Intervista a Gëzim Hajdari di Matilde Sciarrino

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  1. Matilde Sciarrino. Nella raccolta ‘La Peligòrga’ (2007) Lei sottolinea di sentirsi segnato dal Suo destino del Sud. In che cosa consiste questo destino del Sud e in che rapporto sta con la Sua attività letteraria?

 

  1. Gëzim Hajdari. Mi sento un uomo del Sud e appartengo a tutti i Sud dei mondi. Porto con me le ferite, le gioie, i dolori, le grida, il sangue versato, le lotte, i miti, i racconti, le leggende, l’epica, i profumi campestri, i colori, l’ospitalità, la besa (‘parola data’ per gli albanesi), i sogni e le speranze del Sud. Io abito e soffro il Sud. Colui che è stato costretto ad abbandonare il paese d’origine e vive in esilio, si sente un uomo del Sud e la sua opera è un canto del Sud. Tutti i poeti che sono indesiderati dal potere politico e culturale sia nel paese d’origine che in quello ospitante, sono cantori del Sud. Il Sud non è solo una questione geografica, ma anche una grande metafora sociale, culturale e spirituale. Essere del Sud è un valore aggiunto per la mia opera letteraria. Essere poeta del Sud vuol dire essere un poeta d’avanguardia, un poeta del futuro…

 

  1. Sciarrino. Lei è approdato in Italia da esule nel 1992; cosa ha rappresentato per Lei l’arrivo in Italia: sconfitta o salvezza?

 

  1. H. Il mio arrivo in Italia è stato sia sconfitta che salvezza. Sconfitta, perché sono stato sconfitto politicamente dai postcomunisti di Enver Hoxha che usurparono di nuovo il potere e lo Stato in Albania nelle elezioni del 1992. Salvezza, perché non ho accettato compromessi politici, anzi ho denunciato i crimini del regime di Hoxha e gli abusi, la corruzione, i traffici di droga e gli intrecci loschi tra mafia e i politici dell’Albania postcomunista facendo nomi e cognomi.

Quando io denunciai tutto questo nel mio libro, ‘Poema dell’esilio/ Poeme e mergimit’ (Fara Editore, prima edizione del 2005, seconda edizione ampliata del 2007), i miei colleghi albanesi mi definirono nemico dell’Albania.

Quindi ho guadagnato la mia libertà e la mia onestà intellettuale. Posso dire che sono tra i pochi poeti e intellettuali albanesi che scelsero l’esilio, invece di servire il potere, invece di diventare complici del disastro politico, economico, culturale e spirituale del mio paese d’origine.

 

  1. Sciarrino. Lei compone sia in italiano che in albanese; qual è il Suo rapporto con le due lingue che usa? In quale lingua predilige comporre? Il passaggio da una lingua all’altra è auto-traduzione o riscrittura?

 

  1. H. Io scrivo contemporaneamente in tutte e due le lingue: scrivo in italiano e mi tormento in albanese, e viceversa. Ho iniziato a comporre parallelamente in tutte e due le lingue a partire dalla raccolta ‘Ombra di cane / Hije qeni’ (Dismisuratesti, 1993). Amo tutte e due le lingue della mia poesia con la stessa passione e lo stesso amore. Quando scrivo in albanese, la lingua italiana mi fa da ‘guardiana’ e viceversa.

Il passaggio da una lingua all’altra, più che una traduzione, è una ri-creazione.

 

  1. Sciarrino. Preferisce essere definito poeta italiano o albanese? Cosa pensa dell’opinione di Paul Celan secondo il quale solo nella madrelingua si può dire la verità e che nella lingua straniera si mente?

 

Sono un poeta albanese e italiano. Io non mi autraduco, scrivo parallelamente in tutte e due le lingue, quindi in albanese e in italiano e viceversa. Non si tratta di bilinguismo, ma di una “lingua doppia”. La mia scrittura è una migrazione linguistica: uscire ed entrare da una lingua all’altra.

Trovarsi fuori dalla lingua dell’amore, non sempre fa gioire. Numerosi sono stati gli scrittori e i poeti che nel nuovo contesto culturale e linguistico sono morti artisticamente per la tristezza. Altri, non riuscendo a costruire una nuova appartenenza e un proprio equilibrio, hanno trovato come via d’uscita il suicidio.

È il caso di ricordare i poeti dell’ex Germania dell’Est, che passando da un sistema totalitario all’Ovest del gran consumo, non sono riusciti a scrivere un gran che, rimanendo isolati e chiusi in se stessi. La stessa cosa si può dire anche per gli scrittori dell’ex Unione Sovietica in Francia. Però altri come Brodskij, Milosz e Xingjian ce l’hanno fatta, ottenendo il Nobel.

  1. Sciarrino. Che cosa rappresenta per Lei scrivere poesie? Quale linguaggio poetico di altri poeti predilige e sente vicino al Suo stile?

 

  1. H. Scrivere per me è un modo di essere nel mondo. Prediligo il linguaggio dei mistici arabi e persiani, dei simbolisti russi e dei poeti antichi greci, dei classici cinesi e latini, la grande poesia di Aimé Césaire e Leopold Sedar Senghor.

 

  1. Sciarrino. Qual è il suo rapporto con la letteratura italiana del passato e contemporanea?

 

  1. H. Per quanto riguarda la letteratura italiana del passato maggior interesse per me ha avuto la grande poesia classica latina oppure sarebbe più giusto chiamarla romana. Ovviamente cito Virgilio, l’epico, il maggiore fra i poeti, nonché fondatore della ‘romanità’. Orazio, Lucrezio, Catullo e Tito Livio. La storia di questi poeti è epica e commovente. Non solo erano epici, grandi viaggiatori, di scuola greca, ma anche filosofi. Ma ciò che caratterizza questi poeti è che cantano ed esaltano non tanto gli uomini quanto un popolo.

Per quanto riguarda la poesia italiana contemporanea vi sono due tipi: quella ufficiale e quella irregolare che viene scritta al di fuori delle gerarchie ufficiali. La prima, in generale, è una poesia minimalista, funerea, balbuziente, autoreferenziale, professorale, depressa direi. Gli autori di questa poesia sono uomini di potere, docenti universitari, editori, membri delle giurie dei premi letterari, giornalisti, critici, redattori di grandi case editrici, che condizionano i veri valori poetici scambiando tra di loro favori, premi in denaro e vana gloria. Dunque queste gerarchie si basano sulla corruzione e sulla disonestà intellettuale di fronte alla pagina bianca. Ogni opera letteraria, prima di tutto è un atto morale. Questi autori non sono poeti, ma scrittori di poesia.

La poesia contemporanea italiana si può salvare soltanto scoprendo e rivalutando la poesia “ribelle” al sistema – che in Italia non manca – ed aprendosi ai nuovi mondi, in nome della vera legalità e della vera trasparenza, ripristinando un nuovo legame fra testo e onestà intellettuale, fra parola e verità, fra Poesia e Vita. Ma per fare questo c’è bisogno di aprire dei dibattiti sulla poesia, sui premi letterari, sullo sperpero del denaro pubblico, sul ruolo della stampa e dei mezzi di comunicazione, sul ruolo della critica e dell’etica culturale.

 

  1. Sciarrino. Nel 1997 Lei è stato insignito del prestigioso premio Montale; qual è il Suo rapporto con la poesia di Montale?

 

  1. H. Montale è il poeta della “decenza quotidiana”. Stimo molto Montale come poeta, come apprezzo molto Palazzeschi, Govoni, Sbarbaro, Penna, Ungaretti, Caproni, ma soprattutto Dino Campana. Rileggo ogni tanto questi grandi poeti che hanno reso grande la poesia italiana ed europea. Montale deve essere letto e apprezzato in questo contesto letterario.

 

  1. Sciarrino. Quali poeti albanesi lo hanno influenzato? Quali poeti stranieri, oltre a quelli italiani, ama leggere?

 

  1. H. Devo tutto all’epica albanese. Sono cresciuto con i canti e i racconti epici delle Alpi del Nord d‘Albania da dove provenivano i miei avi. La persona che mi ha fatto innamorare della poesia è stato mio nonno paterno e poi mio padre, il quale recitava a noi bambini, prima di dormire, i canti epici dedicati ai guerrieri leggendari della mia stirpe. Ovviamente questa straordinaria tradizione epica e lirica albanese presente nella mia poesia si fonde poi con le grandi correnti letterarie del ‘900 europeo.

Oltre i poeti italiani amo leggere anche la poesia africana e sudamericana del ‘900.

 

  1. Sciarrino. A quali fonti storiche albanesi attinge? Fa riferimento a personaggi storici o solo a quelli presenti nelle leggende albanesi?

 

  1. F. Le fonti storiche a cui io attingo sono le Alpi del Nord d’Albania, luogo dove si trovano Bjeshkët e Nëmuna (Le Montagne Maledette). È proprio nelle Bjeshkët e Nëmuna che ha regnato il Kanun (il Codice Giuridico Orale Albanese), il Codice d’Onore Albanese, l’epica albanese letta nel contesto balcanico ed europeo; e poi i miti, le leggende, i riti, i racconti, la tradizione orale, i canti dei nizam, così venivano chiamati in turco i soldati albanesi che combattevano per conto della Sublime Porta di Istanbul, durante il dominio degli Ottomani nei Balcani; i canti del kurbet, i canti della migrazione albanese dell’Ottocento sotto l’occupazione Ottomana; la besa, la ‘parola data’ per gli albanesi, l’ospitalità, la tolleranza; la storia del mio popolo impregnata di drammi e tragedie durante i secoli; la tradizione mistica della mia stirpe bektashi, nonché la storia dell’Albania sotto la dittatura comunista di Enver Hoxha e, infine, la realtà dell’Albania postcomunista di oggi.

 

  1. Sciarrino. In ‘Epicedio albanese’ (2016) Lei fa un ampio e dettagliato resoconto delle atroci persecuzioni di cui sono stati vittima poeti e scrittori albanesi dissidenti durante il regime di Hoxa. Dopo aver scritto questo accorato e al contempo razionale ‘canto funebre’ quali sentimenti nutre verso il Suo paese natio?

 

  1. H. Nutro un sentimento di amore e odio. Infatti, negli ultimi anni la stampa italiana e quella mondiale ha più volte chiamato l’Albania postcomunista la nuova Colombia d’Europa per quanto riguarda il suo ruolo cruciale per la produzione e il commercio della droga. Inoltre il paese, ogni giorno, è all’epicentro di scandali politici, corruzione e traffici illegali. La corruzione, gli omicidi, i traffici illegali, gli intrecci tra mafia e governanti sono stati e continuano ad essere all’ordine del giorno sin dal 1992. Per non parlare dei crimini commessi durante il regime comunista di Enver Hoxha che, dopo ventisette anni, ancora non hanno un responsabile morale e una condanna ufficiale da parte del parlamento albanese. Comunque, l’Albania continua a rimanere il più grande mistero nei Balcani e in Europa.
  2. Sciarrino. In Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista. Slogan dell’Albania di Enver Hoxha (2013) Lei fa conoscere ai lettori italiani migliaia di slogan che il regime enverista utilizzava per esercitare il suo potere ed imporre un clima di terrore. Molti slogan riguardano la sfera privata e sono così surreali da apparire ridicoli, come, fra l’altro, quello che dà il titolo alla raccolta. Ci si chiede come il popolo li accogliesse; c’era convinzione e approvazione o soffocata disapprovazione e tacito rifiuto?

 

  1. H. Gli slogan appartenevano al regime stalinista di Enver Hoxha, una delle dittature comuniste più spietate del XX secolo. Hanno esercitato, per mezzo secolo, un terrore psicologico impressionante sulla mente dei cittadini albanesi, un vero e proprio lavaggio del cervello. Negli slogan è racchiuso mezzo secolo della lotta di classe condotta da Enver Hoxha, uno dei principi su cui basava la sua feroce tirannia. Tutto questo faceva parte del Terrore di Stato, dell’assurdità, della patologia criminale perpetrata contro l’umanità dal regime totalitario di Tirana durante gli anni 1941-1990. Gli slogan inneggiavano alle masse, al Partito e al dittatore Hoxha, al rimanere uniti per costruire e rafforzare il comunismo e per sconfiggere i nemici interni e quelli stranieri. Molti furono coloro che finirono dietro le sbarre per non aver accettato di declamare slogan pro regime durante le manifestazioni organizzate dal Partito comunista “fondato su ossa e sangue”. Quindi non era una questione di convinzione o approvazione. Ho raccolto questi slogan nell’arco di molti anni tramite un lavoro munuzioso.
  2. Sciarrino. La poesia, secondo Lei, ha o deve porsi dei fini pragmatici? Si può fare politica scrivendo versi? In che modo?

 

  1. H. Ogni poeta, in quanto individuo, fa parte della società e come tale non può essere indifferente ai problemi, alle sofferenze e alle speranze dell’uomo della sua epoca, anzi, una vera opera letteraria deve essere uno specchio dell’epoca in cui si vive, come parte integrante di essa stessa. Questa è una grande tradizione che attraversa tutta la storia della letteratura europea. Tanti sono stati i poeti e gli scrittori che hanno messo a disposizione dell’uomo la propria vita e la propria opera. Numerosi sono stati coloro che sono stati condannati insieme alle loro opere, torturati, internati nei lager, morti in esilio, oppure fucilati, perché impegnati nella lotta per la libertà, contro le ingiustizie, l’integralismo e i crimini contro l’umanità. Innanzitutto, ogni opera letteraria è un atto morale.

 

  1. Sciarrino. Lei è curatore della collana Erranze della casa editrice Ensemble, quali sono le linee guida che segue nella selezione dei testi da pubblicare? Cosa hanno in comune le opere finora pubblicate?

 

  1. H. La Collana Erranze (Edizioni Ensemble), nome scelto da me, è nata con lo scopo di scoprire, tradurre, pubblicare e promuovere in Italia i poeti e le poete dei mondi vicini e lontani, in quanto portatori di grandi valori umani e letterari. Di quei mondi dimenticati e mai tradotti in italiano. Infatti, i poeti che abbiamo pubblicato finora, quali Besnik Mustafaj («Leggenda della mia nascita»), Gémino Abad («Dove le parole non si spezzano»), Kamau BrathwaiteDiritti di passaggio»), Wilson Harris («Da eternità a stagione”), Gerda Stevenson («Se questo è vero») e Jean Claude Izzo («Lontano da ogni cosa») erano sconosciuti alla lingua di Dante.

 

  1. Sciarrino. Oltre ad aver dato il titolo alla Sua silloge del 2002 le ‘stigmate’ costituiscono anche un leit-motiv di tutta la Sua produzione poetica; cosa sono per Lei le ‘stigmate’ e che valore hanno dal punto di vista religioso e laico?

 

  1. H. Le ‘stigmate’ per me simbolizzano le ferite della vita, i segni del percorso umano e di una profonda esperienza interiore. Sono segni di fatica e di tanta sofferenza esistenziale, da cui ha avuto l’iniziazione il mio Verbo poetico. Quindi più che un valore religioso, hanno direi un valore di religiosità.

 

  1. Sciarrino. In ‘Spine nere’(2004) il tema della sepoltura viene trattato in modo ambivalente. Lei chiede che il Suo corpo venga seppellito sulla collina della Darsìa, sulla terra fresca, e, in altri versi, che le Sue ceneri vengano disperse lontano dalla patria; come si conciliano questi due desideri? Cosa rappresenta il sepolcro per Hajdari?

 

  1. H. I veri poeti dissidenti e esuli della mia Terra, costretti a fuggire durante il regime comunista di Enver Hoxha, hanno due morti: quella immaginaria e quella vera. La morte immaginaria per loro significava il ritorno molto atteso nella loro patria, e l’altra è quella della vera sepoltura, fuori dall’Albania, nei paesi dove sono stati costretti a trascorrere il resto della loro vita.

Il sepolcro per me vuol dire vivere diversamente.

 

 

FOTO HAJDARI CON COMPAGNA IRIS

 

 

 

Gëzim Hajdari, uno dei più importanti poeti italiani dei nostri tempi, canta l’esilio come condizione politica ed esistenziale dell’uomo moderno. Nato a Lushnje, in Albania, nel 1957, dopo aver conseguito la laurea in Lettere presso l’Università di Elbasan, si dedica a diversi lavori prima di approdare all’insegnamento. Fin da giovane compone poesie che, però, non vengono pubblicate perché considerate non in linea con i dettami del potere politico. Dopo la fine della dittatura di Enver Hoxa il suo impegno si fa più attivo tanto in politica quanto nel giornalismo. In entrambi gli ambiti non si esime dal denunciare i crimini del passato regime e la corruzione della nuova nomenklatura politica e per questo viene minacciato di morte. Nel 1992 fugge in esilio in Italia dove intensifica la sua attività poetica; pubblica numerose raccolte e riceve diversi primi letterari fra cui il prestigioso premio Montale nel 1997. Al suo attivo ci sono anche libri di viaggio, traduzioni di canti popolari albanesi che vengono trascritti per la prima volta e diverse curatele. Dirige la collana Erranze della casa editrice Ensemble. Le sue opere sono state tradotte in spagnolo, inglese, tedesco, e francese.

 

Foto del poeta a cura di Matilde Sciarrino: Gezim Hajdari e la sua compagna Iris.

 

 

 

 

 

 

FOTO SCIARRINO1

 

 

 

 

Matilde Sciarrino: Nata nel 1961 a Marsala, consegue la laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’università degli Studi di Palermo nel 1984. Da allora e fino al 2004 insegna ininterrottamente inglese presso diversi licei, prima in Lombardia e poi nella sua città natale. Nel 2004 inizia a lavorare come lettrice di lingua italiana presso istituzioni accademiche straniere su nomina del Ministero degli Affari Esteri italiano: dal 2004 al 2007 presso l’Accademia degli Studi Superiori di Tripoli (Libia), dal 2007 al 2009 presso l’Università di Amman (Giordania) dove ha anche diretto l’Ufficio Culturale della locale Ambasciata d’Italia. Nel 2009 consegue il Master di II livello per l’insegnamento della lingua italiana agli stranieri presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 2011 al 2015 ha ricoperto l’incarico di lettore presso l’Università del Saarland (Germania) dove attualmente svolge un dottorato di ricerca sull’opera di Gëzim Hajdari.

Foto  dell’intervistatrice a cura di Matilde Sciarrino

 

 

 

 

 

 

 

Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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