Il sogno infranto (Aldo Penna)

meridiana

 

Nell’estate del 2013, a poco meno di anno dalla sua elezione a Presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta fu invitato a una manifestazione in memoria di Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dai mafiosi il 29 agosto del 1991 perché si rifiutava di pagare il ‘pizzo’. Per evitare ritualità e tentare di lasciare il segno fu letta in sua presenza una lettera che, tra l’altro, ricordava l’isolamento di Libero Grassi: “Ma andando ancora più indietro guarderemo in faccia quanti, nei mesi precedenti, lo lasciarono solo. I suoi colleghi industriali, disturbati dal chiasso mediatico sollevato dalle sue parole. Abituati a compromettersi e ai compromessi, non tolleravano chi, platealmente, ricordava che si può dire no. Ai giornalisti che pur gli diedero voce, ma spesso misero in dubbio la sua forza e la sua decisione. A quanti interessati all’audience non si preoccuparono di metterlo a rischio di vita. A quelle banche che, dopo la sua denuncia, lo percepirono come un morto che cammina e come a un morto negarono credito. Alle istituzioni del tempo, assenti al momento della denuncia, e in parata davanti alla bara”.

Crocetta annuiva convinto e partecipe. Forse ricordava le sue difficoltà di sindaco di Gela, i rischi, la solitudine, le ipocrisie, le solidarietà pelose.

La lettera proseguiva:

“E Palermo da capitale della mafia si è trasfigurata, divenendo capitale della resistenza alla mafia. Una lotta per decenni combattuta dagli uomini dello Stato si è fatta resistenza diffusa. Piccoli e grandi imprenditori che subiscono richieste estorsive hanno oggi una scelta in più: denunciare e associarsi. Sanno che la rete di protezione è forte ed efficace, che la solitudine di Libero è un ricordo lontano, quasi una crocefissione per la rinascita. Agli uomini delle istituzioni che si sono affollati in via Alfieri chiediamo che invece di un fiore depongano la loro azione di lotta per la libertà. Il fatto concreto che cambia e muta in meglio le vite, che Libero con tutto se stesso non cessò mai di pretendere e cercare”.

Crocetta sollevò il viso, guardò in direzione di chi leggeva e forse pensava ancora a se stesso al suo mutamento. Adesso non era più il valoroso sindaco di Gela, adesso era il Presidente, la massima autorità politica amministrativa di una terra che ha gli stessi abitanti di alcuni Stati. Adesso Rosario Crocetta, finalmente, poteva trasformare, una terra non docile, restia ai maestri, riluttante ai condottieri, ma pronta al plauso. E seppure la sua vittoria non era stata travolgente, nella disfida era stato abile e ben tre grandi avversari erano caduti. Seduto dunque su quel palco estivo, chiamato a ricordare e commemorare, il Presidente ascoltò un appello rivolto direttamente a lui.

“In memoria di Libero il Consiglio comunale di Palermo ha scelto di intitolare il parco di Acqua dei Corsari a Libero Grassi. L’opera è ferma, bloccata dai soliti, incomprensibili ritardi burocratici degli uffici regionali. Il Presidente Crocetta chiami il suo ufficio periferico e consenta a questo Parco di offrirsi alla città. E’ uomo deciso, in memoria di Libero compia un atto semplice e rivoluzionario. E’ una buona azione per la libertà, costa solo un’energica telefonata. Presidente, la faccia”.

L’appello si riferiva all’opera di risanamento dell’enorme discarica dei materiali di risulta del “Sacco” di Palermo che si trova nella parte orientale della città, lungo la costa. Un risanamento iniziato nel 2005 e concluso nel 2009. Al posto della gigantesca collina di terra che aveva modificato la morfologia della costa sud era stato realizzato un Parco a mare con tanto di anfiteatro in pietra, camminamenti pedonali, boschetti e vedute panoramiche.

Anche questa volta Crocetta annuì interessato. Quel ruolo gli dava grande potere, l’immobile Sicilia, terra dei rinvii, poteva ricevere una sferzata da un uomo mai sfiorato dagli scandali e immune alla corruzione.

Trasse dalla tasca un piccolo taccuino, vi scrisse qualche frase e tornò a guardare la platea che ogni anno si radunava per ricordare Libero Grassi.

Gli occhi a fessura dietro le lenti, Rosario cercava l’ispirazione per una delle frasi a effetto che lo avevano reso celebre. A Gela, terra omertosa, aveva gridato ai quattro venti la sua diversità, la sua distanza dai predecessori e, a suo modo perfino la mafia locale, chiamata sempre in causa nelle sue denunce, lo rispettava.

Quella sera doveva essere a corto di ispirazione, la trovata a effetto non arrivò e l’intervento si svolse con i vecchi arnesi della retorica. Amava gli sguardi smarriti, disorientati dal suo modo di procedere, gli piaceva sparigliare le coscienze addormentate, ma quella sera colse nella platea qualche sbadiglio annoiato e in se stesso una preoccupante assuefazione.

Davvero gli interessavano quegli incontri? Libero Grassi era morto da tanti anni, un duro colpo per tutti, ma adesso, ventidue anni dopo, si stava scivolando nella celebrazione retorica, vuota e senza frutti.

I suoi collaboratori nelle prime file lo guardarono preoccupati. Era la terza volta che Saro smarriva l’ispirazione. L’estro e l’imprevedibilità lo avevano condotto lontano, ma adesso sembrava perduto e avvilito.

Adorava rifugiarsi tra gli amici cari e fidati, ma il nuovo ruolo lo costringeva a frequentare burocrati e collaboratori in molti casi scelti da altri.

Alcuni di loro avevano servito sotto altri Presidenti ma aveva acconsentito convinto che i suoi amici, più esperti di burocrazia, volessero preservarlo dalle brutte figure che un generale azzeramento dei vertici poteva provocare. Governava da pochi mesi dentro un Palazzo fortezza sede di antichi regni. Si era sentito così leggero e appagato durante la sua proclamazione. Il primo presidente di sinistra eletto direttamente dal popolo, un nome che sarebbe stato inciso negli annali di Palazzo, un nome della storia. Eppure svaniti i fumi della celebrazione, era cominciata la dura vita di Presidente. Davanti alla sede dei suoi uffici sostava stabilmente la protesta, migliaia di persone abituate a ricevere adesso andavano via a mani vuote. Gruppi di deputati con l’elenco di richieste impossibili affollavano la sua segreteria. I burocrati, pagati come grandi manager, disprezzavano tutti i loro inferiori per reddito e coglieva nei loro volti l’alternarsi di genuflessione interessata e sincero spregio.

 

Durante la campagna elettorale aveva stilato un programma che prometteva di cambiare la Sicilia restituendola a un destino di grandezza. Nove mesi dopo si accorgeva che stava cambiando lui.

Il Parlamento era un covo di lupi, nei primi mesi in tanti erano accorsi attorno al vincitore e ora praticavano il ricatto e tramavano l’affondo per disarcionarlo.

La sua testa era un turbine di nuove idee, ma la traduzione in atti e in fatti era sempre una terribile traversia. Così in pochi mesi il suo entusiasmo si era spento, la sua creatività appassita e anche l’estro retorico, quello maggiormente notato dai suoi collaboratori, aveva subito una caduta rovinosa.

 

 

L’autista gli aprì la porta della blindata. Lui sprofondò sugli accoglienti sedili e apprezzò il soffio gelido dell’aria condizionata. Aveva il viso umido di sudore, le giacche che come una divisa occorre cucirsi addosso, nelle calde estati divengono oppressive come un cilicio di penitenza.

 

La macchina partì lenta, di notte gli piaceva guardare le luci scorrere dietro i vetri. L’aveva sempre vissuta da ospite questa città infedele. Ora costretto a restarvi per più tempo scalpitava reclamando la sua libertà.

 

Ripensò alla lettera che i ragazzi del movimento antiracket gli avevano consegnato per quel parco non realizzato in un angolo della città a lui ignoto, ripensò a Libero Grassi che aveva conosciuto subito dopo le sue denunce, quando per un breve tratto di tempo, prima che lo uccidessero, i media se lo contendevano. Aveva intravisto una nera ombra inseguirlo, la stessa che aveva accompagnato lui come sindaco dopo le sue denunce, ma Libero era solo, indifeso. Aveva respinto la tutela e la scorta e nessuno si era preoccupato di imporgliela.

Da anni si muoveva dentro una blindata, una sicurezza e una prigione. Anche stasera avrebbe avuto voglia di tirare giù i finestrini. Da fuori intravedeva il mare, un odore che amava.

 

Trasse fuori dalla tasca l’appunto di poco prima. I nomi di che avrebbe potuto chiamare, impugnò il telefono, compose il numero, poi attaccò prima che l’altro rispondesse.

La stanchezza distruttiva, ecco qual era oggi la sua vera nemica. Quella stanchezza fiaccante che svuota di ogni energia i buoni propositi e li butta tra le cose vecchie e inutili.

 

Era sempre stato così? No, ricordava l’energia trasbordante che sentiva dentro di se durante gli anni difficili da sindaco, ma adesso che avrebbe avuto bisogno di quella fiamma ardente scopriva dentro un fuoco spento.

E intanto i nemici crescevano, avevano tante facce. Amici diventati spietati cacciatori, avversari che chiedevano asilo, e i grandi burocrati, i veri padroni della Sicilia, che lo manipolavano, lo usavano.

 

Avrebbe voluto dire basta, mandare il tavolo per aria, sorprendere quei visi affettati, quelle borie mal celate che non smettevano di considerarlo un parvenu.

Ma non riusciva. Per quanto dentro sentisse affiorare la rabbia non trovava la forza necessaria per farla uscire dall’intenzione.

La macchina scivolava silenziosa, le luci intorpidirono i suoi occhi e, nonostante cercasse di restare sveglio, il sonno lo catturò.

Al confine tra il sonno e la veglia, Saro ritrovò la forza smarrita e la voglia liquefatta. Vide se stesso entrare nel Palazzo che ospitava i suoi uffici, salutare con allegria gli addetti alla portineria, chiamare i suoi collaboratori e scrivere un rapido elenco.

Spalancò le finestre, voleva aria fresca, si sentiva soffocare. La stessa sensazione che aveva avuto durante quei mesi di governo.

Tutti gli uomini e le donne che i suoi alleati gli avevano messo accanto legandolo con le robuste catene della continuità furono spediti a casa.

Chiamò gente nuova accanto a se, giovani ancora non contaminati dal groviglio di interessi che rendeva impossibile muovere qualcosa in quelle acque paludose che lo stavano sommergendo.

Pensò alle migliaia di poveri che lo guardavano attraverso la sua blindata. Non aveva trovato nulla per loro. I tesori della regione erano tutti a difesa di rendite e privilegi e lui non aveva nessuna chiave. Gli avevano detto che un Presidente non poteva cambiare fatti cementati dalla tradizione, caste tramandate da lunghi decenni.

 

Adesso poteva, dentro sentiva l’ardimento della sua giovinezza. Avrebbe istituito il salario minimo per tutti, avrebbe restituito il sorriso a chi lo aveva smarrito. E se questo significava cacciare i mercanti da quel palazzo lo avrebbe fatto. E anche la sua disgraziata città, deturpata dall’inquinamento con nati deformi e aborti diffusi per i fumi velenosi l’avrebbe resa una città pulita. E la mafia, gli uomini che lo avevano intimidito e minacciato…senza la rete di protezioni dentro il Palazzo erano ben poco pericolosi e la loro tracotanza si sarebbe infranta e dissolta.

 

“Siamo arrivati, Presidente”.

Saro aprì gli occhi. L’armatura scintillante di cui si sentiva rivestito gli scivolò a terra con un sinistro rumore. Sentì freddo, forse aveva ecceduto con l’aria condizionata.

Regalò un grugnito agli addetti alla portineria e tirò dritto.

 

I suoi passi attutiti dal tappeto non facevano rumore e sembrava scivolare, quasi invisibile, in direzione del suo ufficio. Aprì la porta, i suoi collaboratori si muovevano come se non vedessero. Sedette alla scrivania dove di solito trovava pile di carte da firmare: era sgombra, pulita. Solo la sua rivista preferita, aperta su una sua intervista. Conosceva parola per parola e la chiuse con fastidio.

 

Le voci degli altri arrivavano attutite. Si alzò accostandosi alla porta.

“Peccato che il Presidente…..”,

“Si, peccato, ma non era un ruolo in cui stava a suo agio”. “Se poi non avesse intrapreso quella strada….”

“Si era messo in testa di cambiare tutto, ma io che ho collaborato con quattro Presidenti prima di lui lo sapevo, dura chi non tocca nulla, chi se ne sta tranquillo”.

Parlavano di lui al passato, ma era lì, dietro quella porta, alla sua scrivania…….aveva tante idee, li avrebbe resi orgogliosi di aiutarlo, finalmente sapeva cosa fare.

 

Le voci continuavano, frenò la voglia di spalancare la porta e tese ancora l’orecchio.

 

“Cancellare migliaia di posti di lavoro, ma cosa credeva…….”

“E poi che amicizie, ma chi aveva fatto entrare a Palazzo……”

“Io con lui ho pochissime fotografie, meglio…”

“A proposito è pronta la nuova foto, questa è meglio farla sparire”.

 

Doveva aprire subito e cacciarli a pedate, quelli non erano i suoi collaboratori, erano dei traditori, pennivendoli, custodi di scartoffie, leccaculo e voltagabbana.

Mosse la maniglia ma la porta non si aprì. Inizio a battere i pugni con forza, non facevano rumore ma le mani gli dolevano.

 

“Vogliono liberarsi di me, farmi credere pazzo, magari interdire. Il sudore colava lungo la fronte, la schiena, la faccia..

 

“Presidente, presidente……, siamo arrivati. Vado o l’aspetto?”

 

Era ancora dentro la blindata, un sogno dentro un sogno ecco cosa era stato. E lui era ancora il Presidente della Sicilia. Sorrise. Scese, spavaldo e rassicurato. Ricordava perfettamente i suoi propositi di generale pulizia del vecchio.

Ma la Sicilia non era pronta, lui si, si sentiva carico di tanta energia, ma forse anche lui non era pronto.

“Se le cose non cambieranno, almeno non peggioreranno”, disse a se stesso. “Ci proverò al secondo mandato. Questa terra ha atteso per secoli un liberatore, può attendere ancor qualche anno”.

Inedito, per gentile concessione dell’autore.

 

 

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Aldo Penna viene da una importante storia di impegno sociale e politico: a metà tra socialismo e liberalismo, compreso tra aspirazioni di attenzione al sociale e aspirazioni liberali e libertarie, vive e lavora a Palermo dove attende anche alla sua attività di scrittore. E di Palermo, e della Sicilia tutta, sembra fatta la sua scrittura, non tanto sul piano del lessico quanto sul piano – come dire – “extralinguistico”: i paesaggi e i personaggi, le atmosfere, quel che di imprendibile e impalpabile si trasmette attraverso la narrazione, ecco, tutto questo nella scrittura di Penna è “siciliano”. Vi è una Sicilia, ma forse è meglio dire, per usare un termine caro a Sciascia, una “sicilianità” diffusa e permeante in quello che scrive. E in come lo scrive.

 

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Aldo Penna.

 

 

 

 

 

 

                    

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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