«Oh quanta sete delle tue parole ha il mondo infernale che abbiamo costruito»
Dopo il felice esito di Dance on the tree (Premio migliore spettacolo al Festival Internazionale delle Abilità Differenti di Correggio, 2018), la compagnia di teatro integrato Magnifico Teatrino Erranteprosegue con la produzione del secondo spettacolo della Trilogia della Disobbedienza, questa volta ispirato alla tragedia classica dell’Antigone di Sofocle.
Torna in chiave contemporanea, dunque, uno dei massimi capolavori della cultura greca, che si riallaccia al ciclo tebano di Edipo: questo testo teatrale, oltre a offrire una serie di variazioni costanti del mito nel corso dei secoli, in particolare nel Novecento con Bertold Brecht e Jean Anouilh, continua ad essere al centro di alcune riflessioni filosofiche, politiche, sociali, religiose e umane.
La produzione di Valeria Nasci, regista della compagnia teatrale composta da attori e attrici disabili e non, continua il racconto dell’Antigone con pratiche sceniche che non sono più quelle fisse della forma classica antica: ciò che è portato in scena è una ritualità propria delle culture indigene e popolari, che hanno un rapporto magico e ancestrale con la natura e con ogni forma di vita.
Il racconto, che si affida ai versi poetici di Elena Cesari e Roberta Sireno, si muove su diversi livelli espressivi che spaziano dall’ironicoal comico, dal tragico al poetico.
L’intensità drammaturgica dell’Antigone del Magnifico Teatrino Errante, in particolare nella poetica di Roberta Sireno, si ispira principalmente al lavoro di scrittura scenica del Caino di Mariangela Gualtieri (Einaudi, 2011) e al suo studio sui testi biblici.
Lo straniamento è invece dato da un’Antigone che è, in realtà, un pupazzo, realizzato dalle mani di Mariateresa Diomedes: si tratta di una figura antropomorfa che incarna lo spirito nascosto di chi vuole disobbedire a quegli ordini o sistemi di governo che razionalizzano ciò che è spontaneo e naturale.
La scena iniziale vede, infatti, un Coro impegnato in una ricerca allegra e caotica di una ragazza, di cui non si sa nulla, eppure qualcuno ha detto che bisogna cercarla, per far rivivere una storia importante. La tragedia originale è così capovolta: qualcosa è già successo, ed è importante che questa storia venga alla luce.
Il Coro, guidato da un misterioso Oracolo, alla fine decide di cercare questa ragazza nelle profondità della terra. Lo spettacolo precipita in una sorta di mondo «infernale», da cui all’improvviso emergono sia un pupazzo che la voce oscura di una donna, che prende parola e informa il Coro di essere «la voce che accompagna ogni esiliato»:
«Chi mi scuote, chi mi risveglia, chi? Lasciatemi ancora qui
in questo buco della terra: è buio
è sempre buio – e mescolando
il vostro sangue al mio entrate nel mistero di me nascosta. […]»
L’incantesimo e il pathos della scena, che trasmettono echi e richiami di un lontano oltretomba, sono all’improvviso interrotti dalle percussioni ritmiche del gruppo musicale Corretto Samba: lo spettacolo prende una piega diversa, ci riporta a un presente comico e allegro, dove appaiono i personaggi principali di questa storia, impegnati in una fervida discussione sul significato delle leggi e della giustizia.
Interviene, quindi, un dialogo animato, in particolare tra la misteriosa ragazza e lo zio: sono più importanti le leggi umane dei governi che danno ordine e civiltà, oppure quelle naturali che scaturiscono dalla spontaneità del cuore?
Ma i sistemi di governo, in realtà, sono basati spesso sul potere, e portano corruzione e oppressione. Il Coro, che è forse il vero protagonista dello spettacolo, ribadisce con fermezza questa affermazione, avanzando con le mani imbrattate di terra, e portando lo spettacolo verso il finale:
«Questo dico, non si può nascondere ciò che più al cuore preme nell’incendio delle sere
quando il cielo si rabbuia
e solo le costellazioni stanno
come piccoli fuochi accesi
questo dico, non si può nascondere il profumo della tua pelle, la lingua e la parola
che non conosce il governo […]»
Il Coro, dunque, si fa organismo in cui le singole individualità si ibridano, si trasmutano in un unico caleidoscopico essere ed esplodono fuori di sé, protese verso il pubblico, quasi a volerlo rapire e assimilarlo.
Il nome che si grida nel finale, quando si scopre che la ragazza si chiama Antigone, è in realtà nascosto dentro ciascun individuo del Coro. Antigone, dunque, perché, appunto, è quella «parola che non conosce il governo», e che scaturisce dalle profondità dello spirito e dell’essere.
Ed è per questo che occorre ed è necessario «gridare il suo nome»: metafora dell’amore e della sua gioiosa disobbedienza nei confronti di ciò che può bloccare o oscurare le molteplicità e le infinite sfumature dell’esistenza, Antigone è lingua poetica e teatro dell’alterità, dove per alterità si intende ciò che si sottrae a ogni forma di definizione e categorizzazione, per risaltare, appunto, la ricchezza delle differenze:
« […] voi ora nudi
nello splendore: reinventate la città e abbiate il coraggio del respiro e dell’immenso
che senza amore si fa deforme*»
Che significato possono avere nella situazione odierna queste parole pronunciate da una compagnia di attrici e attori con diverse abilità?
Non si tratta solamente di un’esortazione a riscrivere le leggi spesso ingiuste che governano la società contemporanea nella quale viviamo, ma indicano allo spettatore anche una possibile e auspicabile direzione da seguire, cioè quella del «respiro e dell’immenso», che ha come frontiera l’amore.
L’amore, declinato poeticamente, è posto a custode della vita e delle relazioni fra gli esseri viventi, unico antidoto alla ‘deformità’ della dittatura. Ma, infine, grazie alla polisemia del teatro, queste parole possono essere interpretate anche come un inno alla potenza della vita, che vanifica ogni tentativo di definire e separare ciò che è normale da ciò che non lo è, ciò che è deforme da ciò che non lo è.
Chi sa dire chi è, allora, Antigone?
*da Caino (Einaudi, 2011, p.103) di M. Gualtieri: “Cara notte che nascondi quel che siamo – / uno sputo impastato di fango / che senza amore si fa deforme. Il verso è ripreso da Roberta Sireno, che ha conosciuto da vicino la drammaturgia del Teatro Valdoca.
Ripubblicato per gentile concessione delle autrici. La prima pubblicazione dell’articolo è stata nel sito del Magnifico Teatrino Errante e le foto provengono dal sito.