FUNKY TOMATO: QUANDO LA LOTTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO MIGRANTE PASSA DAL COLLO DI UNA BOTTIGLIA…DI POMODORO.
Intervista a Mimmo Perrotta, sociologo, ricercatore, attivista di Fuori dal Ghetto e Osservatorio Migranti Basilicata e coideatore del progetto Funky Tomato partner della rete SfruttaZero.
Elena Cesari: Come nasce il progetto Funky Tomato?
Mimmo Perrotta: Il gruppo Funky Tomato nasce dall’intreccio di diversi percorsi.
Io vengo da un’associazione che si chiama Fuori dal Ghetto e Osservatorio Migranti Basilicata nel territorio di Venosa, che è il luogo in cui sono cresciuto e in cui c’è uno dei ghetti abitati stagionalmente dai raccoglitori di pomodoro, quasi tutti migranti africani, nella contrada di Boreano. In questo posto noi abbiamo fatto per tre anni una scuola di italiano della durata di un mese e mezzo, nella stagione di raccolta, da metà agosto a fine settembre, alternandoci con un po’ di insegnanti volontari sia dei paesi vicini, Lavello, Palazzo San Gervasio, sia di volontari provenienti da tutt’Italia. Io sono ricercatore universitario quindi il mio primo approccio a questi temi è stato attraverso la ricerca: da 6 anni faccio ricerca sul lavoro dei migranti in agricoltura e sulle filiere agroalimentari. Siccome non riesco a separare il lavoro di ricerca dal lavoro di intervento sociale e politico, insieme ad altri abbiamo messo su l’associazione Fuori dal Ghetto Venosa, che fra le varie attività organizza una scuola d’italiano di Boreano. Così abbiamo conosciuto decine di braccianti africani.
La raccolta del pomodoro da industria è un’attività stagionale, la massa dei braccianti arriva a metà di luglio e riparte ai primi di ottobre, anche se negli ultimi anni, grazie anche alle attività delle nostre associazioni, almeno una quindicina di migranti hanno trovato appartamenti a Venosa e altrettanti a Palazzo e non abitano più nei ghetti. Ci sono altre associazioni che si occupano di questi temi: a Venosa c’è la Chiesa Evangelica, c’è ovviamente la Caritas, c’è un circolo Arci.
Inoltre, abitando a Bologna ho fatto esperienza nei G.a.s ( gruppi di acquisto solidale), ho conosciuto Campi Aperti per la Sovranità Alimentare, S.O.S Rosarno. Così già dal 2013 avevamo iniziato a fare dei piccoli esperimenti di produzione solidale di pomodori assieme ad alcuni braccianti africani. Nel 2013 avevamo prodotto una ventina di quintali di pomodoro con un bracciante del Burkina Faso che abita vicino al ghetto di Boreano e l’avevamo venduto alle famiglie di Venosa che facevano la salsa; nel 2014 avevamo ripetuto il progetto, però aggiungendo alla vendita dei pomodori anche la produzione di un po’ di salsa, che avevamo chiamato salsa Barkafoo, insieme a cinque ragazzi del Burkina Faso in un paio di giornate di produzione collettiva di salsa.
E.C: Qual è il salto di qualità che avete cercato di fare attraverso Funky Tomato?
M.P. Ci siamo accorti che per coinvolgere davvero i braccianti in un progetto produttivo bisognava fare più sul serio, cercando di organizzare la produzione in modo da dare almeno due mesi di lavoro. Per un bracciante trovare lavoro nelle nostre zone senza caporale è praticamente impossibile. Quindi, se l’obiettivo che ci eravamo dati era di iniziare a produrre pomodoro senza caporali, finchè restava una cosa di due giornate per i ragazzi era assolutamente inutile perchè loro cercano un lavoro per tutta la stagione. Così nella stagione 2015 è nato il progetto Funky Tomato.
E.C: Chi ha preso parte al progetto?
M.P. Le persone che hanno partecipato al progetto sono stati due agricoltori, un perito agrario, artisti, operatori sanitari, ingeneri. Inoltre hanno lavorato al progetto due braccianti agricoli del Burkina Faso che avevano frequentato la scuola di italiano di Boreano con Fuori dal Ghetto, un signore senengalese che da anni è impegnato in progetti di economia solidale, una giovane mamma italiana disoccupata.
La vendita della salsa è stata effettuata in diverse città italiane,attraverso i gruppi di acquisto, ristoranti, botteghe del commercio equo, cooperative sociali che ospitano richiedenti asilo.
E.C: Avete trovato resistenze o ostilità nella popolazione?
M. P. Resistenze no, ma difficoltà sì. Ad esempio non è stato facile trovare dei ragazzi africani che credessero in questo progetto, perchè loro ci dicevano: “il caporale mi grantisce 30-35 giornate di lavoro, in nero, sfruttato, ma chi mi garantisce che lavorando con voi ce la faccio?”
Quindi abbiamo capito che dovevamo dare due mesi di lavoro alle persone che lavoravano con noi.
Con questo piccolo progetto noi abbiamo dimostrato che con appena 3000 metri quadrati e un laboratorio di trasformazione si può fare tantissimo! Si tratta di pochissimo terreno: tieni conto che ci sono aziende che fanno 100-150 ettari di pomodori, noi con solo 3000 metri quadri abbiamo fatto una cosa che ha avuto 35.000 euro di fatturato che sono serviti a remunerare l’agricoltore che ha messo a disposizione il terreno, il laboratorio preso in affitto per la trasformazione dei pomodori le quattro persone assunte, la persona che ha realizzato il stio web e un’altra parte è servita a coprire i rimborsi e le spese.
E. C. Se dovessi fare un po’ il bilancio di questo primo anno di Funky Tomato…
M. P. Funky Tomato è stata la produzione di quasi 18.000 vasetti di pomodoro nell’estate del 2015, abbiamo trasformato circa 150/160 quintali di pomodoro prodotti da noi con due agricoltori tra la Basilicata e la Puglia,
Lo scopo era produrre una salsa buona, condotta con metodi naturali e senza chimica, anche se senza certificazione biologica, ma soprattutto intervenire sullo sfruttamento del lavoro migrante in agricoltura. Con Funky Tomato avevamo l’obiettivo di dare dei contratti in regola ad alcuni operai che altrimenti avrebbero lavorato con il caporalato. Siamo riusciti a dare 4 contratti di lavoro in regola per due mesi.
E. C. Come avviene la raccolta del pomodoro da industria in Italia ?
M. P. Tra il foggiano e il nord della Basilicata si concentra un terzo della produzione dei pomodori da industria italiani; è il territorio in cui se ne produce di più, assieme all’Emilia (tra Parma, Piacenza e Ferrara). Si tratta di circa 2 milioni di tonnellate di pomodoro, di cui almeno la metà viene ancora raccolta a mano. In altre parti di Italia e del mondo la raccolta è totalmente meccanizzata; per essere competitiva con la raccolta meccanizzata, la raccolta manuale utilizza oggi lavoro sfruttato, lavoro pagato a cottimo, organizzato attraverso i caporali. Dove 5 o 6 operai lavorano in un campo di pomodori con la raccolta meccanizzata, per avere lo stesso risultato con la raccolta manuale servono circa 30 operai che devono essere veloci e quindi disposti ad essere pagati a cottimo. Di solito poi questi operai vivono, come è ormai abbastanza noto, in grosse baraccopoli nelle campagne, vengono organizzati da mediatori comunemente chiamati caporali, che fanno questo lavoro indispensabile per la filiera ma illegale; tutto il costo di questo “servizio” di intermediazione viene a pesare sul salario dei braccianti, in condizioni di segregazione abitativa e di sfruttamento lavorativo, di condizioni sanitarie disastrose, nell’assenza delle istituzioni…
E. C. Sono molti i richiedenti asilo che vengono sfruttati in questo settore?
M. P. I richiedenti asilo sfruttati sono tantissimi. Nel 2004 Medici senza frontiere fece un’inchiesta (pubblicata nel 2005) nelle campagne del sud Italia, che stimava che l’80% dei braccianti africani era senza permesso di soggiorno. Un’indagine simile fatta nel 2014 da Medici per i diritti Umani ha rilevato che la stessa percentuale ha oggi un permesso di soggiorno per protezione internazionale o per motivi umanitari.
Quindi oggi nelle campagne ci sono pochissimi “clandestini”, moltissimi richiedenti asilo, molti neocomunitari e migranti con permesso di soggiorno per lavoro subordinato licenziati da altri settori, che vanno a cercare un lavoro in agricoltura finchè non ritrovano un altro impiego.
Molti richiedenti asilo sia prima che dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno fuoriescono dai circuiti dell’accoglienza istituzionalizzata, dagli Sprar ai Cas, carente e a volte insignificante o inutile. Spesso si tratta dei più attivi fra loro, magari giudicati malissimo dagli operatori, considerati per lo più ingrati o incapaci di stare dentro dei percorsi di accoglienza; in realtà sono persone che vogliono semplicemente lavorare per mandare i soldi a casa in Africa e stando per un anno senza far niente nelle strutture di accoglienza si sentono inutili.
E. C. Quali sono le prospettive future di Fanky Tomato? E’ una esperienza ripetibile e soprattutto potrà diventare un progetto più sistematico e più vasto?
M. P. L’idea di quest’anno, che stiamo discutendo in queste settimane, è di raddoppiare la produzione, ovvero di passare da 20.000 a 40.000 bottiglie di pomodoro, e di farlo fare a 4 aziende agricole: quindi non più 20.000 vasi tutti nello stesso posto, ma 10.000 in 4 posti diversi. L’idea è di stipulare un protocollo di produzione, proponendolo a delle aziende agricole che hanno un laboratorio di trasformazione, con una sorta di scambio: con la prevendita del prodotto e il pagamento anticipato si garantisce l’assunzione di almeno due lavoratori che sono assunti in regola, e che così non dipendono più dai caporali. Il progetto si svolgerà tra la Basilicata e la Campania, anche grazie al fatto che in alcuni territori si è creato un interesse al progetto e alcune aziende e associazioni ci hanno chiesto se potevamo dare loro una mano a replicarlo. Ad esempio in Campania, nella piana del Sele, dove ci sono centinaia di braccianti marocchini che vengono sfruttati nell’agricoltura in serra.
Adesso quindi dobbiamo rimetterci al lavoro: ad aprile ripartiremo con le prevendite della passata. Cerchiamo di lavorare sulle varietà locali e non i pomodori da industria.
E.C: Quali sono secondo te i nodi principali da affrontare per combattere lo sfruttamento del lavoro migrante in agricoltura?
M. P. Il punto è che il fenomeno dello sfruttamento del lavoro migrante e del caporalato non c’è solo da noi, ma c’è in tutte le aree rurali dove si è sviluppata un’agricoltura intensiva soprattutto di prodotto fresco. In Basilicata è il pomodoro utilizzato nella passata, però valgono gli stessi meccanismi nella piana del Sele con le serre, nell’agro laziale con i migrani indiani, nella piana di Sibari con le arance. Anche al nord c’è sfruttamento, magari non organizzato dai caporali ma dalle cooperative.
Innanzitutto è necessario risolvere la questione abitativa facendo sì che i lavoratori stagionali vivano dentro ai paesi, nelle case e non in baraccopoli nelle campagne, o in centri di accoglienza lontani dal paese. Infatti tutte le volte che il problema viene toccato dalle istituzioni locali si riproducono gli stessi meccanismi di marginalizzazione costruendo centri d’accoglienza lontani dai centri abitati.
La seconda questione è che si deve ragionare su sistemi di intermediazione diversi dal caporalato e su un sistema di trasporto al lavoro, perchè il caporale in queste zone trae la sua influenza soprattutto dal fatto che è lui a gestire il trasporto. I caporali sono gli unici capaci di portare la manodopera dove serve, quando serve, con efficienza, quindi garantendo un servizio che in questo tipo di agricoltura è indispensabile. Allora se vogliamo togliere potere ai caporali dobbiamo trovare qualcun altro che faccia questo lavoro.
Il terzo nodo è la legge sull’immigrazione. Finchè ci saranno immigrati con un permesso di soggiorno in scadenza, o perchè sono richiedenti asilo e sono quindi legati a un certo tipo di permesso di soggiorno, o addirittura non hanno permesso di soggiorno ci saranno sempre persone altamente ricattabili e vulnerabili disposti ad accettare di essere sfruttati pur di sopravvivere.
E. C. Quale agricoltura?
M. P. Poi è necessario ragionare su quale agricoltura vogliamo sostenere e sviluppare. E’ necessario chiedersi se quest’agricoltura inserita in queste filiere agro-industriali è un’agricoltura che può avere alla propria base lavoro non sfruttato.
Il nostro sistema agricolo è dominato da grandi attori come le catene di supermercati e le grandi multinazionali del cibo, in cui c’è una pressione al ribasso sui prezzi, una pressione sugli standard produttivi. In Italia e in tutta l’Europa mediterranea si sta verificando che le piccole aziende molto spesso chiudono e la dimensione media aziendale cresce perchè sorgono delle aziende più grandi che sono in grado di sostenere l’abbassamento dei costi di produzione per esempio meccanizzando. La domanda è: come possiamo fare a raccogliere i pomodori dando lavoro in regola ai braccianti con questi prezzi? All’interno di questo tipo di filiere non si può fare.
Quindi per il pomodoro ci sono due possibilità: o meccanizzare tutta la produzione come hanno fatto in Emilia-Romagna avendo così pochi braccianti pagati sulle macchine (così però oltre allo sfruttamento sul lavoro scompare anche il lavoro) oppure bisogna cambiare le filiere agricole.
Funky Tomato nel suo piccolo dimostra che si possono creare 4 posti di lavoro da 3000 metri quadri di terra e un laboratorio di trasformazione. Io non so se questo modello sia generalizzabile; sicuramente dovrebbero cambiare molte cose, ad esempio dovrebbero avere molta meno importanza le grandi catene di supermercati.
Intervista realizzata da Elena Cesari
Per maggiori informazioni, visitare il sito di Funky Tomato http://www.funkytomato.it
immagine in evidenza dal sito di Funky Tomato.