Ginestre
Sì, siamo tutti così
piccole gocce asciutte
sul finestrino di un treno,
un puzzle di anime diverse
e diverse cristallizzate fragilità.
E quando uno di noi rinuncia
alla battaglia esistenziale
forse perché stanco
forse perché cieco
(per tutti i sogni spezzati al vento)
sarà concime per tutti gli altri:
fiori di ginestre piegate
dalla tormenta della vita,
affannate, ma ancora in piedi,
ancora in guerra con sé stesse.
***
É un gioco di respiri
dentro
fuori
dentro
fuori:
quasi ci anneghi.
É un nuoto senza stile
la sopravvivenza di un suono
bum
bum
bum.
Sospiro.
Scelgo.
Cambio.
Affogo.
Riemergo.
Quanto può essere assordante l’abisso?
Il cielo? Il pozzo? Il nero?
Come una nave in un bosco,
mi dici
Ma le navi
sono destinate al mare.
***
Noi
siamo i guardiani
di queste porte logorate
inquinate a ritmo lento.
Le nostre croste verde
scuro: testimoni dell’uomo
delle sue scelte al cianuro.
Eravamo sentinelle di un
mondo che ormai è altrove
-ora c’è schiuma, sporcizia, pudore-
Eravamo il tempo:
non rimane che, di questo,
il suo speculatore.
***
Portatemi tra le carcasse del mondo
a ripulirvi un po’ la coscienza,
a spolverar quella mania
di perfezione e di coerenza
inutile: c’è un cuore
sporco in ogni anfratto del mondo.
Ci sono i detersivi, le croste, i resi,
le decisioni di ogni giorno.
C’è la pentola che bolle, mentre una
chitarra suona, solitaria.
Ci son gli sguardi sul treno e quelli
di famiglia; c’è una coscienza amara.
Senti.
E i pensieri se ne vanno assieme
(a fine pasto) con la schiuma:
si cade nei portaombrelli duri,
cisterne cieche del mondo,
conche di putredine divina.
Questa è la vera città: le tubature
oscure di polvere e immondizia,
l’altro braccio del benessere
la retrostiva della giustizia.
Riconosciamo l’inferno: riconosciamoci.
E i marchi a fuoco che ci scambiamo
-le ferite vive bagnate dal tempo,
nostra più abissale responsabilità-
sapremo
che sono solo
colpi di coda
della nostra matta
paura di amare.
Amarci
permette di lavare
questa polvere in cancrena.
Come la lacrima su un masso
prima o poi
la crepa.
***
Ho sublimato
la tristezza del mondo
in una goccia di rugiada,
l’ho sparsa sulla pelle
e l’ho sentita amara,
l’ho messa tra le vene
come una radice arsa,
bruciata,
sotto un sole che non cuoce e
tra le crepe che non si cuciono,
ed era crosta netta e chiara,
ed era ossatura viva, linfa di
sofferenza prima, noce di nudità.
E così l’ho riversata,
sofferenza del mondo,
in una diga più profonda
del suono, già stuccata con
comprensione e compassione,
riflessione su ogni uomo.
Ma la mia diga si è prosciugata
come un catino bucato dai sogni:
ne son rimaste tracce sporche
di giustizia, inappagata
dai bisogni.
Perdonatemi, vi prego,
anime stanche ma vitali,
ché la mia cisterna è perforata,
ci han scavato dentro con
cucchiai d’argento e rame,
e ora è una noce svuotata,
e ora ci hanno issato dentro
un araldo di fuoco che ne
sa di storia umana.
E intanto io percorro i suoi
fittoni di sangue e cenere
ritorti, le buche
già scavate e ricoperte.
E mi chiedo, ancora,
se c’è bellezza in questo
guscio concavo, nel nostro
lento moto
un senso buono.
***
Foto nell’articolo di Viviana Annio
Note Biografiche:
Ariele Di Mario nasce a Pomezia, nella provincia di Roma vicino al Mar Tirreno. A 10 anni si trasferisce tra i laghi e le colline umbre, mentre da 5 anni studia all’Università di Bologna, lettere e ora antropologia. In questo continuo viaggio ciò che lo accompagna sono sempre la voglia di soffermarsi sul mondo con dei versi, con la musica o con la curiosità di conoscere le storie di vita di ogni uomo.
arielebluefire@gmail.com
Immagine di copertina: Foto di Marvin Collins.