Immersioni – di Ada Bellanova

FOTO 12

(Foto: foto dalla fotogallery di Nicoletta Lofoco)

I.

Che bisogno c’era di venire fin qui? Mi accusano da più parti persino di necrofilia. “Che ti è preso? Vai a mischiarti coi morti. Vai a cercare le tombe abbandonate. Ma, vedrai, non ci sarà che polvere…dopo tutto questo tempo”. Hanno ragione?

È un viaggio, questo, che non sapevo di voler fare appena un anno fa. Poi lei nel delirio si è messa a parlare del mare: le è uscita una cadenza che deve aver tenuto sotto controllo per tutta la vita, le sarà venuta, che so, forse giusto dopo qualche bicchiere di vino. È stato come intravedere lo spazio del mito soffiato dalle sue parole. Che poi, pure lei che ricordi poteva avere? Racconti di racconti erano, per giunta sfumati dalla demenza senile.

Quando se n’è andata, si è fatto urgente il bisogno di prendere e partire. Appena mi assegneranno le ferie, mi sono detta. Pure ai miei figli l’ho annunciato: “Inutile che mi cerchiate a luglio, non sarò qui; mi trovo una casetta laggiù, vado a trovare i miei, i vostri antenati”. Che progetto bizzarro, no? Infatti la più grande mi ha presa in giro, dolcemente. Ma non serviva: mi sono canzonata da sola una quantità di volte: “Sei scema, non troverai niente, non hai che un paio di nomi da cui partire…”

All’aeroporto di Palermo era solo un sospetto, poi qui una certezza, la sensazione che questa mi sia casa, più di Zurigo, più di Bologna, di Milano, più di Ginevra, e che l’aria, la sabbia, le rocce abbiano a che fare con il mio sangue: un’inattesa familiarità tra quest’universo di materia e la mia carne. Se non è solo suggestione.

Mi sono fermata sul belvedere senza risolvermi prima a ritirare le chiavi dell’appartamento: mi sono riempita la testa di blu e voli di gabbiani, le narici le hanno colpite l’aroma dei pini, delle erbe selvatiche arrampicate sulla montagna, poi il fritto delle panelle nel camioncino alle mie spalle. Mi sono un poco commossa alla sagoma del Castello. Castello a mare… Castellammare.

Si può vivere senza radici? Non ho mai avuto quello che si dice pollice verde, non ho competenza, ma un ulivo, un fico, un pero, e pure un oleandro, un gelsomino, una pianta di pomodori, se qualcuno va a toccare quello che hanno sottoterra, più o meno profondo, più o meno contorto, come fanno a continuare ad esistere? Io credo ora che questo valga pure per gli esseri umani. Mio marito direbbe che è un discorso senza senso, che io sono nata e cresciuta in Svizzera e quindi le mie radici ce le ho là, donna di laghi e montagne, donna di banche e città cosmopolite.  Ma le cose non stanno proprio così. In tutti questi anni, nella mia scelta di studiare in Italia, nei nostri viaggi in giro per il mondo, non ho fatto altro che ribadire che lì non mi sento a casa, che casa mia è da un’altra parte. Evidentemente sono venuta a cercarla.

 

II.

Non avevo idea che così tanta gente fosse partita. Intere strade, contrade si sono svuotate.   L’incaricato della biblioteca allarga le braccia: con quei cognomi c’è un’infinità di gente, non sa assicurarmi che troverò ciò che cerco. Mi sono risolta a bussare, al comune mi hanno spedita qui. Ma non sono la sola. La prima volta sono in coda, seconda ad una famiglia di americani che alterna espressioni in lingua straniera a parole in dialetto, eredità di casa evidentemente, conservata come un’arca dell’alleanza pure dall’altra parte, roba che hanno succhiato con il latte, con le carezze. Ma loro sono fortunati, hanno ricevuto un indirizzo, un indizio, e chissà troveranno parenti sconosciuti con cui andare a prendere un caffè sul Corso, facce da ispezionare, studiare, per provare a riconoscere i propri tratti, la piega della bocca, le ciglia, e convincersi sì che l’espressione di stupore sia proprio la stessa, pure se non è così, pure se di fronte hanno creature ignote e che resteranno ignote.

Ma se ce l’hanno fatta loro, con l’italiano a tentoni, perché non io. Dovrei essere più vicina, no? Ma più vicina a cosa? L’addetto, quand’è il mio turno, si gratta la fronte un poco dispiaciuto. “Vede, signora, è pochino quello che sa. Una data, che ne so, un quartiere, ci aiuterebbero”. Ma io non mi arrendo, gli chiedo per favore se può farmi vedere l’archivio, e prometto che sarò brava, che non creerò confusione. E forse lo impietosisco o forse è la prassi, succede che qualcuno risolva così: “C’è da fare una richiesta, però”. E la faccio questa richiesta, certo, riempio il modulo con gli occhi pieni di speranza, manco si trattasse del mio futuro, di una chance, e non invece del mio passato, anzi, del passato dei miei geni. Nell’attesa – ci vogliono un paio di giorni per avere l’autorizzazione – decido che andrò solo in giro, come una zingara, mi consumerò le scarpe su e giù per le strade e gli scalini, dalla marina verso la montagna e dalla montagna verso la marina, e poi di traverso, sempre in su e in giù in questa aperta conchiglia adagiata sul pendio. Può darsi che incontri qualcuno che mi somiglia: saprò trovare il coraggio di fermarlo, chiedergli, spiegargli? E non mi prenderanno forse per pazza?

Però il golfo è affollato di turisti. È difficile individuare le facce da scrutare. Mi confondo dietro i profili nordici, gli accenti sconosciuti: il sangue non palpita, non sento familiarità. Resto allora a guardare dall’alto della Villa Comunale l’abbraccio che dà il mare alla Chiesa Matrice e al Castello, e succhio una granita alla mandorla che mi fa da madeleine e penso ai racconti d’infanzia, ai miei nonni, alle ragnatele delle loro rughe, ai sapori freschi spiegati nel gesto eloquente della mano – “Che buoni, France’”- e mi veniva l’acquolina senza saperlo, desideravo assaggiare e non potevo. Se ne sono andati troppo presto loro: la promessa che facevano, che sarebbero tornati qui, avrebbero intrecciato i fili, messo in ordine le parentele, si sarebbero ripresi il loro pezzo di terra in una contrada senza nome, non l’hanno mantenuta. Poi ci si è messa la vita, le fatiche di tutti i giorni, mia madre non ha saputo o non ha voluto. Ma c’è una cosa che capisco ora, da che lei se n’è andata: ne avrebbe avuto bisogno. E io ora non faccio che sanare quella mancanza, riempire quel vuoto. O almeno ci provo.

 

III.

I proprietari della casa che ho preso in affitto non abitano qui, figli di migranti pure loro, che tornano ogni tanto a prendere l’odore delle spalliere di gelsomino, alle spalle la lama della montagna, sulla pelle l’alito del mare che, anche se è più giù, e ci vuole un quarto d’ora di camminata per trovarlo, riesce in certi momenti a soffiare fino a qui. Ma in questa strada ci sono anche case che non apre più nessuno, la porta crepata dal tempo, l’erba tenace sugli scalini, nel buco giurerei di aver visto un topo. Di chi erano. Dove sono andati gli abitanti o i loro figli, o i figli dei loro figli, in quale altro angolo di mondo, e che memoria hanno di queste pietre, della solitaria maiolica piena di polvere innestata nella calce in basso, dove si strusciano i gatti randagi per grattarsi la schiena.

La chiave me l’ha consegnata una signora che ha lo stesso cognome di mia madre, un po’ strabica, incredibilmente loquace. Dice che se mi serve qualcosa lei mi aiuta, ma sospetto che soffra un po’ di solitudine, che stia cercando qualcuno che le dia retta, che sia lei ad aver bisogno. All’inizio ho pensato “magari siamo parenti”, poi lei ha chiarito che tutti si chiamano così, pure quelli che abitano nella strada accanto, ma “non abbiamo niente da spartire” ha aggiunto, con un evidente disgusto nella voce, nello sguardo, che lasciava presumere un giudizio di valore. Nessun aiuto allora mi può venire da lei, o forse sì, perché pure se il cognome è così diffuso, chi può escludere ora come ora che non ci sia un legame, pure alla lontana? Frettolosamente corro in bagno, mi osservo lungamente la faccia, cerco le tracce di un lieve strabismo. “Di Venere”, rido tra me e me. No, neanche a forzarli gli occhi si torcono, come quando da bambini si fanno le smorfie, e poi sono chiari, normanni, mica scuri come i suoi, e il naso è più corto, largo in alto, con vaghi tratti africani. Ma il gioco che faccio giorno dopo giorno di confrontare i miei lineamenti con quelli della barista, del fruttivendolo, del siminzaro, del benzinaio, della sarta, pure se sto diventando sempre più brava, è assolutamente inutile. In ogni caso, quando mi affaccio nella strada accanto per curiosità scopro un’intera famiglia dagli occhi strabici, mamma, figli, nipoti. Ma deve trattarsi soltanto di una coincidenza.

 

IV.

Il caldo è africano. Un vento di scirocco si attacca alle palpebre, si siede sulle ciglia con prepotenza, e verrebbe voglia soltanto di dormire. Tanto più che il mare incide sugli scogli una sua segreta ninnananna, senza sosta, lasciando una schiuma sottile e schegge di vetro arrotondate, ridotte a pietruzze colorate, che rotolano e luccicano sotto la luce. Alla Campana non ci sono che io. E un gatto rosso a pochi metri, in equilibrio sul gradino di cemento, che guarda in alto, verso il cielo, seguendo i gabbiani. Fumo decine e decine di sigarette ipnotizzata dall’orizzonte.

Poi arriva un ragazzo con attrezzatura da sub, fa un saluto non so se al felino o a me, si prepara rapidamente, entra in acqua con delicatezza, quasi non volesse disturbare. E va giù, scompare. Solo la boa dice la sua presenza.

Quanti segni sulla mia pelle dicono il legame con tutto questo? O non è più nella testa la connessione, nell’inedita convinzione di appartenere al mare, a questo saliscendi di strade, ai rintocchi delle campane sulla marina…

In ogni caso mi sento come un sub. Ma la mia preparazione è più lunga e elaborata. Non mi sono ancora immersa, non davvero. Questo penso in attesa dell’incaricato, al bancone della biblioteca. Poi lui appare, intravedo il profilo con gli occhiali, cammina nell’altra stanza con una ragazza e un uomo con un bastone, portano in mano dei fascicoli. “Possiamo fare delle fotocopie, se volete, oppure potete appuntarvi i dati. A disposizione”. Gli altri due inciampano in italiano, sento l’accento francese. Poi si chinano sui fogli disposti su un tavolo arancione – mi ricorda i tavolini della scuola elementare che hanno frequentato le mie figlie –, leggono alcune parole, ad alta voce, ma come le stessero dicendo a se stessi: “1968… Sisma… Caleca… anni 84… deceduta… L’abitazione sita in via… gravemente lesionata”. Ecco, mentalmente mi segno la strada, anche se non c’entra niente con me, con la mia storia, con i miei che sono partiti invece alla fine degli anni Venti – che tempi bui dovevano essere -, prima verso le fabbriche del Nord, poi verso la Svizzera. Mi chiedo cosa stiano cercando, quale pezzo del loro passato. Ma finalmente tocca a me e, anche se l’autorizzazione ancora non c’è, l’incaricato dice che posso seguirlo, che tanto la firma arriverà di sicuro – “giusto un ritardo, d’estate capita”, si stringe nelle spalle –, e io li sfioro, quei due stranieri che si commuovono non so bene per cosa e si abbracciano, prima di entrare in quello che pensavo fosse un sancta sanctorum ma evidentemente non è così esclusivo e due persone aprono e chiudono fascicoli. Ma forse sono anche loro operatori, incaricati.

 

V.

Non lo sono. Sono sub, come me, più esperti di me. Una tedesca e uno statunitense. Anna e Thomas. Succede che a nuotare fianco a fianco in abissi sconosciuti, nei chiaroscuri delle profondità ci si saluti, ci si presenti, perché non è cosa così comune buttarsi, e l’esperienza ci rende subito vicini, quasi, oserei dire, fratelli. Ma pure così lontani siamo, gettati agli angoli del mondo come dadi, e poi ora ripresi nella mano di un gigantesco giocatore “Qui, qui dovete stare, cercare…” Già, cercare.  Un indizio, un coccio, una bottiglia per ricostruire un percorso nello spazio e nel tempo: che strada facevano gli antenati, a quale santo erano devoti, dove hanno battezzato quel figlio, dove hanno pianto quel padre, se c’è ancora qualcosa che appartiene alla famiglia.

Non so da dove iniziare. Un’anagrafe da scorrere. Il registro dei matrimoni. Domenico e Rosa… Anni? Data di nascita? La pazienza c’è, un quaderno pure. Provo a incrociare i dati, a segnare le coincidenze. Poi ad un tratto sorrido tra me e me, sorrido di me, dell’eventualità che io scopra una casa in abbandono, magari crollata, e mi tocchi persino pagare i danni, o un accumulo di spese. “Povera scema…” mi dico. Ma dopo un’ora le dita mi tremano. Il ventilatore non riesce a placare il caldo e, nonostante le finestre spalancate, nella stanza manca l’aria. Riemergo. Per fumare un paio di sigarette e guardare i gatti randagi. Ma fuori, tra il sole e le cicale, è la conversazione dei ventenni in pausa dallo studio che mi attrae. Universitari sono, come lo ero io, tanti anni fa, come lo sono i miei figli sparsi per il mondo. “Mi laureo in autunno”, dice uno, “poi vado a Milano, forse lì qualcosa si trova”. “Sì, pure io voglio fare così, o forse la specialistica all’estero, vediamo…” Ecco, il flusso continua. Rimarranno pareti mute come quelle dall’altra parte della strada, balconi nido per piccioni e stucchi precipitati?

Stringo le labbra e faccio per rientrare e trovo lei, la signora tedesca, che mi saluta, in inglese. Dice che va a suonare a sua cugina, che dovrebbe aver trovato qualcosa, mi augura buona fortuna. Io mi chiedo che faccia farà questa sua supposta cugina a ritrovarsi una rotonda teutonica visitatrice alla porta, che porta in dono un vassoio di cassatelle e cannoli, per rompere la diffidenza e cominciare la condivisione dei ricordi. Good luck, forse è più giusto per lei.

 

VI.

Ho passato qualche giorno là dentro. Dopo che anche l’americano se n’è andato, sono rimasta sola, a inseguire false piste, senza ricavarne molto di più di ciò che già sapevo, che il cognome di mia madre è diffusissimo. Quando mi ha chiamato mio marito per dirmi che era riuscito ad ottenere dei giorni di ferie e che aveva intenzione di venire da me, ho fatto fatica a non infrangere il suo entusiasmo. “Andiamo al mare, vedrai, stiamo finalmente un poco insieme”. Ma come dirgli la mia delusione perché ancora non ho trovato nulla? Può questa ricerca nella sabbia del fondale essere più importante del mio presente? No, certo che no, mi ripeto.

Nel cuscus di pesce mi riprendo. Poi grillo. Calici a volontà, uno in ogni angolo del paese, una volta alla marina, una volta sul corso. A vent’anni non ne avrei goduto così.

La mia ricerca si svolge pure fuori dall’archivio, in questi sapori, come potessero le mie papille gustative confermare il “Che buono, France’” dei miei nonni, come potessi ora dopo tanti anni capire perfettamente quello che intendevano. Mangio voracemente: con la lingua voglio riconoscere il mio passato. E lo sto trovando, evidentemente, anche a prescindere dai dati d’archivio.

Che comunque, proprio quando avevo smesso di crederci, spuntano fuori. Ecco, bastava scostare una pietra, frugare tra le posidonie, non farsi trarre in inganno dai colori dei pesci.

“Sposati nella Matrice. 1925. Figlio di… Figlia di… 28 marzo1928 Giovanna…” Sì, trovata la chiave la ricerca diventa facile. E quella è sicuramente la data di nascita di mia madre.

Scopro che altri sono partiti. Fratelli, sorelle dei miei nonni. Non li troverò mai. Qualcuno è morto giovane. Può essere che sia seppellito qui. Come i genitori di mio nonno… Così dicono le carte. Di quelli di mia nonna non trovo notizie.

A questo punto ho delle strade da andare a visitare. Indirizzi che appartengono ormai a qualcun altro, ma poco importa. Le case le avranno abbattute, ci avranno costruito monolocali per turisti. Così vicino al mare… Non busserò, non mi sembra il caso.

 

VII.

Una folla di anime. A guardare il mare. Così in un sol colpo se ne vanno via i decenni di studio, il lavoro, la pratica sulle cellule e i microscopi: non ha più alcun senso la razionalità, il metodo della scienza, la materia non conta, o conta solo per lo spirito che le sta dentro… Mi si incrinano le certezze. E penso che non si poteva progettare un cimitero più splendido di questo, che permette agli spiriti dei pescatori – ma pure agli altri, si intende – di ficcare per sempre gli occhi, anzi no, piuttosto il loro ricordo di occhi, nelle acque azzurre, dall’alto. Esisteranno ancora i sensi dopo la morte? Sentiremo ancora qualcosa? Una carezza, un tocco, l’odore delle pesche mature, messe in vendita al banco del sabato appena dietro ai fiori per i morti, o quello dei mazzi di origano, il sapore del tonno e dei pistacchi e del tonno con i pistacchi, il richiamo come un pianto di bambino dei gabbiani in certe ore del giorno… E la pioggia, penso, la pioggia la sentiremo ancora, la desidereremo sempre, soprattutto quando c’è questo caldo che grava addosso come un lenzuolo di piombo, per saltarci dentro, rinfrescarci i pensieri, la pioggia sul mare… Voi, tutti quanti, che state qua, seduti a guardare per sempre, cosa sentite?

E cosa sentono i morti tra le onde, pure quelli scomparsi a Lampedusa – 369 dice l’articolo in rete, venendo in soccorso della memoria, 3 6 9 ripeto sussurrando – e qui in parte sepolti, pure se alcune lapidi non dichiarano data di nascita, luogo, neppure un nome… Resto davanti al campo, allo spazio squadrato, pensando al gomitolo di disperazione che deve spingere una creatura a lasciare quello che ha, pure se è poco, per andare senza sapere bene dove. Sprofondo in sequenze di tempo passato, mutamenti su mutamenti e genti su genti. Poi mi scuote il frullo d’ali di un passero.

Le tombe che cerco non esistono più. Il cimitero però continua a preservare pure la loro memoria. In ogni caso non dovevano essere molto diverse da quelle davanti a cui mi fermo, devota, come davanti ad un santo, crepate dagli agenti atmosferici. O la pietra si è spaccata per far spuntare l’erba? Distribuisco fiori a chi non conosco: è come se li lasciassi ai miei antenati, ma anche a quelli che sono venuti prima di loro, memoria persa nel tempo, tutti sciolti, dissolti, polvere al vento e depositati nella terra, diventati anzi terra, ma pure aria, spirito che canta. Se no, perché sentirei questo sospiro così vicino alle tempie, questo alito caldo, più umano del vento?

foto mia per LMS

Biografia: Ada Bellanova insegna lettere in un liceo di Siena.  Scrive narrativa e si occupa di critica letteraria. Si interessa della permanenza del mondo antico nel contemporaneo, della percezione dei luoghi, della memoria e dell’identità. Diversi i suoi articoli apparsi su riviste specialistiche (“Semicerchio”, “Futuro classico”, “Levia Gravia” ecc.).  Già studiosa di Borges e della presenza dei classici antichi nel labirinto, da quattro anni si occupa della rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, con particolare attenzione per l’ecologia e per la questione Mediterraneo. È in corso la pubblicazione di una sua monografia sull’argomento per Mimesis edizioni. Nel 2010 esce la sua raccolta di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo. Papamusc’ è il suo romanzo del 2016. Con alcuni passi di questo lavoro ha partecipato all’iniziativa Sussurri, tra arte e letteratura, proposta a Siena da Michela Eremita (Santa Maria della Scala di Siena).  Ama la natura, la/e cultura/e. Crede nella forza dei passi lenti e nella creatività del pensiero e delle mani.

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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