto, aveva ritardato i processi di rinnovamento. E allora noi, in quegli anni, abbiamo colto questo piccolo nuovo salto di qualità che vuol fare l’industria ma avertimmo sempre un grande limite nel tentativo di lasciare predominare l’istanza mercantile e commerciale. Riconoscendo che questi film portavano un po’ di aria nuova, ci accorgiamo però che lo stesso Rossellini in Il Generale della Rovere non aveva quella forza espressiva e innovativa nel linguaggio che c’era in Roma Città Aperta, Paisa’, e poi anche nei film suoi che non guardavano al box office, tipo Francesco, Giullare di Dio. Quindi noi volevamo dare un alto là alla critica, come un non confondiamo tutto questo come qualcosa che si muove come una rinascita del Neorealismo. Poi eravamo positivamente colpiti da queste forme nuove a metà tra documentario e fiction, tecniche di impresa agili che non comportavano più quell’ammasso di attrezzature tecniche che riducevano le libertà. Soprattutto volevamo proporre delle politiche cinematografiche dello stato a favore di una produzione libera dai condizionamenti commerciali. Noi ci battevamo affinché le strutture pubbliche cinematografiche che aveva creato il fascismo, e che poi erano state quasi tutte privatizzate, fossero riconcepite, riconsiderate, ricreate per assolvere a questo compito prevalentemente culturale. Cioè per servire a un cinema che, oltre a rinnovare se stesso, servisse a rinnovare anche il pubblico, avendo sempre presente quella straordinaria intuizione di Marx e Engels per cui è la qualità dell’opera d’arte che crea la qualità del fruitore dell’opera d’arte. Per cui se l’opera è mediocre è difficile che chi ne ha usufruito in maniera non critica possa alzare il suo livello di valutazione e di percezione. Questo un po’ lo spirito. Naturalmente, stradafacendo, la rivista ha usato prevalentemente il metodo del confronto fra i collaboratori. Non è una rivista che sposa un film però, diciamo, sposa un idea: un’idea di cinema. Sui film ci dividiamo, perché ognuno fa l’analisi che ritiene in cui si rispecchia il suo modo di vedere l’opera nella sua concretezza.
- Che cosa rappresenta oggi Cinema60 e che cosa dovrebbe, secondo lei, rappresentare continuando ad esistere per il futuro?
- A.Questo è un problema grosso. Va bene la nostra è una testimonianza, una volontà di resistenza. E’ anche un piacere, un piacere di scavare, ma tutto questo è diventato molto faticoso e difficoltoso perché è inserito in un contesto che va in altre direzioni. Oggi io sentirei il bisogno di rimettere in primo piano il problema politico dello scadimento della cultura italiana e soprattutto della cultura di massa costituita dalla televisione, in primo luogo da quella di stato, che non si è distinta da quella commerciale e da quella privata, dominata dai partiti vincenti del momento. Oggi è bassa la temperatura culturale del Paese e anche se ci sono manifestazioni di reazione sindacale. Non si può prescindere dal fatto che non esista più in Italia una sinistra, e l’intellettualità che un tempo si schierava a sinistra ormai sta confinata nelle università a difendere le proprie cattedre, salvo alcuni casi ed eccezioni. Oggi bisognerebbe riproporre in primo piano il problema politico della carenza culturale della sinistra, conseguente all’auto-affondamento della sinistra italiana che è morta. Quando gli opinionisti dei grandi giornali definiscono di sinistra personaggi come Renzi o partiti come il PD stanno dando i numeri, dicendo cose che non stanno né in cielo né in terra. Sia chiaro, io non ho rimpianti per il passato, anche perché esso ci appare in una luce diversa rispetto agli anni in cui l’abbiamo vissuto, perché quello che accade oggi è lo stadio ultimo di un processo che ha inizio almeno 30, 40 anni fa , forse persino nella sinistra post bellica di Togliatti ed altri. Anzi oggi, questa crisi devastante, che non vuole essere la mia definizione frutto di nostalgia per ideologie, anche perché ci sono stati anni e anni di polemiche contro l’egemonia culturale della sinistra, perché sono tutte cose inventate … De Sica non era mica un uomo di sinistra, era … un artista, non è che faceva della ideologia. Il Partito Comunista Italiano si è trovato in un paese clericale dove veniva esercitata una censura sulla base di leggi che erano ancora quelle del 1923 e di tutto il ventennio fascista, ad esercitare una funzione liberale battendosi prima per una diversa censura. Poi noi più giovani siamo riusciti a vincere la nostra battaglia e a far capire che non esiste una censura democratica e che bisogna lottare contro tutti i tipi di censura. Ora non possiamo in questa chiacchierata simpatica sintetizzare 70/ 80 anni di storia politica, culturale ed economica. Il cinema è un prisma formidabile, se però noi sappiamo utilizzarlo, se insomma usciamo dalle teorie del postmodernismo, se riusciamo a capire che nel cinema si possono trovare tante cose, anche tra le cose peggiori, un po’ per farle diventare quello che non sono. Ma se lo vogliamo anche godere perché non analizzare, approfondire, vedere da angolazioni pluridisciplinari? Per me il cinema è proprio l’ideale. Ma a chi lo facciamo questo discorso, ai critici dei quotidiani? Ma a loro non gliene importa niente, devono scrivere 15 righe, sono pagati bene; a quelli della televisione ? … sono stupidi servipreti … purtroppo il discorso diventa un discorso che abbraccia tutte le comunicazioni che sono intercomunicanti tra di loro. Basti pensare che oggi in Italia non è concepibile la produzione di un film se non c’è di mezzo una delle tre fonti produttive che monopolizzano il campo e cioè da una parte, le sovvenzioni dello stato, dall’altra i soldi che ci mettono la Rai e Mediaset oppure Sky che adesso comincia anche a produrre qualcosa. Difficile duque circoscrivere la riflessione allo stretto ambito cinematografico, difficile astrarsi da un contesto di decadenza culturale, di sonnolenza culturale … il quadro si è dunque capovolto e rovesciato. E’ difficile riaprire un discorso che riguarda l’attività creativa se non si trova un orizzonte politico. Questo io lo sento anche se so che può attirare su di me gravi sospetti di vecchio nostalgico di momenti migliori e più fervidi per la sinistra. Io l’ho sempre sostenuto, guardate che le vittorie e le sconfitte politiche precedono o seguono le vittorie o le sconfitte culturali, perché la politica deve avere un contenuto critico e rinnovatore. Se l’unico contenuto che oggi spazia nel nostro mondo è quello appunto dell’ economia di mercato, del neoliberismo, intrattenimento, televisione che rincretinisce, allora veramente la prima cosa da fare non è pensare ai film, ma di trovare un terreno. Dall’altra parte il grande errore di tutta l’esperienza comunista in oriente, in Russia e in parte anche in Italia (anche se bisogna riconscere che i comunisti italiani siano stati meno beceri degli altri), il compito della politica è quello di creare un terreno dove le idee possano maturare ma non abbracciando una tendenza artistica, ma favorire il dibattito, la discussione, il fermento, non avere una funzione strumentale dell’arte e della cultura perché esse hanno bisogno di aria. Lo diceva anche Lenin l’arte è anarchica, poi va bene, si è contraddetto, è questo che la politica dovrebbe fare oggi: avere un’idea di società diversa da questa, favorire nel campo artistico e culturale esperienze più coraggiose, più innovative, inventive e critiche. E sul piano culturale dovrebbe fare in modo che gli strumenti pubblici, che la politica cinematografica o televisiva dello stato siano orientate a fornire strumenti che allentino i condizionamenti dei mercati sugli autori.
- Le faccio un’ultima domanda, molto grato del suo tempo, ma una risposta secca. Qual è recentemente il film o la critica che l’ha più emozionata o colpita?
- A.Il film su Leopardi.
- Il giovane favoloso.
- A.Il giovane favoloso, è un tipo di cinema per il quale mi sono sempre battuto, che tenti di dare corpo non solo a un mondo poetico ma anche al mondo delle idee. E’ una strada difficilissima, perché non è facile sposare idee filosofiche, anche perché il lato che mi ha più affascinato sia in Leopardi che nel film è il tentativo di restituircelo fuori da cliche convenzionali, mettendo al centro del film il filosofo in senso lato.
Mino Argentieri (Pescara 13 agosto 1927): Critico cinematografico dal 1959 per L’Unità e dal 1962 per Rinascita, Storico del cinema, dal 1959 fondatore insieme a T. Chiaretti, S. Cilento, L. Quaglietti e G. Vento e poi Direttore della rivista Cinema60, Direttore dell’associazione culturale La Biblioteca del Cinema “Umberto Barbaro”, autore dei libri, tra gli altri, La censura nel cinema (1974, Editori Riuniti), Il cinema sovietico negli anni trenta (1979, Editori Riuniti), L’occhio del regime (1979 Vallecchi, 2003 Bulzoni Editore), Il cinema italiano dal dopoguerra ad oggi (1998, Editori Riuniti), Storia del cinema italiano (2006, Newton Compton Editori).
Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale preso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.
https://www.facebook.com/cinequartiere
Foto in evidenza di Melina Piccolo.