Interventi dall’incontro “Il Bianco e il Nero- Le parole per dirlo”, Milano 7 settembre 2019 (Parte I – Hawthorne, Mputu, Menozzi, Cerolini, Piccolo)

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In questa prima parte dedicata agli interventi di 5 fra i relatori che si sono susseguiti nei laboratori dell’incontro “Il Bianco e il Nero – le parole per dirlo”, raccogliamo le riflessioni proposte dalle relatrici e dai relatori per un nuovo lessico, sulle parole ‘razza, razzismo,  afrofobia, xenofobia, intersezionalità, decolonizzare, memoria, futuro.

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INTERVENTO DI CAMILLA HAWTHORNE

RAZZA e RAZZISMO

Buongiorno e benvenuti a “Il bianco e il nero: Le parole per dirlo”. Grazie alle associazioni che hanno organizzato questo evento e a tutti i fantastici partecipanti che si sono riuniti oggi da tutta l’Italia per questa importante discussione. Vorrei essere lì con voi tutti oggi, ma devo rimanere in California a prepararmi per l’inizio dell’anno scolastico.

L’obiettivo dell’evento è quello di impegnarsi nel processo collettivo di costruzione di un lessico – un insieme di termini e concetti chiave che possono aiutarci ad analizzare, decostruire e contestare il razzismo e la xenofobia virulenti che turbinano attorno a noi oggi in Italia. Quali parole dobbiamo incorporare nelle nostre analisi? Quali parole possiamo adottare da altri contesti, tradotte per la situazione italiana? E quali parole dobbiamo lasciare alle spalle? Alla base di questo evento c’è la comprensione che il discorso, che la produzione di conoscenza, è potere. Le parole che usiamo non sono neutre, non sono passive, non sono innocenti. Le nostre parole sono legate alla pratica; le nostre parole creano il mondo intorno a noi. Quindi, dovremmo iniziare chiedendoci: che tipo di mondo vogliamo costruire insieme?

Ho una storia che, secondo me, illustra in modo drammatico ciò che è in gioco. Nel 2016, un richiedente asilo nigeriano di nome Emmanuel Chidi Nnamdi è stato assassinato da un fascista a Fermo, dopo aver tentato di difendere la moglie da un attacco razzista. Fu un orribile atto di violenza anti-nero contro una famiglia che aveva già sopportato inimmaginabili tragedie e difficoltà nel corso del loro viaggio dalla Nigeria all’Italia. Tuttavia, dopo che Emmanuel fu assassinato, i giornalisti furono riluttanti a chiamare ciò che era accaduto “razzismo”. Forse lo chiamarono “xenofobia”, ma questo non spiegava il fatto che Emmanuel e sua moglie Chiniery fossero stati scelti a causa della loro nerezza. Alcuni commentatori hanno anche ipotizzato che l’omicidio indicasse i pericoli della migrazione africana in Italia: che la semplice presenza dei corpi neri nel territorio italiano avrebbe “incitato” gli italiani alla violenza razziale.

Ma una delle analisi più sconvolgenti della situazione è stata quella che ha rifiutato di chiamare l’uccisione di Emmanuel razzismo di perché, come ha spiegato l’autore, il razzismo non esiste come categoria scientifica / biologica. Definire ciò che è accaduto al razzismo sarebbe semplicemente “pigrizia mentale,” a suo parere. Invece, l’autore non ha lamentato la morte di un uomo, ma il modo in cui l’omicidio di Emmanuel simboleggiava la morte dell’essere umano in tutti noi. Era un simbolo di “diversofobia”.

In risposta, PinaPiccolo  e io abbiamo scritto un editoriale discutendo l’importanza della parola “razza” come  categoria analitica. Riconoscere l’esistenza del razzismo non vuol dire sostenere l’idea che esistono le razze biologicamente distinte. Piuttosto, come abbiamo scritto nel nostro articolo “Antirazzismo senza razza”:

“questo antirazzismo liberale presenta dei grossi limiti perché trascura il fatto cruciale che sia il razzismo produrre la realtà sociale della razza.  “Razza” non esiste senza “razzismo”; il nostro obiettivo in quanto antirazzisti deve essere quello  di opporre le strutture che tengono in piedi il razzismo e a loro volta legittimano la “razza”  come misura di sacrificabilità.  Emmanuel Chidi Nnamdi è stato ucciso  da un sistema razzista che a sua volta legittima le vili azioni di  individui fascisti. E’ stato vittima non di una patologia individuale, o di una aberrante “diversofobia”, o della parola “razza”, ma piuttosto di un sistema globale razzista che si affida a una costruzione sociale di razza  per rendere vite nere uccidibili.

 

Questo è il problema con la colorblindness o “post-racialism.” Questo è il problema nel dire che la “razza” è solo una fissazione americana, che non ha nessuna rilevanza per l’Italia. Per citare Robin Di Angelo, autore del libro White Fragility, “Se non riesci a vedere la razza, non puoi vedere il razzismo.”

Tuttavia, nel 2017 quando uscì l’articolo, io e Pina fummo fortemente criticate. Avevamo discusso l’utilità politica del concetto di “razza” ed eravamo essenzialmente accusate di essere fasciste. E questa non era la prima volta in cui sono stata criticata perché ho usato questa parola “proibita”. Quando ho iniziato la mia ricerca in Italia, sono stato rimproverata da uno studioso che mi ha detto che non avrei dovuto usare la parola italiana “razza” perché suonava fascista – invece, dovrei usare “etnia” come un modo più accurato e neutro per descrivere le differenze umane.

Nel corso della mia ricerca, attraverso innumerevoli interviste con attivisti afroitaliani in tutta l’Italia, ho compreso l’urgenza e l’importanza di sviluppare un linguaggio critico in italiano in grado di rispondere alle realtà del razzismo anti-nero, dell’amnesia coloniale e della xenofobia. Quasi tutti quelli con cui ho parlato hanno sottolineato l’importanza di costruire questo linguaggio. Un linguaggio che potrebbe occuparsi delle specificità della storia italiana, della formazione razziale e del colonialismo senza cadere nella trappola dell’eccezionalismo italiano: cioè la nozione di ‘italiani brava gente’ , un innocente popolo mediterraneo incapace di razzismo.

Questo linguaggio dovrebbe basarsi sulle lezioni delle lotte politiche in altri contesti come gli Stati Uniti e il Regno Unito, senza importare acriticamente i loro concetti all’ingrosso (uno esempio ovvio è il modo in cui “person of color” e “persona di colore” hanno due connotazioni politiche molto diverse negli Stati Uniti e in Italia). Il nostro nuovo lessico deve essere radicato nelle specificità storiche e geografiche del contesto italiano, riconoscendo anche che l’Italia, dal Risorgimento ad oggi, fa parte di una vasta rete globale della circolazione di pratiche e forme di produzione di conoscenza razziste, anti-nere, coloniali, capitalistiche.

È giusto che questo evento si stia svolgendo nella Casa della Memoria di Milano. Ci costringe a chiedere: quali storie ricordiamo e commemoriamo? E quali storie ci lasciamo dimenticare? Come ha detto l’antropologo haitiano Michel Rolph Trouillot (sulla Rivoluzione haitiana), l’atto di “silenziare” il passato è anche politico; per dire: dimenticare non è un atto passivo. Cosa succederà al modo in cui comprendiamo la storia italiana – e il razzismo italiano oggi – quando riconosciamo (come scrive Angelica Pesarini) che l’Italia ha applicato le leggi razziste nelle sue colonie africane prima dell’emanazione delle leggi razziali del 1938 in Italia? Che la schiavitù (compresa la schiavitù mediterranea) e il colonialismo sono serviti come modelli per il genocidio fascista? Che l’Italia come nazione si stesse già posizionando come colonizzatrice violenta e sfruttatrice prima dell’ascesa del fascismo? Che gli scienziati italiani stessero sviluppando teorie razziali sull’Italia e l’italianità molto prima che Mussolini unisse le forze con Hitler?

Dobbiamo chiederci perché la maggior parte degli italiani possa raccontare storie romantiche sulla resistenza antifascista italiana, ma non riesca a indicare l’Eritrea su una mappa (per non parlare del suo significato per la storia e la politica italiana). Sebbene queste continuità storiche siano state recise nella coscienza italiana, oggi continuano a plasmare la vita e la politica italiane – dalla fortificazione dei confini contro gli “invasori” africani, alla legge escludente sulla cittadinanza italiana. Come sostiene Caterina Romeo, “La razza – un elemento storicamente costitutivo del processo di identità nazionale italiana – è evaporata dal dibattito culturale a causa della necessità di cancellare gli imbarazzanti eventi storici.” Ma Romeo continua a dire che, “La razza, come il vapore, satura l’aria, rendendola pesante, irrespirabile.”

Nelle parole di Eric Garner, un afroamericano ucciso nel 2014  a New York dalla polizia con una stretta alla gola “I can’t breathe”(non riesco a respirare). Gli afroitaliani non possono respirare.

Quando allarghiamo la nostra lente storica, possiamo iniziare a vedere che il razzismo faceva parte della creazione di questo paese. Non è un’aberrazione. Non possiamo dare la colpa ai nazisti. Inoltre non possiamo dare la colpa a Salvini. Mentre l’attuale governo potrebbe aver legittimato il razzismo quotidiano dell’italiano medio, ed esposto i ‘buonisti’ bianchi “ben intenzionati” al fatto che il razzismo esiste ancora in Italia, la retorica razzista e la violenza che stiamo vedendo non sono cose nuove.

Per sfidare questo razzismo, dobbiamo essere abbastanza coraggiosi da affrontarlo frontalmente. Non possiamo parlarci con parole “carine.” Dobbiamo essere abbastanza coraggiosi da sfidare il mito di Italiani, brava gente. E abbiamo bisogno di ascoltare le parole, le testimonianze e le esperienze di coloro che vivono il razzismo italiano ogni giorno e che lavorano instancabilmente per smantellarlo e costruire un nuovo futuro.

 

Camilla Hawthorne è docente presso il dipartimento di sociologia e il programma di Critical Race & Ethnic Studies all’Università della California, Santa Cruz, dove insegna corsi sul razzismo, immigrazione e le geografie della disuguaglianza. È anche coordinatrice della Black Europe Summer School ad Amsterdam. Camilla Hawthorne ha conseguito il dottorato di ricerca in geografia dall’Università della California, Berkeley, nel 2018. Un’afroitaliana con mamma bergamasca e papà afroamericano, Camilla studia i movimenti sociali di giovani afrodiscendenti nel “mediterraneo nero”.


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INTERVENTO DI KIASI SANDRINE MPUTU

AFROFOBIA E RAPPRESENTAZIONE

Siamo riuniti perché abbiamo constatato che in Italia  c’è una lacuna e talvolta confusione in quelle che sono determinate terminologie. Senza l’utilizzo corretto di terminologie diventa poi difficile la comprensione di queste tematiche e fenomeni e ciò rende quindi impossibile  smantellarli.

L’obiettivo finale  è quindi creare una maggiore consapevolezza riguardo a queste tematiche in modo tale da trovarne quindi anche le soluzioni. Nello specifico l’ argomento di discussione che andremo ad affrontare è: “  Razzismi nuovi e vecchi, Afrofobia (nello specifico), discriminazione e xenofobia”.

L’ Afrofobia é  quella  specifica forma di razzismo nei confronti delle persone nere,  in particolare proveniente dai paesi dell’ Africa sub-sahariana. Si è constatata l’incapacità di riconoscere  in Italia questo tipo di discriminazione e  di conseguenza smantellarla, per diverse ragioni. Una tra le principali cause è la  mancanza di tutela  legale:  essa non viene riconosciuta come reato, ma viene invece presa  molto alla leggera.

Nonostante sia tutto intorno a noi in modo lampante: assistiamo alle sue pratiche nei media, lo leggiamo nei giornali, lo vediamo negli stadi;  non solo non ci sono azioni politiche o legali concrete volte a risolvere e prevenire concretamente questi tipi di reati ma il tutto resta sempre  molto spesso opinabile in quello che secondo alcuni sia o non sia razzismo.

Molto spesso c’è  la vera e propria tendenza nel sindacare  ciò che si considera essere  giusto o sbagliato, appropriato o meno, anche in  circostanze che non ci riguardano  in prima persona.

A cominciare dalle terminologie  (ner*, negr* , mulatt*, meticci*, mist*, di colore, ??) che al di lá di quello che abbiamo concordato essere le più corrette  forme da utilizzare,  il modo ancora migliore di chiamare qualcuno senza rischiare di offenderlo è semplicemente chiedendogli  come preferisca essere chiamato. Fine.

Ma così come nelle terminologie, anche nei movimenti che si definiscono anti razzisti, esiste una vera e propria tendenza da parte di coloro che non lo vivono in prima persona,  di cercare di  insegnare agli altri cosa esso sia o non sia e come  questo debba essere combattuto .

Molto spesso impongono il loro pensiero  basandosi su conoscenze prettamente teoriche o sui  rapporti personali  che hanno ( in qualità di amici, genitori adottivi o di figli nati in coppie miste )  che sono in ogni caso indirette.

E succede quindi che chi di fatti dovrebbe avere voce in capitolo, si trova silenziato,  zittito o a sua volta attaccato. Se vogliamo un vero e proprio cambiamento, è fondamentale che tutti capiscano che è impossibile portare avanti la lotta senza il punto di vista dei diretti interessati e senza aver prima ascoltato le voci di coloro che le vivono sulla propria pelle .

Ma questo accade di continuo proprio perché purtroppo, il corpo del nero molto spesso viene  considerato inferiore agli altri: viene visto come un semplice corpo passivo,  senza una capacità attiva e propria di pensiero e di parola.

Veniamo silenziati, zittiti, perché appunto non considerati alla pari degli altri; un corpo  che non solo viene discriminato, ma  strumentalizzato,  feticizzato, sessualizzato ed estremizzato in quelle che sono le sue peculiarità fisiche, caratteriali, psicologiche (tanto nella donna, così come nell’ uomo , e talvolta anche nei ragazzi) diventando veri e propri fenomeni da baraccone .

E questo è dovuto in gran parte agli stereotipi che ci riguardano (positivi e negativi ) e soprattuto all’ immaginario collettivo sull’Africa e sugli africani  quali persone incivili, ignoranti, superdotate, parassite, bisognose , povere o “ meno fortunati” .

Per questo motivo é di fondamentale importanza normalizzare l’ Africa e coloro che provengono dal continente,  in modo tale che si riesca a vederli come individui nella loro singolarità  e specificità anziché rappresentanti di un unico gruppo stereotipato e di conseguenza discriminato.

Un’altra ragione per cui vi è una scarsa consapevolezza al riguardo, sono le lacune storiche, in particolare della storia italiana (ma nn solo ) e la superficialità con la quale viene affrontato lo studio del colonialismo Italiano e gli effetti che ha avuto e che tutt’ora ha.

I programmi scolastici andrebbero rivisti, aggiornati e amplificati in modo tale da permettere ai ragazzi e non solo, di avere una conoscenza  globale e meno eurocentrica di quella che è la storia e la geografia del mondo,  riconoscendo  quindi in primis  gli effetti del colonialismo e le conseguenze tuttora presenti nei confronti dell’Africa,  ma anche la struttura reale sociale  ed economica del mondo.

Purtroppo quando si parla di colonialismo si pensa sempre alle grandi nazioni come l’Inghilterra, la Francia, la Spagna o  il Portogallo sorpassando le barbarie e le atrocità commesse anche dagli italiani.

Inoltre sarebbe di grande necessità incrementare la  traduzione di testi che già affrontano temi  a sfondo sociale,  di discriminazioni di genere e così via, conferendo una maggiore apertura  nella pubblicazione di testi  e  traduzioni di  autori provenienti dalle cosiddette “minoranze “  in modo tale da non lasciare che alcuni voci siano le uniche voci.

Questo farebbe sì che determinati argomenti possano essere di facile accesso ed intendimento a tutti e che vi sia maggiore inclusione e diversità  anche nella letteratura: dagli autori ai destinatari di questi testi.

In tal proposito, un altro punto fondamentale riguardo al motivo per cui non si riesce a smantellare le discriminazioni di genere, razzismo e in particolare l’ afrofobia , é la mancanza di rappresentazione.

E’ importante  infatti  non sottovalutare gli effetti  e l’impatto che  una scarsa e/o mancata rappresentazione da parte dei media per esempio così come degli  gli altri settori ha sugli individui e sulla società. Purtroppo ancora oggi vediamo ancora troppo poco persone nere  ( e non solo ) essere parte attiva ed integrante della società  e svolgere attività lavorative in posizioni più elevate.

A meno che non sia come per esempio nello sport  o nella musica o nella moda (in cui le società sportive, agenzie etc  beneficiano ancora una volta della fisicità e del talento del corpo nero) ancora oggi scarseggia la presenza di neri  ( e non solo) in posizioni  di rilievo.

E questo ha un effetto non solo sulla psiche delle future generazioni che di conseguenza sarebbero più  ispirate per emulazione a puntare più in alto, ma anche nella loro autostima e soprattutto  in quello che è l’immaginario collettivo e di come determinati stereotipi vengono creati, alimentati o distrutti.

Ancora oggi quando si riesce a ricavarsi uno spazio nei media è soltanto  per figure minori, molto spesso negative e degradanti e /o stereotipate .

Purtroppo anche nel mondo del lavoro la situazione non è di gran lunga migliore, infatti  molto spesso giovani e non, svolgono le mansioni più umili, che gli italiani caucasici non vogliono fare,  nonostante abbiano tutte le competenze necessarie che possa permettere loro di ambire a occupazione migliori, che molto spesso trovano poi all’ estero.

Tutto ciò è molto grave ed ha un grande impatto sull’evoluzione della società che in Italia sembra andare a rilento: infatti non solo questo rallenta il processo di inclusione sociale ma impedisce la creazione di una società veramente equa, meritocratica e multiculturalità a tutti gli effetti.

Nell’ ultimo periodo ci sono stati piccoli cambiamenti, abbiamo assistito a vere e proprie novità e rivoluzioni ma la strada è ancora lunga e per questa ragione è importante continuare a parlarne mantenendo accesa  e viva la conversazione, equipaggiandosi con  tutti gli strumenti adatti e le competenze necessarie per quelle che sono le fasi di questo processo.

 

Kiasi Sandrine Mputu è una giovane donna italiana originaria della Repubblica Democratica del Congo, residente a Londra da 4 anni. Attivista nel campo dei Diritti Umani e membro di HH foundation (organizzazione italiana di attivisti finalizzata alla promozione sociale e attività di arte e cultura). Si divide tra lavoro e studio, rispettivamente: traduttrice freelance e assistente di vendite durante il weekend e studentessa di International Business Management. L’abbattimento delle barriere comunicative e psicologiche, sono per Sandrine, argomenti non solo semplice frutto di studi e formazione accademici ma di ricerca e di retaggi di vita vissuta in qualità di essere umano, donna nera e italiana e lavoratrice nella società pluralista ed interculturale.


 

 

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INTERVENTO DI FILIPPO MENOZZI

DECOLONIZZARE

Innanzitutto vorrei ringraziare tutti voi, io sono Filippo Menozzi e insegno all’università di Liverpool in Gran Bretagna e lavoro negli studi postcoloniali, in particolare insegno letterature post coloniali. Oggi vi parlerò focalizzandomi sul concetto e la storia della decolonizzazione.

Prima di parlare però di questa parola chiave, volevo anche rispondere alla questione che è stata posta prima di chi sono io, perché sono qua e come mi posiziono. Mi sento molto privilegiato a essere qui e ad aver imparato così tante cose oggi, io mi sento più nel ruolo dell’ascoltatore e volevo dire che nel tentativo di dire qualcosa a questo punto in questo convegno, c’è un problema che è sempre con me anche quando insegno, proprio a livello universitario: questioni legate al razzismo. Io sono parte anche di un movimento che si chiama Stand Up to Racism, nel Regno Unito, quando mi dedico a queste questioni, personalmente parlo di queste cose c’è una tendenza a oscillare tra due estremi che sono entrambi sbagliati: da un lato c’è l’estremo dell’identificazione e della solidarietà di dire credo di capire, posso identificarmi in quest’esperienza di cui sento appunto le storie di cui leggo anche nella letteratura e dall’altro estremo invece c’è la dis-identificazione in cui invece una parte di me dice “io non potrò mai capire o identificarmi con chi è vittima di razzismo” e non ho una risposta, però mi interessa capire come si possa sviluppare un concetto di solidarietà che non ricade in nessuno di questi due estremi – quindi che eviti da un lato la totale identificazione quando quest’identificazione è impossibile, ma dall’altro non risulti neanche in una totale dis-identificazione, quindi nella totale mancanza di empatia.

Per appunto posizionarmi oggi, senza ricadere in nessuno di questi due estremi, volevo citare due massime, due frasi, di due intellettuali che spesso insegno nei miei corsi. Una è di una critica indiana che si chiama Gayatri Chakravorty Spivak che è una importantissima critica nel movimento femminista, originariamente dell’India ma basata negli Stati Uniti; e in un’intervista degli anni 90, Gayatri Spivak usò quest’espressione – lei disse, parlando di sé stessa quel contesto, che bisogna dis-imparare il proprio privilegio. Disimparare il proprio privilegio è quello che è stato riferito prima come fare un passo indietro, per lasciare che chi questo privilegio non ce l’ha possa parlare ed essere ascoltato. Sicuramente io potrei esprimere il mio essere qui oggi come un tentativo di disimparare il mio privilegio e oggi ho disimparato molto.

La seconda massima che volevo usare per collocarmi oggi, è invece presa da un altro critico, che si chiama Edward Said, un critico palestinese. Anche lui ha fatto la sua carriera accademica in America. Said usò quest’espressione in un libro molto controverso sugli intellettuali in cui lui dice che non bisogna mai esprimere la solidarietà prima della critica, o dell’autocritica. Quindi questa massima per me è sempre un ‘reminder’, una cosa che mi tiene viva la mente sul fatto che ogni espressione di solidarietà deve essere sempre animata da un pensiero critico, critico anche su come ci posizioniamo.

Tenendo in mente queste considerazioni, perché sono qui e cosa sto cercando di dis-imparare grazie a questo convegno, vorrei oggi parlare brevemente del concetto di decolonizzazione.

Il concetto di decolonizzazione secondo me può essere importante all’interno degli obiettivi di questo evento oggi, innanzitutto perché ci ricorda che quando parliamo di razzismo e anti-razzismo, bisogna sempre storicizzare. Non bisogna dimenticarsi che se noi oggi siamo qui a parlare di queste questioni, è anche grazie a una importantissima parte della storia del novecento, che è la storia in cui le popolazioni di molti paesi di quello che oggi si chiama “sud globale” hanno ottenuto l’indipendenza da quelli che erano gli imperi coloniali. In particolare francesi, inglesi, ma non solo. Grazie a questo processo di indipendenza, lotta per questa, sono diventati cittadini. La questione della cittadinanza qui secondo me è chiave, un elemento importantissimo perché noi quando parliamo di persone, stiamo parlando di cittadini, quindi con dei diritti. E non bisogna dimenticare che fino a poche decadi fa gran parte dell’umanità non erano cittadini di stati indipendenti, ma erano ancora parti di imperi coloniali in cui non erano riconosciuti con pari dignità o cittadini veri e propri della metropoli.

Il filosofo francese Sartre scriveva ancora nel 1961, che essere umani, cioè bianchi-europei, significa essere complici con il colonialismo, questo non era nel 1800, era negli anni sessanta. Quindi la questione secondo me è anche riconoscere come la storia della lotta contro il colonialismo e della formazione di stati indipendenti sia il presupposto storico che ci permette oggi anche di essere qui.

Giustamente si basti pensare, per esempio, al 1960 che viene ricordato come l’anno dell’Africa perché moltissimi Stati africani sono diventati tali proprio in quell’anno, quindi non così tanto tempo fa.

Il concetto di decolonizzazione però non è solo un concetto storico e politico, ma anche un concetto culturale. Oggi vorrei parlare e menzionarvi il fatto che in molte università del mondo, in particolare in Sud Africa, negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un movimento studentesco, iniziato proprio dagli studenti, che punta a decolonizzare l’università. Questo movimento è iniziato nel 2015 in Sud Africa con un gruppo di studenti che hanno fondato il così detto Rhodes Must Fall, che si può tradurre come “Rhodes Deve Cadere”, e si riferiva a una statua di Cecil Rhodes, che è uno degli architetti del colonialismo inglese in Africa, che ancora era celebrata e mantenuta nel campus dell’università di Cape Town in Sud Africa.

Nel 2015, alcuni studenti hanno iniziato delle proteste per rimuovere questa statua di Cecil Rhodes dal campus della loro università. Questo movimento studentesco si è poi diffuso globalmente e si è poi riarticolato negli Stati Uniti e in Inghilterra con il movimento di Decolonizing the Curriculum, cioè “Decolonizziamo i programmi universitari”. È molto interessante capire gli obiettivi e l’esperienza, io ho conosciuto anche dei leader di questo movimento in Inghilterra, come la lotta alle ingiustizie sociali – quindi per esempio alla mancanza di accesso a università prestigiose come Oxford e Cambridge da parte di studenti di minoranze  si sia collegata a una discussione su quello che insegniamo all’università e come lo insegniamo. Per ricollegarmi a quello che abbiamo detto prima, come si insegna la storia del colonialismo, da che parte lo vediamo il colonialismo, come lo riconosciamo. Ovviamente la cosa interessante di questo movimento è che ha saputo, secondo me, connettere questi due aspetti: da un lato la questione legale e istituzionale, come ci assicuriamo che ci sia un diritto di accesso all’istruzione per tutti e dall’altro che cos’è che insegniamo nelle scuole, quali valori siamo trasmettendo agli studenti? Quindi questo è un processo ancora in corso a cui io sono stato molto felice di rispondere, nei miei corsi. Io cerco di avere sempre un dialogo con tutti i miei studenti su che cosa stiamo insegnando, qual è la politica del sapere che stiamo costruendo insieme.

Ovviamente io insegno letteratura, sono in un dipartimento di anglistica e letteratura inglese e nel mio caso questo vuol dire ovviamente ‘decolonizzare’ il concetto di letteratura inglese andando oltre gli autori canonici come Shakespeare o Elliott e includere voci contemporanee molto interessanti, importanti come Jamaica Kincaid e Claudia Rankine e molti altri, quindi vuol dire ripensare, per esempio, il concetto di letteratura da un punto di vista completamente diverso.

Oggi per darvi un esempio di che tipo di materiali insegno e di quali problemi cerco di affrontare, vi racconterò una storia che magari molti di voi già sanno, però spero che dal come ve la racconto possa essere non noiosa. È la storia di uno degli intellettuali più importanti del 900, Frantz Fanon, che è stato una delle più grandi e importanti voci della lotta anti coloniale nel 900.

I testi di Fanon sono ‘student required reading’, in tutti i miei corsi sono testi obbligatori. È un autore che considero molto importante e oggi Fanon è ricordato come una sorta di padre fondatore di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali.

Lui ha scritto due libri, più moltissimi altri articoli – il suo primo libro di chiama Pelle Nera, Maschere Bianche, che era anche la sua tesi di dottorato, ed è un libro che è allo stesso tempo trattato accademico ma anche memoir, un libro in cui lui parla della sua esperienza e di alcuni episodi traumatici della sua vita.

Un altro libro che si chiama I Dannati della Terra, il titolo è tratto in realtà dall’Internazionale Comunista, quindi è un libro più maturo in cui Fanon si era avvicinato poi alla politica nella fase finale della sua vita prima di morire molto giovane di leucemia.

Ora volevo dire una cosa di Fanon che non tutti sanno, o che non è abbastanza discussa secondo me: quando si parla di Fanon, chi era Frantz Fanon, com’è che ha contribuito alla lotta contro il razzismo, alla lotta anticoloniale, alla decolonizzazione?

Ora, Frantz Fanon era nato nel 1925 in Martinica, che è un’isola dei Caraibi. Una cosa importante, quando parliamo di Fanon è che lui è diventato, dopo, una figura importante nella lotta anticoloniale, ma da giovane lui in realtà era parte di quella che all’epoca era una elité nativa sotto il governo coloniale. Quindi la Martinica all’epoca era parte dell’Impero francese. Suo padre era un funzionario pubblico inserito nel sistema coloniale di governo, di amministrazione e Fanon, da una classe media-borghese, era anche un giovane molto promettente, molto brillante che studiava e racconta nel suo primo libro Pelle Nera, Maschere Bianche di come quando, per i vari movimenti di operai, risorse che erano dell’Impero francese – operai senegalesi venivano mossi nei Caraibi per lavorare in settori come piantagioni e per fare lavori di base –  l’elité del luogo si volesse distanziare da questi operai anche per una questione di classe sociale e lui racconta in delle pagine molto importanti, che invito tutti a leggere se già non conoscete, racconta come lui è in realtà anche in virtù dell’educazione coloniale che aveva assorbito si identificava più coi francesi. In quanto membro dell’elité coloniale lui si sentiva parte non tanto dei colonizzati ma dei colonizzatori che era una cosa molto complessa, se ci pensate.

È solo quando in una seconda fase della sua vita è andato poi in Francia a studiare: all’inizio a combattere durante la seconda guerra mondiale nell’esercito francese, poi è rimasto in Francia per completare gli studi; che Fanon per la prima volta ha vissuto il razzismo permeante nella società francese dell’epoca sulla sua pelle, ed è per la prima volta in Francia, quindi già in età adulta, che Fanon si è reso conto che lui non era riconosciuto dalla parte dei colonizzatori ma che lui veniva visto come gli operai del Senegal, su cui lui aveva riflettuto negli anni prima.

In Francia quindi lui ha un primo trauma di identità, un trauma di riconoscimento perché Fanon non si rende conto, non riesce più a stabilire da che parte sta, a quale mondo appartiene.

Lui fa un dottorato e si specializza in campo medico; era un medico psichiatra, che ha fatto anche nella sua vita una grande carriera da medico psichiatra, e quindi lui viveva queste contraddizioni all’interno del suo aspetto esistenziale, la sua esperienza. Tra l’altro Fanon in quegli anni aveva incontrato la Negritudine, il movimento di intellettuali poeti che era molto attivo in Francia. Però lui per risolvere questi suoi dilemmi scelse poi di concludere la sua carriera o fare un passo nella sua carriera muovendosi dalla Francia all’Algeria, quindi lui è passato dai Caraibi alla Francia e poi all’Africa dove non era mai stato. Lui a un certo punto stanco del razzismo che aveva incontrato in Francia decide di assumere un ruolo di direttore di un ospedale psichiatrico a Bidajonville (sp?), quindi nell’allora Algeria, che era parte della Francia in realtà; quindi era parte del sistema coloniale.

Quando va in Algeria lui si rende conto di molte altre cose come i disturbi psichiatrici che lui doveva curare in quanto medico all’epoca, fossero in realtà prodotti dalle torture, dalla violenza che il colonialismo francese continuava a perpetrare all’epoca e per congiungere quello che dicevo sul fatto di come il nostro stile di vita qua dipenda da un’economia globale, bisogna anche ricordare che quest’economia è basata sulla violenza e sull’oppressione fisica dei lavoratori nel sud globale e Fanon nella sua vita aveva visto questa cosa per la prima volta in Algeria nella sua violenza più brutale.

A un certo punto nel 1956 Fanon si rende conto che non può più risolvere dentro di sé il problema di appartenere allo stesso tempo a un sistema medico che voleva curare questi pazienti che però era inserito in un sistema coloniale di violenza e repressione che produceva questi disturbi. Quindi lui in un saggio molto corto, che vi invito a leggere perché molto toccante, che è la sua lettera di dimissioni da ruolo di direttore di ospedale psichiatrico lui parla di come questa contraddizione che aveva dentro di sé non potesse più viverla, doveva in qualche modo risolverla qui decide di passare alla lotta armata, quindi poi Fanon diventerà parte del movimento di resistenza algerina nella guerra di indipendenza, verrà deportato e poi continuerà comunque a praticare la professione di medico ma nel governo anticoloniale, nel governo indipendente, quindi non più come parte del sistema coloniale.

 

 

Filippo Menozzi insegna letterature postcoloniali e teoria letteraria all’università di Liverpool, in Gran Bretagna. È autore di un libro sul concetto di postcolonialismo e di numerosi articoli su riviste internazionali. Inoltre, ha curato un volume su narrativa e migrazione e un numero della rivista New Formations sull’opera di Rosa Luxemburg. Filippo è anche nel comitato editoriale della rivista Postcolonial Text ed Exchange Associate alla Tate di Liverpool. Nel 2019, ha vinto un premio per l’eccellenza nell’insegnamento nella sua università.

 


 

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INTERVENTO DI REGINALDO CEROLINI

FUTURO[1]

Nel concludersi di questa intensa giornata rimane lo spazio per un’altra parola. Una parola di sei lettere e tre sillabe che si insinua, peregrina nelle pelli e nelle viscere, nelle ossa e nella mente di noi, rimasti qui a raccogliere l’eredità di questa giornata. Questa parola si chiama, placidamente, Futuro. Futuro, quello che mischiandosi al passato produce la sintesi di ciò che diventeremo o di ciò che potremmo diventare. Non è una parola mansueta, non è facile, e rischia con la leggerezza con cui viene pronunciata di distorcere la realtà, per qualcosa che comunque sarà- si suppone- diverso, magari migliore. Diviene così simile ad un’altra parola che amiamo dire e lanciare come un messaggio nella bottiglia sul mare dell’esistenza: speranza. Ma ci inganniamo.

Futuro.

Questa parola a ben guardare è terribile, perché pretende atti, non solo parole, richiede azioni e movimenti che portino in essere il suo devastante o rigenerante potenziale, al quale non si scampa.  Somiglia allora alla Storia, ovvero alla realtà di causa ed effetto, all’atrocità di scegliere chi salvare nei confini e nelle coste, di chi far vivere con dignità all’interno degli stati, somiglia alla brutale lucidità della devastazione in Amazzonia di terreni, foreste, all’uccisone dei nativi. Ha il tono perentorio delle destre estreme di tutto il mondo, di quella litania soffocante con cui si grida al privilegio (solitamente bianco) di selezionare e razionare gli animi, i corpi, gli intenti e le ideologie, perché siano le persone ad assomigliare ai partiti ed ai motti, piuttosto che le cosiddette nazioni invece, ad assomigliare al popolo costantemente in mutazione.

Il futuro, sotto quest’ottica così simile alla realtà che viviamo, sembra destinato ad implodere o ad esplodere con la devastazione di un’epoca di una varietà infinita di specie viventi e di esseri umani.

Fa paura, ma la paura non basta ad arginare un meccanismo di autodistruzione ed ottusa volontà di privilegio e di supremazia a sfavore di tutto ciò che si percepisce come contrario a se stessi.

Per fortuna il futuro ha anche altre risorse, delle risacche e dei moti che si oppongono ad una visione classista, razzista e suprematista della realtà e che non per spirito di bontà ma per coscienza e capacità di visione ha capito che il cambiamento radicale sia l’unica soluzione per non deflagrare. Queste forze, anche solo volendo guardare all’Italia, sono tante, sono varie e già testimoniano il futuro a cui ambiamo.

Scrivo per  La Macchina Sognante dal 2015, contenitore di culture dal mondo e da questo particolare prospettiva ho potuto vedere con ampiezza di sguardo le atrocità, politiche, razziali, geo-ambientali che si perpetrano con costanza, ma anche nomi e volti che ad esse si oppongono.

La mia domanda è che futuro vogliamo, e questo collettivo noi che vogliamo, chi siamo? A quali soggetti ed intime identità appartiene? Sappiamo dove siamo, questo è chiaro ma molto meno sappiamo dove andiamo.

Questo futuro è l’Italia multietnica, dove la diversità è intensa come un valore, dove il privilegio in qualsiasi forma è intenso come una mancanza di opportunità di uguaglianza e miglioramento, dove l’espressione artistica o individuale è  volontà di comunicazione, di denuncia, ed intento di mostrare realtà alternative. Si, perseguibili!

L’unica lotta possibile è una lotta di diffusione del sentimento di coscienza, del diritto alla vita, del diritto alla varietà ed alla molteplicità, della valorizzazione della complessità, e della libertà e diritto ad essere quanto più di potenziale c’è in noi, in un flusso collettivo che usi il contrasto come forma di affermazione – condivisione-  e non di prevaricazione.

 

So di sembrare utopico o sognatore quando dico questo, ma non potrei dire e sentire queste cose se non le vedessi ogni giorno nella stessa Italia di cui per tutto oggi abbiamo tracciato la prospettiva  politica, mediatica, ideologica, opportunistica e superficiale  nella sua più sterile  ottusità.

Ci sono alcune testate che si muovono ugualmente nello stesso senso di La Macchina Sognante quali Alfabeta, Nazione Indiana, Giap, Doppiozero, Carmillaonline, Effimera etc., ma insieme a La macchina sognante sono ancora poche per arginare la quantità impressionante di materiale che ogni settimana, e ogni mese, il panorama dimensionale[2] di internet offre come specchio e volontà del reale.

Per fortuna questa fase di transizione dove il potere del discorso si esprime in blog, video e siti ha ovviamente i suoi personaggi ed i protagonisti di questo mondo sommerso. Lo aveva già notato, in anni non sospetti, Aldo Grasso con La tv del sommerso e nel mondo della rappresentazione cinematografica De Franceschi con i suoi lavori pioneristici e recentemente La cittadinanza come luogo di lotta: le seconde generazioni in Italia fra cinema e serialità. Queste analisi mostrano la  perseguibile verità del proprio futuro attraverso la testimonianza, la lotta di conoscenza e la capacità analitica della realtà.

La lotta  per il diritto di testimonianza e denuncia si articola ad esempio nella dimensione internet tra pagine Facebook e i siti web come Griot di Johanna Affricot, #Afrofuturismo, #Afroitaliani, Meticciamente,  Afrital Girl, Italian essence, i blog Nappytalia  e meticciamente e con i numerosi personaggi emersi sul discorso di Ius Soli, migranti e  sul razzismo per cui raccogliere queste testimonianza e valutarle per la loro influenza ed importanza è un compito che non può restringersi alle cattedre accademiche e ad un vago impegno interdisciplinare che non approfondisca la conoscenza dei numerosissimi fatti citati. Questo per un motivo molto semplice, ovvero che il pensiero dominante è divenuto una molteplicità di voci che si legittimano da sole – autonomamente – con la forza della propria impattanza. Per cui oggi nomi come Kwanza Musi Dos Santos, Mackda Ghebremariam Tesfau, Marwa Mahmoud, Otto Bitjoka, Paula Baudet Vivanco, Valentina  Migliorini,  Aida Aisha Bodian, Angelica Pesarini, Sara Federica de Matthias, Ivo Passler, Evelyne S. Afaawva, Djarah Kan, e Addes Tesfamarim  dialogano direttamente o indirettamente con Sandrine Kiasi Mputo, Angela Haisha Adamou,  Alesa Herero ed insieme a Igiaba Scego, Bello Figo, Tommy Kuti, Omarito, Anna Curcio, Renata Morresi, Miguel Mellino, Ghali, Francesco Ohazuruike, Roy Raheem, Yank, Slava, Yves The Male, Loretta Grace, Tia Tayler, Judith Mimi, Cleo Thomas, Lidia Okatci, Chadia Rodriguez , e innumerevoli altre, importanti ma che qui non riesco a citare tutte.

Chi sono queste persone?

Meglio sarebbe dire che mondi o dimensioni rappresentano?

Ebbene si tratta del post-era dove accademici, attivisti per lo Ius Soli, storici, mediatori culturali, tradizionali leadership africane,  attivisti afro europei ed afroamericani, come discendenti sudamericani, ed asiatici e rivendicazioni di genere su tematiche perturbanti, scrittori, rap e trap, youtuber veicolano un discorso vero di testimonianza, affermazione, resistenza contro una realtà italiana ed europea che vuole negare la presenza della diversità o limitarla nei confini della cronaca nera.

Che futuro vogliamo?

Io l’ho dichiarato con orgoglio, scrivendo la mia biografia. Poeta Civile, per me parte tutto da lì, nella sensibile percezione degli esseri umani e viventi come parte di me, alter ego di ciò che sono o potrei essere. Non posso che finire questa breve introduzione del termine futuro con gli auspici di una poesia, dono di una notte meritatamente insonne per sentire, come posso il cammino degli esseri esistenti e, se vogliamo, anche del  futuro che appartiene loro.

 

PER CHI CAMMINA SUL MONDO

Sono Chi Cammina sul mondo,

e tutto ciò che è terra mi appartiene

 

Sono Chi Cammina sul mondo

e non ho sesso, ceto, religione, partito

e fazione perchè sono ogni cosa

 

Sono Chi Cammina sul mondo

e la mia vita la leggi nei miei occhi

e sulla mia carne

 

Sono Chi Cammina sul mondo

col privilegio del dolore per le onde infrante sui corpi,

le foreste divelte o incendiate, le tempeste, le acque

prosciugate o inquinate, gli scioglimenti dei ghiacciai,

per gli animali massacrati ed il frastuono tellurico delle viscere

 

Sono Chi Cammina sul mondo

e passo sulle strisce di terra con i cestini

del disprezzo, della mattanza, dell’amore

e del diritto alla gioia da ripartire con equità

 

Sono Chi Cammina sul mondo

col terribile sguardo di chi custodisce

la nuova legge della Storia

senza sconti per i detrattori

di vita, realtà e memoria!

 

Reginaldo Cerolini 2 settembre 2019

 

 

 

[1] Ringrazio mia madre per aver ritrovato questo intervento che avevo perso, ricordando che si tratta di un intervento scritto in occasione del convegno Il bianco e il nero: le parole per dirlo, svoltosi a Milano, nella Casa della Memoria, in data 7 settembre 2019.

[2] La dimensionalità diviene un paradigma imprescindibile dell’espressione social in quanto abbraccia unità sparse in una spazialità nazionale e sovranazionale, unite da un’unità linguistica e da una condivisione di intenti. Anche questa dipendenza linguistica o tematica è in sé materia di studio.

 

Reginaldo Cerolini, classe 1981, Laurea Specialistica in Antropologia Culturale ed Etnologia (Bologna), Master In Sceneggiatura (New York), Produttore Teatrale presso il National Black Theatre, professa dal 2007 la scrittura critica come libero editorialista per lamacchinasognante.com, Sagarana, Oltreilgiardino, Luce e Ombra, El Ghibli, Religione e Società. Dal 2015 anche in veste di poeta civile si interessa della questione migrante con un focus sulla problematica nera e di genere, prediligendo le forme sociali di libera espressione culturale, quali la musica, il cinema, l’arte e la letteratura.

 


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INTERVENTO DI PINA PICCOLO

Afrofobia, Discriminazione e  Xenofobia

Agganciandomi al discorso che si è fatto prima, cioè della necessità di posizionarsi in maniera esplicita, di me posso dire che mi chiamo Pina Piccolo, sono bianca, sono italo-americana, figlia di 2 generazioni di migrazione italiana all’estero (Argentina e Stati Uniti). Sono scrittrice e attualmente la coordinatrice de la Macchina Sognante, insieme all’Aned e al Festival Goes DiverCity, una delle tre realtà che hanno organizzato questa giornata di laboratori e dibattiti. Il mio intervento si focalizzerà maggiormente su come il razzismo viene trattato a livello letterario e di rappresentazione, prendendo spunto da scritti pubblicati negli anni ne La Macchina Sognante.

Con Sandrine, che ha appena finito il suo intervento, la nostra consegna era di parlare di Afrofobia, Discriminazione e Xenofobia, e purtroppo, proprio in questa Casa della Memoria, che gentilmente ci ospita, vorrei ricordare uno di quelli che non sono episodi isolati, ma frutto di odio razziale e di suprematismo bianco: l’uccisione, non lontano da qui di Abba Guibre undici anni fa, un ragazzo di 18 anni, di origini, burkinabé ucciso a sprangate dal proprietario di un bar e da suo figlio per aver rubato una confezione di biscotti. Quello che mi colpì all’epoca fu che i due non furono condannati con l’aggravante dell’odio razziale, ma perché il loro omicidio era stato dettato da “futili motivi”. Di nuovo la grande assente, la parola razza.

Undici anni fa l’evento scosse la società civile e portò a un impegno dal basso avviato dai suoi amici e compagni di scuola, continuato con assiduità negli anni, volto ad organizzare eventi per ricordarlo e combattere il razzismo, tra cui l’Abba Cup che si svolge proprio qui a Milano la prossima settimana. Vorrei leggervi una poesia che ho scritto per ricordarlo, pochi giorni dopo la sua uccisione, una poesia che mette in evidenzia il ruolo del razzismo a livello istituzionale, la diffusione dell’odio che avviene dagli scranni del potere:

PER FUTILI MOTIVI

               per Abba Guibre

 

Odio che feroce
Si sprigiona dagli scranni
E come onda ferina
Si propaga

Odio che si spande
Livore che trabocca
Nella spranga

Non seguire la scia
Delle briciole di biscotto
Avvelenate
Abba il giocoso
Conchiglia nera spezzata.

Che il tuo spirito rincorra
La stella di Sirio
La più brillante
Presto la mattina
Nel nebuloso
Emisfero di Milano

Puntino luminoso
Venerato da i tuoi antenati Dogon
Abba
della Terra degli uomini integri
Ragazzo dal corpo d’ebano
Riverso ora sul selciato

Brandello senza vita
In un paese di uomini
Poco integri.

Futili motivi
Utili motivi
Utili estratti
Nella miniera
Della guerra tra i poveri

Pepita perversa
Che brilla nella notte buia
Delle coscienze spente
Per ulteriori motivi.

Sagarana,  n. 33.  Dicembre 2008

Mentre lo uccidevano i gestori del bar urlavano insulti di natura razzista e specificamente afrofobici, diretti alla sua provenienza africana.

Ma come ha illustrato in maniera esauriente nel primo laboratorio Angelica Pesarini i danni di questo specifico tipo di odio e ‘dichiarata paura” sono di grande portata proprio per le persone che ne sono bersaglio, e hanno avuto e continuano ad avere effetti distruttivi a livello psicologico sulle persone nere, spesso non solo nei paesi in cui costituiscono una minoranza, ma anche nell’Africa stessa, basti pensare all’uso degli sbiancanti e di prodotti per lisciare i capelli. Vi ricordate l’esempio nel laboratorio dei Angelica della bambina nera che dichiarava la bellezza della bambola bianca era dovuta al colore degli occhi, cioè “bella perché aveva gli occhi azzurri”? Su questa predilezione si è basato un grande romanzo statunitense, il romanzo di esordio di Toni Morrison “The bluest eye”. (in italiano “L’occhio più azzurro”, pubblicato negli USA nel 1970 e qui in traduzione nel 1994).

Adesso vi leggo dei passi dalla postfazione scritta dalla stessa Toni Morrison per l’edizione statunitense del 1993 e riportata nella edizione italiana del 2018:

“Avevamo appena iniziato la scuola elementare. Lei disse che voleva avere gli occhi azzurri. Mi guardai intorno pensando a come sarebbe sembrata e inorridii all’immagine di lei se quel desiderio si fosse avverato.  Il dolore nella sua voce pareva invocare comprensione, così finsi per lei, ma, sconvolta per la profanità di quanto chiedeva, nell’intimo “me la presi” con lei.

Fino a quel momento avevo visto cose carine, graziose, attraenti, brutte, sebbene avessi usato di sicuro la parola “bello” non ne avevo mai provato la violenza – la cui forza er pari alla consapevolezza che nessun altro la riconoscesse, neppure, anzi soprattutto, chi ne era in possesso. […] A far sorgere questi pensieri è stata negli anni Sessanta la rivendicazione del bello razziale, che mi ha fatto pensare alla necessità di un riconoscimento. Perché sebbene schernito dagli altri, non si poteva prendere per vero questo bello all’interno della comunità? Perché per esistere aveva bisogno di una grande articolazione pubblica? Non sono domande molto intelligenti. Eppure nel 1962, quando comincia questa storia, e nel 1965, quando essa iniziò a divenire un libro, le risposte non erano così ovvie come diventarono subito dopo e come sono ora.  L’affermazione del bello razziale non fu una reazione all’autoderisione, alla critica faceta dei punti deboli culturali/razziali comuni a tutti i gruppi, bensì alla deleteria interiorizzazione delle ipotesi di una immutabile inferiorità che ha origine in uno sguardo esterno. Mi sono concentrata, quindi, su come qualcosa di così grottesco qual è la demonizzazione di un’intera razza potesse radicarsi all’interno del membro più vulnerabile: la femmina.” (da Toni Morrison, “L’occhio più azzurro”, traduzione Luisa Balacco, Frassinelli, 2018).

E questa individuazione di una vulnerabilità ci porta a una discussione del termine “ discriminazione” che naturalmente è molto più articolato, generale e complesso della specificità che abbiamo riscontrato pr il termine Afrofobia.  E di nuovo saranno gli scritti di una scrittrice afroamericana che utilizzerò per presentare la complessità. Si tratta della scrittrice Audre Lorde e di una sua poesia in cui specificamente si pone dei quesiti sulla difficoltà di arrivare alla liberazione umana considerando come a livello personale l’intersezione di diverse categorie per cui si è discriminati (razza, genere, classe) – tutti e tre elementi da lei incarnati- la portino ad acquisire uno sguardo critico rispetto ad altre attiviste che si muovono per  combattere una discriminazione da loro subita ma sono  inconsapevoli di come loro stesse posseggano un privilegio che le porta a porsi più in alto nella gerarchia, per esempio rispetto alle ragazze che  assumo  come domestiche, o all’avventore nero che  arriva prima di loro ma è servito dopo,  quindi e goderne i frutti senza  prenderne atto e agire per rimediare alla cosa. Ve la leggo:

Chi ha detto che era facile

Ha così tante radici l’albero della rabbia
che a volte i rami si spezzano
prima di dare i frutti.

Sedute a Nedicks
Le donne si radunano prima della marcia
discutendo dei vari problemi causati dalle ragazze
che assumono per sentirsi libere.
Un barista quasi bianco ignora
un fratello che aspetta servendo prima loro
e le donne non notano e neanche rifiutano
i piaceri più sottili della propria schiavitù.
Ma io che sono incatenata al mio specchio
tanto quanto al mio letto
vedo le cause nel colore
tanto quanto nel sesso

e siedo qui chiedendomi
quale me sopravvivrà
a tutte queste liberazioni.

(Da “Poesie d’amore e di lotta – Le Lettere 2018, apparso in 5 poesie amore e di lotta. Poesie scelte di Audre Lorde, La Macchina Sognante n. 14, aprile 2019)

 

Quindi le contraddizioni e le gerarchie di sesso, razza, classe, tutte cose che portano a discriminazione nel mondo reale ognuna con le proprie modalità e che spesso confluiscono  in una stessa persona, come nel caso di Audre Lorde e ci lasciano con il difficile compito di combatterle prendendo atto della necessità di alleanze e di un quadro  complessivo, un frame come quello dell’intersezionalità che è stato  elaborato nel 1989 da una studiosa afroamericana Kimberlé Crenshaw,  anche sulla base di pratiche sviluppate nel corso dei movimenti antirazzisti e femministi degli anni 70 negli Usa. Infine, per parlare di Xenofobia, cioè la paura dello straniero, cosa che a volte qui in Italia crea grande confusione quando si tende a fondere  afrofobia,  paura dello straniero, discorsi sull’Altro, in un tutt’uno cercando disperatamente di evitare la parola razza e riducendo tutto a questioni di ignoranza, paura, cioè psicologia e non processi storici, economici, sociali.

Per quest’ultima parola voglio presentare le poesie di una poetessa giovane che vive negli Stati Uniti, Fatimah Asghar, molto apprezzata in quel paese, sceneggiatrice anche di una serie televisiva che si chiama “Brown Girls”. Dunque, di padre proveniente dal Kashmir e di madre pakistana, perde entrambi i genitori a 5 anni, quindi alla dimensione di estraniamento di chi arriva in un nuovo paese si aggiunge anche quello della perdita e del dolore.  In questa poesia l’interlocutore sono “gli uomini bianchi che hanno paura di tutto”  quindi denuncia la loro prevaricazione su un soggetto più debole (cioè una ragazza marrone, “ brown” come si dice negli USA) mascherata da azione intrapresa per paura. Una poesia di denuncia ma anche di orgoglio per quello che è il proprio mondo, mondo la cui autonomia di tradizione e di creatività viene percepito come impossibilità e una minaccia dall’uomo bianco che si crede superiore e unico detentore di cultura.

Agli uomini bianchi che hanno paura di tutto

 

& di tutti. Compreso il mio corpo di undicenne
circondano di vuoto me e il mio violino

sull’autobus affollato le settimane dopo la caduta
delle torri & della quale avete incolpato la mia pelle. Erano vostri i piedi

& i vetri rotti che mi seguivano per il campo
quando arrivavo troppo presto all’allenamento di calcio,

sempre voi a ricordarmi che nessun marciapiedi o parco
sarebbe mai stato mio. Qualsiasi cosa provenga

da un paese che finisce in -stan ispira terrore, beduina
parole esotiche che non avevo mai sentito, ma adesso tutti nomi miei

– ma pure no – ora, tutto il mio CV – ma pure no- Lo so che forse vi faccio paura
uomini bianchi, io con le mie palpebre pesanti, risata

fragorosa e insistenza ad essere qui & ascoltata
Io bruna & con la pretesa di volare fino alla morte, io col mio Islam

& i tatuaggi & mio zio che riapre il suo ristorante
come trattoria afgana il mese dopo che gli avete lanciato la bottiglia

contro le vetrine & lasciato la scritta “Tornatevene a casa terroristi!”
su tutti i menù. È da questa gente che provengo io.

Un uomo che dice lascia che ci odino & dipingeva sui muri uomini
col turbante che trascinavano una capra morente.

È da lì che provengo io. Quelle province
di cui non sapete il nome, le guerre che continuate a iniziare

senza poter vincere. Osservate la mia gente vivere. Osservate
la mia gente amare. Osservate come colpite le nostre città coi droni
& uccidete i nostri bambini & noi continuiamo a trovare spazio per ballare.

Guardate quanti paradisi abbiamo, solo per noi.

Il mondo è pieno di gente come me che vorreste
sezionare, volete un nome per tutto

O altrimenti è libero e non vostro. La libertà al di fuori
della bianchezza è terrore, il cibo fuori della bianchezza

è spettacolo, la terra fuori della bianchezza non
esiste. Uomini bianchi, lo so che vi faccio paura

Io, col mio riso colorato, io col mio nome
che non sapete pronunciare, io senza terra

& senza intenzione di rubare o pagarvi una casa
che vi possiate poi riagguantare. O bruciare. O potete metterle davanti
uno specchio & cercare di convincermi che desidero di più

(da “La mattina mi sbuccio la tristezza di dosso e la stendo ad asciugare- 5 poesie di Fatimah Asghar, La Macchina Sognante n. 5 Gennaio 2017)

 

Pina Piccolo è traduttrice, scrittrice, attivista culturale e coordinatrice della rivista di letterature e culture dal mondo La Macchina Sognante. Dirige la rivista in lingua inglese The Dreaming Machine.  Ha pubblicato la raccolta di poesia I canti dell’Interregno (Lebeg 2018).  Suoi saggi e scritture creative sono stati inseriti in antologie, collettanee e riviste sia di lingua italiana che inglese.

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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