Insegnare a studenti a ZigZag – storie di scuola, di vita e di pregiudizi di Piero Schiavo (Edizioni La Linea Srl 2017)

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Pietro Schiavo

“Insegnare a studenti a ZigZag” è il diario di Piero Schiavo, sono gli appunti delle sue esperienze, considerazioni ed emozioni vissute nel corso di un anno scolastico di insegnamento della lingua italiana in una terza media all’interno di un CPT.

Il CPT (Centro Territoriale Permanente, oggi CPIA, Centro Provinciale per l’istruzione degli Adulti) è una realtà scolastica poco nota anche agli addetti ai lavori, i cui frequentatori sono eterogenei per età, motivazioni e aspettative. Si tratta di studenti stranieri provenienti da esperienze di vita vissuta degne ognuna di essere raccolta in un romanzo di avventura e di adulti o adolescenti italiani che hanno abbandonato per mille ragioni il ciclo scolastico dell’obbligo, accomunati dall’intenzione di conseguire il diploma di terza media. Da questa realtà composita e imprevedibile deriva il riferimento del titolo mutuato, come scrive l’autore, da un romanzo di  David Grossman: ‟La definizione di bambini a zigzag, fornita nel suo libro ‹Ci sono bambini a zigzag›, si adatta perfettamente alle tipologie di studenti con le quali ho lavorato e con le quali normalmente si lavora in un CPT. Irregolari nella provenienza, irregolari nei percorsi, irregolari negli esiti […] con un’unica e comune regolarità, purtroppo: quella dei pregiudizi che portano addosso come uno stigma partorito da una valutazione troppo sbrigativa o dall’ignoranza delle loro storie ‟.

 

Già dal primo contatto burocratico amministrativo con la scuola è di tutta evidenza come sia fondamentale per uno studente straniero la fase dell’accoglienza che, come scrive l’autore, “non significa soltanto somministrargli un modulo” perché spesso non è ancora in grado “di leggere e compilare un modulo d’iscrizione in lingua italiana, per cui va guidato con delicatezza, senza umiliare la sua esperienza di vita”. Prevale negli studenti adulti l’aspetto dell’immediatezza del risultato piuttosto che quello di progettualità futura, solitamente presente, invece, nei ragazzi di tredici o quattordici anni. La conoscenza della lingua italiana è indispensabile per districarsi nel mondo del lavoro, precario e instabile, comunque necessario e le lezioni vanno incastrate negli spazi liberati dalle altre attività “di sopravvivenza”.

 

Dalle vicende del diario delle giornate passate in classe emergono esigenze che spesso la programmazione didattica non riesce a intercettare: qui entra in gioco la sensibilità personale, il coinvolgimento, l’entusiasmo del docente che, prima che docente di lingua italiana, deve essere, all’interno del CPT, un educatore. Educatore alla vita, al riconoscimento di se stessi, della propria identità così difficile da costruire tra emigrazioni, città, lingue e abitudini diverse o nostalgie del proprio Paese. Una volta messo in moto questo passaggio fondamentale che solo la predisposizione psicologica dell’insegnante all’ascolto dilatato rispetto ai tempi della didattica riesce ad agevolare, la  classe assume il ruolo di polo di aggregazione, di confronto e aiuto in una società nella quale ogni ragazzo è solo e nella quale le sue domande restano quasi sempre inespresse.

 

Ad aumentare le difficoltà del percorso scolastico contribuiscono in modo determinante i pregiudizi che ogni studente straniero si porta cucito addosso solo per il colore della sua pelle o per la sua difficoltà d’espressione in italiano corrente, caratteristiche percepite da molta gente come sinonimo di ignoranza. Schiavo per cancellare questo odioso luogo comune ci accompagna all’interno della sua classe dove troviamo: Olga, ucraina che ha studiato economia, sposata e vive in Italia da quattro anni e fa le pulizie in un hotel, Maryam che frequenta un dottorato in scienze politiche in Libano e ora studia in un’università italiana, Luna, russa che vive in Italia da otto anni, laureata in lingue e scienze politiche, ora disoccupata, Diara che viene dal Congo, ha studiato scienze politiche, fa il volontario in un circolo Arci e aiuta i profughi appena arrivati e Aida che in Albania insegnava inglese e in Italia era stata costretta a svolgere lavori saltuari come donna di servizio o in imprese di pulizia. Emerge chiaro dalle pagine il dolore dell’autore per questo enorme spreco di risorse a cui la burocrazia condanna tutti loro per via di procedure complesse e farraginose per il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, dove esiste, almeno sulla carta, tale possibilità giuridica.

 

L’autore dedica diverse pagine a un ragazzo, Ibrahim, giunto dalla Libia un anno prima all’età di quindici anni, in quanto caso emblematico di come la rigidità dei docenti e le incomprensioni portino a un fallimento scolastico probabilmente evitabile. Il ragazzo già di suo non si presenta bene: “La scuola aveva il poter kriptonico di privarlo di ogni energia sia mentale sia fisica, che riacquistava in modo inversamente proporzionale alla distanza dall’aula” e questa scarsa propensione allo studio viene interpretata dalla maggior parte del corpo insegnante anche come un suo limite “intellettivo”.  In realtà le sue difficoltà sono molto accentuate dai problemi di comprensione della lingua italiana. Riporto un ampio stralcio di queste pagine che ritengo significative  di spunti di riflessione: “Pur stimando la sua docente per la modalità stimolante di trasmettere una disciplina che non sempre entusiasma gli studenti («Ma che m’importa, tanto c’ho il navigatore!»), il caso della preparazione all’interrogazione di Ibrahim è emblematico di quell’ignoranza (non in senso critico, ripeto) piuttosto diffusa circa le modalità di supporto a uno studente straniero. La consegna, uguale per tutti, consisteva nello studiare la tettonica delle placche attraverso alcuni video forniti dalla docente e presi da documentari di varia natura. L’inizio fu disastroso: Ibrahim non aveva neanche capito quali fossero i video da visionare. A voler dirla tutta, sospetto che non gli fosse nemmeno ben chiaro che si dovessero studiare dei video per una verifica, ma preferisco non cedere al dubbio. Non che sarebbe cambiato molto, dato che se anche li avesse visti, dubito che avrebbe compreso termini come “faglia”, “placca”, “magma” e quant’altro. Cercai di semplificare il più possibile ogni cosa con esempi, disegni, metafore calcistiche e tutto un armamentario improvvisato la cui efficacia andavo testando di volta in volta. Anche per me era un’esperienza nuova, malgrado avessi maturato una certa pratica con gli stranieri. E confesso che l’argomento lo conservavo un po’ arrugginito nei cassetti della memoria. Alla fine, un semplice pallone da calcio divenne un ottimo esempio di crosta terrestre, mantello e nucleo magmatico. Prima dell’interrogazione, mostrai il materiale creato assieme a Ibrahim alla sua docente, la quale si mostrò soddisfatta del risultato e mi ringraziò dicendo: «Mi spiace per tutto il lavoro cui ti ha costretto. Questi sono schemi che avrebbe dovuto fare lui da solo.» […]. Come può una persona, che per comprendere un testo necessita che questo venga semplificato, semplificarlo lui stesso? Ecco riproporsi in chiave (anti)didattica l’eterno enigma dell’uovo e della gallina: viene prima il testo compreso o il testo semplificato? Per comprendere un testo, occorre semplificarlo. Ma per semplificarlo, è necessario comprenderlo. […] Fu in quel momento che, tra le tante altre idee più o meno confessabili che si alternarono nella mia  testa, maturai anche quella di una sorta di minicorso di formazione rivolto a tutti i docenti, in cui si trasmettesse la consapevolezza delle difficoltà incontrate da uno studente straniero anche soltanto nella lettura o nella comprensione di certe lezioni, facendo vivere il medesimo disagio in prima persona agli stessi insegnanti. Non sarebbe stata una punizione ma un esperimento empatico. Basterebbe somministrare loro un breve testo relativo alla loro disciplina, ma scritto in urdu, o in punjabi o in afrikaans, con tanto di quattro o cinque domande al seguito per verificarne la comprensione. Suvvia! In fondo si tratterebbe del programma che ognuno ha svolto come minimo negli ultimi dieci anni, e le domande sarebbero semplicissime! O anche più semplicemente basterebbe proporre un testo in francese o inglese, se vogliamo evitare posti troppo esotici: il lessico specifico di ogni disciplina ha poco a che fare con quello che normalmente si apprende in qualsiasi corso di lingua straniera seguito per imparare a comunicare in tale lingua nella quotidianità.  Ecco, allora forse capirebbero che non si tratta di motivazione, volontà o studio, ma semplicemente di incomprensione. Reciproca”.

 

Facendo però un bilancio finale dell’anno scolastico prevalgono i casi di ragazzi che non sono naufragati nel nulla a differenza di Ibrahim e,  pur con tutti i limiti e le contraddizioni che la contraddistinguono, il ruolo fondamentale della scuola pubblica nella formazione, ancor di più per chi non avrebbe mezzi e possibilità di frequentare corsi privati.

La lettura ha avuto per me il pregio della scorrevolezza, di momenti di ironia e autoironia, della trattazione non cattedratica e della freschezza, dell’apertura mentale e della lucidità con la quale questo giovane ha affrontato la sua particolare esperienza scolastica.

Il migliore augurio che rivolgo all’autore, al di là del successo del libro, è quello di poter continuare a pensare a lungo che “…fu solo un anno. Ma sarebbe in realtà durato in me ben oltre i suoi dodici mesi, come credo accada a ogni docente che ha la fortuna di poter svolgere il lavoro che ama. Mesi durante i quali, giorno dopo giorno, capii e feci mia la frase con cui la mia collega Valeria aveva voluto rassicurarmi il giorno in cui ci presentammo: «Il CTP è come Napoli: piangi quando arrivi, ma piangi un po’ più forte quando te ne vai»”.

 

 

PIERO SCHIAVO – È attualmente assegnista di ricerca presso la Scuola di Lettere e Beni Culturali di Bologna, Dipartimento di Filosofia e Comunicazione. Progetto di ricerca: “Genealogie dei Lumi. I Philosophes e i filosofi dell’Antichità: il caso di Democrito”. Tutor: Prof. Mariafranca Spallanzani.

Dall’a.a. 2001/2002: cultore della materia nell’ambito dell’insegnamento di Storia della Filosofia (Dipartimento di Filosofia e Comunicazione-Università di Bologna). ISTRUZIONE E FORMAZIONE ACCADEMICA: 

– 2014/2015: docente di ruolo in Lettere in qualità di vincitore del Concorso a cattedre del 2012.

– 2013/2014: Diploma di Specializzazione per insegnanti di sostegno nella scuola secondaria di secondo grado (Università degli Studi di Urbino).

– 2006/2007: Diploma di Abilitazione alla docenza della Filosofia nella scuola secondaria di secondo grado

– 2003/2004: Dottorato in Filosofia presso l’Università di Bologna. Titolo della tesi: “Democrito nella cultura francese dal Rinascimento all’Età classica. Filosofia della natura e critica dei costumi” Tutor di tesi: prof.ssa Mariafranca Spallanzani e prof. Pietro Capitani. .

– 1999/2000: Laurea con lode in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna. Titolo della tesi: “Democritus ridens, Heraclitus flens. Montaigne e i filosofi antichi”. Relatore della tesi: prof. Alberto Burgio. Correlatore: prof.ssa M. Spallanzani.

 

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Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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