Il viaggio di Angela, tratto da “L’erba di vento” di Marinette Pendola (ed. Arkadia, 2016)

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Capitolo 13

Facciamo come dice lui. Comincio a bere tisane di basilico e a preparare il baule, non quello grande, uno piccolo, perché non si può portare tutto. Ci metto dentro un po’ di biancheria, un po’ di abiti e qualche barattolo con le erbe secche perché non sappiamo quello che troveremo là. Una mattina, prima dello spuntare del sole, chiudiamo casa e partiamo per Marsala. Non andiamo a Palermo, non abbiamo passaporti. Lui dice che, a preparare i documenti, i tempi si sarebbero allungati troppo e saremmo partiti in pieno inverno, con il mare grosso e il rischio di non arrivare mai. A Marsala vedo il mare. Arriva fino all’orizzonte, è azzurro e si fa nero appena scende la sera. Man mano che la notte si fa fonda, arriva altra gente. Dormiamo su una spiaggia un po’ lontana dal paese, avvolti in una coperta. Siamo sfiniti dai lunghi giorni di viaggio a piedi. Al primo chiarore dell’alba, ci svegliano e ci fanno salire sulle barche. Mastro Filippo mi dà da bere un liquore forte e amaro. Vedo allontanarsi la costa ma non m’importa. Non ho voglia di niente. Mi addormento quasi subito. Non so che cosa succede dopo, se la barca tira dritto fino all’altra costa, se si ferma in mezzo al mare, se rimane con le altre barche o si separa subito. Mi tormenta nel sonno solo la nausea che rimescola di tanto in tanto il mio stomaco. Forse mi lamento, non lo so. Ho solo il vago ricordo della voce di mastro Filippo che mi calma e m’invita a bere quell’orribile liquore. Brividi di freddo ogni tanto mi prendono e, come in una sorta di nebbia, sento le mie mani prendere la coperta e stringerla intorno al collo. All’improvviso, uno scossone mi sveglia. Sono intontita. Apro gli occhi, giusto il tempo di guardarmi intorno. È di nuovo notte e davanti a noi s’innalzano scogliere aspre. Richiudo gli occhi, ho ancora voglia di dormire.

 

«Avanti, avanti!» sento vociare da qualcuno mentre mi strattona «È ora di scendere.»

Vorrei urlare. Non faccio in tempo. In un lampo, mastro Filippo mi prende per la vita e mi mette fuori dalla barca. Sono immersa fino all’inguine. L’acqua fredda mi sveglia completamente. La gonna si gonfia intorno a me. Mi aggrappo alla barca. Temo di scivolare fra i ciottoli del fondale e di essere risucchiata in una voragine senza fine da dove non vedrò più la luce del sole. Mastro Filippo scende tranquillo, si carica il baule in spalla e si volta verso di me. Sto tremando come una foglia appena spuntata. Lui mi stringe a sé con forza. Io stringo i denti. Percorriamo così i pochi metri che ci separano dalla spiaggetta. Seguiamo gli altri che risalgono il viottolo fino in cima alla scogliera. Qualcuno dice che più avanti ci sono delle grotte dove potremo passare la notte. Ci incamminiamo tutti quanti insieme seguendo l’uomo che ci ha indicato il riparo sicuro. Il silenzio assoluto è appena interrotto dallo scricchiolio dei nostri passi sul terreno aspro. La grotta dove ci infiliamo è a forma di cupola con una piccola apertura in alto. Ci avvolgiamo nelle coperte e cerchiamo di dormire buttandoci in un angolo in disparte. Sento freddo. La gonna, le calze, le mutande sono bagnate. Mastro Filippo mi aiuta a cambiarle. Non posso dormire. Ogni fruscio mi fa sobbalzare. Vorrei non ascoltare. Cerco di perdermi nei miei pensieri. Rifaccio con la mente tutto il percorso a cominciare dal bauletto riempito man mano. Rivedo l’ultima sera in paese, con la mamma che scoppia in singhiozzi come di fronte ai nostri cadaveri. Meglio non pensare a lei ora, meglio cercare di chiudere occhio. Verso l’alba, un uomo si alza ed esce dalla grotta. Torna dopo un po’ con un fascio di rametti, accende un fuoco, mette a scaldare dell’acqua e prepara un caffè. Me ne dà una tazza che condivido con mastro Filippo. Quell’uomo sembra conoscere i luoghi. Ci consiglia di sparpagliarci per non destare curiosità negli abitanti e nelle autorità di questo paese. A lui mastro Filippo chiede come fare per arrivare a Bir Halima. Ci indica la strada per Grombalia. Là qualcuno potrà forse informarci meglio.

Partiamo presto, prima ancora che il sole sia alto. Un’altra coppia va a Grombalia e ci tiene compagnia. Camminiamo lontano dalle strade asfaltate, prendendo per le trazzere lungo i campi. In questa zona ci sono alberi, alcuni belli alti, altri ancora piccoli. Ci sono anche campi lavorati e lunghe siepi di fichidindia. Come da noi. È quasi la fine dell’estate e l’erba è bruciata. Lungo i fossati, gli steli dei cardi sono appesantiti da lumachine bianche. La mia compagna di viaggio comincia a raccoglierle e a metterle in un fazzoletto.

«Stasera le mangeremo. Forza, dammi una mano.» mi dice.

Così mi fermo anch’io a raccogliere lumachine. Gli uomini si siedono e tirano fuori il pane e un coltello. Mangiamo un paio di fette di pane e beviamo qualche sorso d’acqua. Ci riposiamo all’ombra di un grande eucalipto. Fa molto caldo.

«Aspettiamo che la calura scenda un po’.» dice mastro Filippo. «Poi ripartiremo.»

Riprendiamo il cammino quando le ombre cominciano ad allungarsi. Verso il tramonto ci inoltriamo nella boscaglia in direzione del mare che sentiamo in lontananza. Arriviamo a una spiaggia. Mi lascio cadere sulla sabbia. Sono esausta. Mi fanno male i piedi. Le scarpe si sono indurite con l’acqua di mare. Me le tolgo a fatica, poi mi sfilo le calze. Ho i piedi in sangue. La mia compagna si siede accanto a me e comincia a rovistare nel suo borsone. Tira fuori un tegame che contiene vari indumenti, – calze e mutande arrotolate con cura, così mi sembra di vedere – lo svuota con calma. Gli uomini raccolgono degli sterpi e accendono un fuoco. La donna riempie il tegame con acqua di mare e fa bollire le lumachine. Ceniamo, accompagnando le lumachine con del pane. Poi mastro Filippo apre il bauletto, prende un unguento e lo spalma sulle piaghe dei miei piedi. Cura anche gli altri e alla fine se stesso. Dormiamo sulla spiaggia avvolti nelle coperte, come a Marsala. Grombalia è ancora lontana.

 

La mattina ci svegliamo molto presto. Non abbiamo caffè e beviamo un po’ d’acqua. Il pane, lo risparmiamo. Non sappiamo ancora quant’è lungo il viaggio. Riprendiamo il cammino inoltrandoci nel letto di un fiume secco. A un certo punto, cominciamo a sentire voci e risate che man mano si fanno sempre più vicine. Arriviamo a una fontana. Ci sono donne che riempiono brocche di coccio e ragazzini con greggi che aspettano tranquilli. Salutiamo con un cenno del capo e ci sediamo su un grosso sasso nell’attesa del nostro turno. È la prima volta che incontriamo i mori. Le donne portano uno strano vestito, una stoffa blu con righe rosse avvolta intorno al corpo a formare una gonna con pieghe abbondanti trattenute da una cintura di grossi fili di lana colorati. Sul petto la stoffa forma un corpetto legato con due fermagli ai lati delle spalle. Hanno orecchini d’argento a cerchio che pendono fino a toccare quasi le spalle, e piccoli disegni blu sulla fronte, sulle guance e sul mento. Qualcuna porta una sorta di braccialetto a una caviglia, ma sono tutte scalze come i pastorelli appena coperti di braghe e camicie cenciose. Una si rivolge a noi. Il gesto che accompagna le parole ci aiuta a capire. La donna c’invita a prendere l’acqua mentre tutte le altre si scostano. Ringraziamo con un gesto del capo. Poi a turno beviamo e, alla fine, riempiamo le bottiglie. Mastro Filippo si rivolge alla donna:

«Grombalia?»

La donna ci sommerge di parole accompagnandole da gesti che ci permettono di orientarci verso la direzione giusta. Riprendiamo il cammino. Come il giorno precedente, ci fermiamo nelle ore più calde. Entriamo in paese quando ormai è buio. I nostri compagni di viaggio ci invitano a seguirli dai loro parenti.

Possiamo finalmente lavarci e sederci a tavola come cristiani. La padrona di casa ha preparato un’insalata con pomodori, peperoni, cipolle e olive nere. Ci ha messo anche fettine di cetriolo che ha chiamato faccùso. Il pane è fresco e morbido e lo inzuppo nel condimento. È la cena migliore che possa sperare. Poi la donna mette dei materassi per terra in cucina e lì dormo con mastro Filippo.

 

 

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Marinette Pendola è nata a Tunisi da genitori di lontana origine siciliana e dalla sua infanzia prende spunto il suo primo romanzo La riva lontana, Sellerio, 2000. È studiosa della storia, degli usi e costumi della comunità italiana di Tunisia. In questo ambito ha approfondito alcuni temi come la lingua, l’alimentazione, il lavoro dei contadini siciliani. Ha curato L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi, 2006. E’ autrice de Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), 2007. I suoi romanzi La traversata del deserto (2014) e L’erba di vento (2016) sono pubblicati da Arkadia Ed. Vive a Bologna.

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autrice a cura di Marinette Pendola.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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