Immaginazione e migrazione, il lavoro pionieristico di Simona Miceli in “Un posto nel mondo. Donne migranti e pratiche di scrittura”

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Un posto nel mondo. Donne migranti e pratiche di scrittura

Simona Miceli, con prefazione di Paolo Jedlowski. Luigi Pellegrini Editore 2019

 

AVVERTENZA: recensione in cui emerge il posizionamento della recensora o recensitrice che dir si voglia, dovrete sopportare la sua voce fuori campo che narra anche di fatti suoi…

 

Il libro di Simona Miceli “Un posto nel mondo. Donne migranti e pratiche di scrittura”, mi è arrivato come dono, da parte dell’autrice che voleva farmi sapere com’era poi finita, ricordandomi che alcuni anni fa le avevo dato informazioni su quelle che all’epoca erano chiamate “scrittrici migranti” e fornito qualche indirizzo per contattarle. Già a leggere le prime pagine mi sono commossa perché finalmente vedevo mettere in pratica antidoti a quelle che consideravo carenze nel modo di affrontare le creazioni dell’immaginario di scrittori e scrittrici venuti da altrove. Problemi di immaginario e di narrazione, di cadute in quelle che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie chiama ’the single story”, spesso relegata a un’ottica di vittimismo. Infatti, personalmente dal 2006 al 2012 avevo trovato rifugio e accettazione nella schiera dei cosiddetti “scrittori e scrittrici della migrazione” dopo diversi anni di incomprensioni e delusioni affrontate nel tentativo di interloquire con il mondo letterario italiano, inchiodato ai Beat nel loro modo di interagire con me percepita come ‘americana’ e non trovando nessuna nicchia per scrittori e scrittrici “del ritorno”. Sono commossa e davvero grata che sia stata una giovane sociologa a fare questo salto qualitativo dalla sua sede dell’Università della Calabria, affrontando la questione della narrazione e dell’immaginario di queste quindici scrittrici sulla base di estese interviste, non tanto sul contenuto e la struttura dei loro libri ma sulla loro esperienza di scrittura e di immaginario, di pratiche di scrittura che possono essere diversissime tra di loro. Combinando quindi una sociologia del materiale con quella dell’immaginario ed evitando i gorghi dell’uso della sociologia come metodo adatto a una narrativa biografica e minore rispetto a quella egemonica. Provenienti da altrovi molto diversi tra di loro, e molto disomogenee per età – nate dal 1938 al 1985, esperienze di nazionalità, classe,  vita,  razzializzazione queste autrici hanno per una trentina di anni tentato di farsi valere in un territorio editoriale e sociale chiaramente ostile e denigratorio preparando il terreno per l’emergere di scrittrici  che rivendicano senza esitazione  la loro capacità di agire in qualità di scrittrici con voce propria, creando reti per rafforzarsi a vicenda come fanno oggi per esempio  quelle comprese nell’antologia “Future”a cura di Igiaba Scego lanciata appena qualche settimana fa. Qui sarebbe bello fare una riflessione anche sul ruolo della tecnologia e dei social che permette a queste scrittrici delle generazioni più giovani e con status migratorio forse diverso di rafforzarsi come gruppo.

Nella corposa prima parte del libro dedicata alla metodologia con le quali sono state condotte le interviste che fanno da base al libro, salta subito all’occhio il fatto che la studiosa  riconosca che nello svolgimento delle sue interviste e della sua analisi la sua non è una posizione neutra, né universale (e sull’universalismo dell’occhio europeo come ben sapete si possono scrivere intere enciclopedie, specialmente oggi  quando vi è un gran da fare per creare modelli di intercultura, meticciati e racconti collettivi spesso basati sull’idea di un’eccezionalità dell’esperienza italiana, che nel paese vi siano le basi per  avversare il razzismo  in modo diverso da come è stato fatto in altre nazioni). Non a caso intitola il suo secondo capitolo “2. La ricerca: una pratica situata e riflessiva” in cui sviscera la non neutralità di chi intervista, la sua ‘posizionalità’ nazionale, di genere, di cultura, età,  di etnicità rispetto a chi viene intervistata. E lo fa servendosi degli strumenti critici più aggiornati elaborati a livello internazionale, non cadendo nella trappola di considerare l’Italia laboratorio di una qualche eccezionalità rispetto al mondo del razzismo, della xenofobia, dell’ignoranza. Lo fa lasciando il racconto alle intervistate e non sovrapponendo la sua voce alla loro. Al che mi taccio, smettendo di sovrapporre la mia voce a quella che si manifesta nel libro e ne offro qualche estratto, sperando serva da stimolo a leggerlo nella sua interezza:

“L’Europa postcoloniale è oggi attraversata da una tensione ineliminabile tra il rischio della chiusura e l’opportunità del decentramento, due opzioni rispetto alle quali le migrazioni rappresentano un laboratorio cruciale e si configurano come cifra costitutiva della contemporaneità: Più gente che mai considera normale immaginare la possibilità, per se stessi o per i propri figli, di vivere e lavorare in posti diversi da quelli in cui sono nati. […] Possiamo parlare di diaspore della speranza, diaspore del terrore e diaspore della disperazione. Ma in ogni caso queste diaspore si caricano della forza dell’immaginazione, sia come memoria che come desiderio, nel le vite di molta gente comune (Appadurai 1996, tr. it. 2001, pp. 19-20).

[…] Nel legame tra immaginazione e migrazione, ovvero nel fatto che la migrazione sia immaginata da sempre più persone come potenzialità che può attraversare il proprio percorso biografico, Appadurai individua uno dei tratti essenziali del tempo presente e dello spazio globale. I fenomeni migratori, del resto, non sono soltanto esperienze individuali; sono anche un fatto sociale totale, in quanto modificano in modo sostanziale il volto delle società di origine e di destinazione (Sayad 1999), destrutturandone e riarticolandone costantemente elementi politici, economici, sociali e culturali. *

E le migrazioni sono o oggi un tema estremamente quotidiano. Se ne parla nei media tradizionali e nei social media: vengono raccontate storie, episodi, fatti di cronaca, accompagnati da opinioni e giudizi personali. Molte campagne elettorali in Europa si giocano intorno a questo tema. E sono anche, sempre più frequentemente, oggetto di conversazioni ordinarie. Il lessico prevalente attraverso il quale se ne parla sembra essere quello della problematicità e della conflittualità. Il tema è attraversato da una serie di pregiudizi e narrazioni egemoniche che, pur costruendo immagini spesso agli antipodi, che spaziano dalla vittimizzazione alla minacciosità, portano ad un comune risultato: privano coloro che ne sono oggetto della singolarità della loro storia di vita.

In questo rumoroso confondersi di voci, opinioni e prese di posizione si avverte però un silenzio importante: la voce dei migranti appare assente. Si tratta di un silenzio effettivo? È possibile che il “rumore” intorno alla questione “migrazioni” riduca la capacità di ascoltare le storie di chi migra? A partire da queste domande ho scelto di articolare la ricerca che questo volume presenta intorno al nesso tra migrazione narrazione, nell’idea che sia urgente e necessario interrogarci in maniera sempre più approfondita sulle sfide sociali e politiche nonché epistemologiche e cognitive che i fenomeni migratori pongono alle società in cui viviamo.

 

Ecco le scrittrici che sono state intervistate con l’anno di nascita e provenienza nazionale:  Elvira Mujčić (1980, Bosnia),  Vesna Stanić  (1946 Croazia), Laila Wadia  (1966 India), Kaha Mohamed Aden (1966 Somalia),  Marinette Pendola (1950 Tunisia, origini italiane), Rosana Crispim da Costa (1966 Brasile),  Livia Bazu (1978 Romania), Ornela Vorpsi (1968 Albania),  Rahma Nur (1963 Somalia), Ingy Mubiayi (1972 Egitto/Congo),  Shirin Ramzanali Fazel (1953 Somalia),  Ruska Jorjoliani (1985 Georgia), Candelaria Romero (1973 Argentina),  Erminia dell’Oro (1938 Eritrea, origini italiane),  Simone Silva (1969 Brasile)

Un gruppo davvero ricco di esperienze  diverse e di talento, nel dipanarsi dei loro racconti nel corso delle interviste si acquista almeno un’infarinatura del loro contributo alla letteratura in lingua italiana e alla riflessione su  migrazione, immaginario e pratiche di scrittura. Un libro da acquistare e leggere assolutamente.

 

 

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Simona Miceli ha conseguito il dottorato di ricerca in studi Internazionali presso l’Università di Napoli “L’Orientale” ed è cultore della materia in Sociologia dei processi culturali nel dipartimento di Scienze politiche dell’Università della Calabria. I suoi interessi di studio riguardano le migrazioni contemporanee, i processi di soggettivazione, vecchie nuove forme di razzismo.Tra le sue pubblicazioni, la capacità di aspirare. Immagini di futuro di figli e figlie di migranti a Reggio Calabria (Cambio rivista sulle trasformazioni sociali 8/2014)

 



									

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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