In attesa del giorno, di Juan Valdano (traduzione e cura di Maria Rossi)

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In attesa del giorno

Juan Valdano

volume di prossima pubblicazione della collana Gli Eccentrici

traduzione e cura di Maria Rossi

 

cover

3

Dizque ya los pueblos / son los soberanos, / menos los de acá / por americanos. / Uno era el tirano, / ahora son doscientos: / ésta es la ventaja / de los reglamentos.

 

Copla anonima quitegna del 1810

 

Le campane della Compagnia iniziarono a suonare a morto, e in quel momento Pedro Matías emerse dai suoi ricordi. Chi sarà morto? Probabilmente io, si disse con tristezza, mentre un’espressione amara si disegnava sulla sua bocca. Rimase immobile per qualche istante, come catturato dal ritmo dei lenti e monotoni rintocchi. Subito dopo fece un lungo e rumoroso sbadiglio, si tolse gli occhiali stringinaso e si strofinò il volto con il palmo delle mani come fa chi si è appena svegliato. L’asperità della pelle gli ricordò che quella mattina aveva dimenticato di radersi. I sogni turbolenti della notte appena trascorsa e un’oscura premonizione sul compimento di un fatidico destino gli provocarono una tale sofferenza che, una volta abbandonato il letto, si vestì con premura, prese mantello e bastone e si incamminò devoto verso il Cristo della Colonna. Dev’essere così, forse sono morto, perché, come gli altri, anch’io sono paralizzato dalla paura. In questi giorni di timore, in cui l’angoscia stringe la gola, l’unica voce che non è stata messa a tacere è quella delle campane; continuano a essere la voce dei quartieri di Quito. Come hanno fatto in altre occasioni, ora le campane devono convocare il popolo affinché si opponga alla tirannia. Riunire il popolo per liberare i rivoluzionari imprigionati e in pericolo di vita? Perché no! Ma in che modo, se marchesi, conti e nobili criollos sono terrorizzati quanto me, chiusi nelle loro case con cento chiavistelli? No, evidentemente non si può. Con loro non può succedere nulla, a meno che non si rianimino. Ma il popolo? Lo stesso popolo che in rivolte come quella contro i monopòli[1] si è mostrato sempre valoroso, ora dov’è? La paura ha messo a tacere anch’esso? Un popolo non deve lamentarsi di subire i danni di una tirannide, se la paura che essa causa è un sentimento più forte dell’amore per la libertà. Bisogna convocare adesso questo popolo: studenti, pittori e scultori, ricettatori, osti e donnacce, scaricatori e acquaioli e ancora indios servitori e artigiani, e persino gli schiavi… Penso a loro. La rivoluzione come slancio verso la libertà e la giustizia è loro, non dei marchesi, che nel momento della verità la tradirono, non di certi criollos, che vollero usarla per diventare nobili. Però chi convocherà il popolo se un Manosalvas e un Quintanilla, i bracci esecutori della rivoluzione d’agosto, trascinano pesanti ceppi nelle segrete del carcere? E tuttavia è necessario convocarlo proprio per liberarlo, per salvare la rivoluzione, instradarla verso il suo originario scopo repubblicano e perseguire il trionfo della libertà! Non saremo più una colonia spagnola! Resto solo io per farlo. Io, un timido professore: Gesù, Maria, Giuseppe! Dove troverò la forza sufficiente per passare dall’osservazione all’azione? Con l’aiuto del cielo e l’esempio del mio maestro, troverò tutto ciò di cui ho bisogno. Appena ho visto la luce di questo giorno premonitore, ho saputo che il momento tanto atteso è arrivato. Non lo rifuggo. Lo affronterò.

Pedro Matías prese una piuma d’oca dal tavolo, la intinse nell’inchiostro e iniziò a scrivere:

 

Ora o mai più, quitegni!

Conquistiamo la libertà!

 

All’improvviso, si udì un galoppare violento lungo la strada lastricata. Pedro Matías alzò la penna e guardò oltre la finestra. In quel momento passò una pattuglia a cavallo dell’Esercito Reale di Lima, brandendo lo stendardo rosso e giallo del re. Pedro Matías continuò a scrivere:

 

A morte la tirannia

e del re l’autorità!

 

Devo parlare chiaramente di questo potere, si disse Pedro Matías. È un potere senza prestigio; non si regge sulla giustizia, ora è la tirannia il suo segno distintivo, l’arbitrarietà il suo stile, e il terrore il suo metodo. Un potere rappresentato dall’istrionico e arrogante conte de Montejo, il quale da due anni ostenta la presidenza dell’Audiencia. Siccome l’anziano è stato incapace di assumere il controllo della situazione, le persone che realmente comandano oggi a Quito sono il fiscale Merizalde e il colonnello Bermúdez. Del presidente dicono che è mezzo matto; che si sente perseguitato dai fantasmi; che lo spaventa tanto il soldato sfrontato che sale e scende le scale del palazzo, quanto il rumore di sciabole e speroni in cortili, corridoi e scuderie; che non sa come frenare quella turba armata e ignorante che tracima nelle strade e nelle piazze spaventando anziani, donne e bambini, e minacciando di aizzare contro di loro la cavalleria leggera se non cedono il passo; infine, che è incapace di dominare quell’orda che si riversa in città commettendo ogni sorta di angheria nelle case dei criollos e dei meticci, esigendo un buon pasto e da bere in abbondanza, attentando al pudore delle donne e rubando quanti più oggetti di valore trovi. Dicono che il vecchio non dorme a causa della sua coscienza sporca; che ha la diarrea; che si caca nei pantaloni; che la sua cecità, la sua sordità e il tremore delle sue mani sono peggiorati; che è ogni giorno più tisico, irascibile, fissato e malaticcio; che deve usare il bastone per non cadere; che i servi e i soldati non lo sopportano più né gli obbediscono.

La pattuglia arrivò fino a plaza San Francisco e si fermò di fronte alla scalinata circolare che porta all’atrio del tempio. Poco dopo, il vigoroso battere di un tamburo convocò la popolazione ad ascoltare un editto del presidente. L’ufficiale al comando della pattuglia salì alcuni gradini e aspettò che accorressero i parrocchiani, prima di dare lettura del documento. Era già trascorso un po’ di tempo, e non si vedeva neanche un’anima; solo alcuni cani affamati che scavavano in un cumulo di avanzi in un angolo della piazza. L’eco ritmica del tamburo ritornava ai soldati. I cavalli, mordendo il freno, nitrivano con impazienza colpendo il suolo. Alla fine, soltanto una vecchia mise prudentemente la testa fuori da una finestra.

«È un bando,» gridò «ci sono notizie, notizie».

«La sentenza! Montejo ha emesso la sentenza» fu il clamore che si diffuse all’interno delle case limitrofe. In alcune residenze la notizia arrivò mentre le famiglie erano riunite attorno all’altare domestico. Lì, padri e figli, assieme ai servi e agli schiavi, pregavano davanti a crocifissi e Marie Addolorate, illuminati a profusione da ceri, lanterne e lampade a olio.

«Quale sarà il destino di nostro padre… di nostro figlio… di nostro fratello?».

Alla fine si fecero coraggio e tolsero catenacci, fermi, sbarre e chiavistelli e, con prudenza, aprirono finestre e finestrelle protette da inferriate, gli ampi balconi di legno in stile spagnolo delle case signorili, le porte d’entrata delle carrozze e le imposte tenute con chiodi romani; al contempo, si udirono il cigolio di bandelle e battiporta arrugginiti e il vibrare dei vetri di fragili battenti. In un istante, come provenienti da un regno sotterraneo, emersero teste e teste più curiose, volti emaciati segnati dalle occhiaie, occhi arrossati dal pianto e dall’insonnia, bocche tremanti per la paura e lo stridere dei denti. Quando due o trecento persone ebbero raggiunto la piazza, il banditore iniziò la lettura dell’editto.

Padro Matías lasciò in tutta fretta la biblioteca e corse verso la piazza. Arrivò tardi. Il proclama era stato letto. Portava nelle sue mani alcuni fogli arrotolati. Avevano ancora l’odore dell’inchiostro fresco. Li distribuì ai conoscenti e agli sconosciuti che incontrò al suo passaggio.

«Impara questi versi a memoria e recitali ovunque puoi» si raccomandava con ognuno a voce bassa.

Un coraggioso gruppo di uomini del popolo protestò per la sentenza emessa e ingiuriò Montejo. Si diressero fino alla porta del palazzo dell’Audiencia; lì, la vigilanza che la proteggeva li disperse con una raffica di fucileria. In pochi minuti, la notizia si diffuse per la strade della città, come una di quelle improvvise alluvioni di fango e pietre che spesso scendono dal Pichincha. Il peggio venne confermato: pena capitale per tutti. Solo alcuni chapetones e due o tre criollos applaudirono la sentenza. Tra di loro, Juan Calixto, figlio del defunto don Luis, quando si rese conto della presenza di Pedro Matías, lo redarguì ad alta voce affinché lo sentissero tutti: «Ampudia, manchi solo tu nell’elenco dei condannati alla forca».

 

[1] Riferimento alla Revuelta de los Estancos del 1765, durante la quale i quitegni si ribellarono contro l’introduzione del monopolio del tabacco e dell’acquavite, oltre che di nuove tasse. Lo Stato spagnolo, infatti, si ergeva a unico produttore e commerciante di tali prodotti, danneggiando i produttori e commercianti locali. La rivolta ebbe una dimensione essenzialmente urbana (cfr, Federica Morelli, Territorio e nazione, Rubettino, Soveria Mannelli 2001).

 

Testo gentilmente concesso da Gli Eccentrici e da Edizioni Arcoiris.
foto-juan-valdano-2Juan Valdano è nato a Cuenca (Ecuador) nel 1940. Dopo aver compiuto i suoi studi presso l’Università di Cuenca, di Aix-en-Provance (Francia) e la Complutense di Madrid (Spagna), è stato docente universitario nella sua città natale e nell’Università Cattolica dell’Ecuador, e   Sottosegretario alla Cultura nei governi Hurtado (1981-1984) e Noboa (2002-2003). Quando viene pubblicato Mientras llega el día (1990), il suo primo romanzo, l’autore era già noto per i suoi saggi: Humanismo de Albert Camus (1973), Panorama de las generaciones ecuadorianas (1976), La pluma y el cetro (1977), El cuento ecuadoriano (1979), Léxico y símbolo en Juan Montalvo (1981), Ecuador: cultura y generaciones (1985). Si è interessato al problema dell’identità nazionale e della società e cultura ecuadoriane con Prole del vendaval (1999), Identidad y forma de lo ecuadoriano (2005), Palabras en el tiempo (2008), Los espejos y la noche (2010), La selva y los caminos: 28 reflexiones sobre la realidad ecuadoriana (2010, Premio Nacional Cesar Dávila Andrade). Per quanto riguarda le opere di narrativa, ha pubblicato raccolte di racconti: Las huellas recogidas (1980, Premio José de la Cuadra), La celada (2002) e Juegos de Proteo (2008) e romanzi: oltre al già citato Mientras llega el día, Anillos de serpiente (1998, Premio Joaquín Gallegos Lara), El fuego y la sombra (2001), La memoria y los adioses (2006). È coautore della Historia de las literaturas de Ecuador.

 

Foto in evidenza di Simbala Desilles.

Foto dell’autore a cura di Juan Valdano.

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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