Il ritorno – Mahua Sen Mukhopadhyay

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I cieli sopra Calcutta sono plumbei e sprofondano rapidamente sotto il peso di nuvole gonfie di pioggia. Arse dalla calura di metà giugno, avvelenate dall’inquinamento e screpolate dall’insostenibile sete provocata dai venti secchi, ora gravide di promesse di sollievo esse si librano con tranquillità trionfante in cima agli edifici di questa giungla di cemento. Shuprobha si infila rapidamente nel vicolo. Edifici semi-costruiti si alzano su entrambi i lati, così vicini da lasciare solo una fetta incredibilmente stretta di spazio. Alla fine di questo tunnel si intravede lo scorcio di un laghetto, quello più bello della zona. In effetti, l’ultimo stagno rimasto.

Il quartiere era cambiato a ritmo ininterrotto negli ultimi vent’anni. Uno dopo l’altro, i laghetti erano stati bonificati. Uno dopo l’altro, i campi e gli spazi aperti erano stati cancellati. La popolazione urbana era esplosa e aveva dato vita a folle di nuove persone, tutte bisognose di un riparo, persone per cui erano sorte frettolosamente grandi quantità di condomini destinati a provvedere alle loro esigenze. Torri stipate di minuscoli appartamenti, disposte come le aperture di una colombaia; case a forma di scatole accatastate ordinatamente l’una sull’altra, palazzi che salivano a tre piani, poi a cinque e infine, torri alte tredici o quindici piani che si allungavano verso il cielo. Era stata una  trasformazione completa e sbalorditiva.

Il vicolo è illuminato da un lampo accecante accompagnato da un brontolio proveniente dal cielo tanto forte da scuotere violentemente Shuprobha dai suoi sogni ad occhi aperti. Un dolore la attraversa, lancinante e intenso. Da dove viene? Quasi immediatamente riesce a individuare quella che le sembra una palla pulsante di piombo fuso, bloccata da qualche parte tra lo stomaco e il petto. Privata di ogni respiro, rimane ferma, nella speranza che la malefica sensazione trovi lo spazio per riuscire a stabilizzarsi, forse, a livelli sopportabili. Intorno a lei, accelera la tempesta; venti inquinati e carichi di polvere formano un vortice in rapida accelerazione, che si avverte essere fenomeno urbano e non incontaminato, e Shuprobha resta imprigionata proprio nell’occhio di  quel ciclone.

 

La luce è forse un po’ cambiata? Con la coda dell’occhio intravede qualcuno sulla sponda opposta del laghetto. Qualcosa nell’immagine non quadra perfettamente e le tormenta il cervello. Emette con cautela il respiro che aveva trattenuto scoprendo che il dolore è diminuito. Al suo posto ora c’è un disagio amorfo e un vago senso di malessere. Si ricompone e riprende a camminare.

Verso la fine del vicolo, viene avvolta dal ricordo di un grande albero di kodom [1] che un tempo stava lì, con i suoi rami estesi in tutte le direzioni. Nella stagione delle piogge i rami esplodevano di fiori;  palle di infiorescenze bianche appuntite che riempivano l’aria di un profumo inebriante. Passa nel punto esatto in cui un tempo si trovava l’albero e percepisce una punta di quella fragranza, improbabile e soprannaturale, emanata da fiori inesistenti. L’aria umida sembra diffondere il loro delicato aroma attraverso vasti tratti di storia punteggiati di immagini e sensazioni semi-dimenticate. Intorno e dentro a quell’odore familiare e muschiato precipitano ricordi di altri dettagli: il silenzio al crepuscolo nelle sere primaverili, l’assalto furioso delle piogge monsoniche [2] e inquietanti frammenti di melodie che scendono da Ranga [3]di Kakà [4]sarangi dalla sua stanza all’ultimo piano. All’epoca avrà avuto circa dodici anni.  Con crescente pressione, un’inondazione di delizie sensoriali aveva sommerso il suo cuore impressionabile fino a far spalancare porte sconosciute lasciando che si riversasse nel suo stesso sangue l’essenza della musica, della fragranza e della pioggia, rendendola un tutt’uno con loro.

Sulla scia di questa sensazione, come un secondo lampo, arriva un altro insieme di ricordi, questa volta relativo alla persona che crede di aver visto camminare vicino al laghetto. L’uomo portava il tradizionale dhoti-panjabi [5] e armeggiava col suo ombrello capovolto dalla tempesta. Assomigliava proprio a Ranga Kakà! Non il Ranga Kaka ridotto a un’ombra dal Cancro e che giace sciolto nel suo letto di morte. Questo era il Ranga Kakà che tornava a casa alla fine dell’estate dal collegio in  Deoghar [6] dove era il preside. Lei lo attendeva con lo sguardo fisso dal balcone per essere la prima a scorgerlo mentre camminava lungo la strada. Non si era sposato e le sue vaste riserve di affetto senza sbocco erano riservate a Shuprobha, che ne godeva. Attraverso le nebbie del tempo riaffiora il ricordo di lui come suo prediletto.

Shuprobha arriva ora ai piedi delle scale che portano al suo appartamento e per la prima volta intravede la ragazza. Il crepuscolo si fa più intenso e la stanchezza minaccia di sopraffare Shuprobha.

La ragazza indossa un vestito verde con una fantasia gialla e rosa ma è il taglio dell’abito che cattura la sua attenzione: maniche a campana, gonna lunga e tante arricciature sul petto. Però, perché è il taglio ad attirare la sua attenzione? Probabilmente è solo che i suoi occhi sono condizionati da una vita passata a cucire. Ma aspetta, questo è il modello che indossava da bambina!  Ma  questa ragazza come aveva fatto a trovare un vestito dal modello così antiquato? La ragazza la sta guardando proprio adesso, i grandi occhi che brillano in una faccia madida di sudore. All’ombra del crepuscolo, sfoggia una sorta di sorriso timido che contiene una insolita nota di saluto. Shuprobha avverte la strana sensazione che se ricambia il sorriso, attraverso le ombre tremolanti di ricordi sbiaditi potrebbe aprirsi un percorso che le potrebbe consentire di riconnettersi a una persona conosciuta in passato, qualcuno di caro.

Ma è esausta e si concentra invece a salire le scale. Quel vago disagio che avvertiva prima ora  ha preso forza e non riesce che a pensare di raggiungere il suo letto, dove sicuramente troverà sollievo. Arriva al pianerottolo di fronte al suo appartamento e sbircia oltre la ringhiera per dare un’ultima occhiata alla ragazza.  Dove è finita? All’interno dell’appartamento, crolla sul divano e chiama Lokkhi, la domestica.

“Mi prendi un bicchiere d’acqua?”

“Accipicchia, [7]Signora!  È stata sorpresa dalla pioggia?!”

“Che pioggia? C’erano fulmini e vento, ma poi è passato tutto.”

“Oh! Ma è fradicia! Questo è sudore? Perché mai sta sudando così tanto?  Faccio andare più forte il ventilatore.”

Mentre Lokkhi si agita intorno a lei, qualcosa si muove nel cervello stanco di Shuprobha.

“Lokkhi, tua nipote – quella che si chiama “Bella” o qualcosa del genere – è arrivata dal tuo villaggio? Mi è sembrato di riconoscere la ragazza al piano di sotto. Mi chiedevo se fosse tua nipote. Non mi hai mostrato una sua foto, una volta?”

“Bella? No, non è qui adesso! È arrivata dal nostro villaggio la settimana scorsa e ogni giorno giura che verrà a trovarla. Non ha ancora trovato il tempo anche se stasera a quanto pare c’è tempo per andare al cinema con le amiche che abitano nell’appartamento accanto. Forse quel nuovo film con quell’attore, Dev, per cui vanno tutte pazze. Uffa! Sta diventando una ragazza tutta pepe, quella lì!’

Oh. Allora chi era quella ragazza? Shuprobha chiude le palpebre mentre il suo corpo scivola un po’ più in basso sul divano in cerca di riposo. Un’immagine affiora spontaneamente dalle profondità della sua memoria.

Un campo lussureggiante accanto alla casa della sua infanzia, proteso verso l’orizzonte, la sua vastità verde interrotta solo dai pali bianchi di un campo di calcio in lontananza. Era un periodo in cui i suoi orizzonti sembravano estendersi  con altrettanta ampiezza, brulicanti di promesse astratte. Possibilità eccitanti ma senza nome sembravano essere quasi a portata di mano. Giorni lunghi e pigri pieni di chiacchiere oziose con Bornali, che abitava nella traversa dopo casa sua. Insieme avevano trascorso innumerevoli pomeriggi che sbiadivano in serate inondate dalla luna e che poi, a loro volta, si trasformavano in notti spensierate.

Quella ragazza di sotto le era sembrata proprio Bornali! Così forse si poteva  spiegare quel senso di familiarità che aveva avvertito. Ma cosa mi succede che continuo a ricordare persone di tanto tempo fa? Sono così confusa.  Deve essere l’età. Sono vecchia, una vecchia signora. Sorride a se stessa mentre decide di  raccontare la cosa a sua figlia e a sua nipote. Riesce quasi a sentire le loro risate per il suo dramma. Chiamerò Reshmi tra un po’. Forse può fare un salto mentre torna a casa dal lavoro. Quello strano malessere che avverte nel suo corpo si riaccende: non si è dissipato. Reshmi è la sua unica figlia e rischia di infastidirsi molto se non viene immediatamente informata di eventuali problemi di salute. Inoltre, Somnath non è a casa stasera.  Sta facendo una rimpatriata con vecchi amici ed è improbabile che torni fino a tardi.

“Lokhi, prima di tornare a casa mi prenderesti una bibita fresca dal negozio di sotto?”

Il rumore della porta d’ingresso che si chiude le dice che non l’ha chiamata in tempo. Shuprobha impiega un po’ per tirarsi su e mettersi seduta, poi si costringe a salire sulla terrazza sul perché si ricorda dei panni stesi ad asciugare  che potrebbero bagnarsi sotto la pioggia.

Shuprobha raggiunge la terrazza e si ferma per prendere respiro. Mentre si guarda intorno, viene pervasa da un’inaspettata sensazione di piacere. È rimasta ancora un po’ di luce del giorno e le nuvole scure di prima sono sparite creando una tela per il tramonto, in cui il sole dipinge i cieli tutt’intorno in diverse sfumature di arancione e di rosa. Una dolce brezza alita leggera intorno, rinfrescando tutto quel che tocca. Shuprobha guarda il guazzabuglio di tetti di edifici disposti intorno a lei, punteggiati dalle chiome frondose delle poche palme da cocco rimaste.  È una vista familiare, ma i colori brillanti di fine giornata e la brezza leggera fanno emergere qualcosa dal profondo. Viene avvolta con delicatezza da una dolce sensazione di pace.

I suoi occhi si soffermano sulla terrazza del nuovo edificio all’angolo, non troppo lontano dal suo tetto. Anche lì una donna sta raccogliendo i panni, ma le dà le spalle. Anche a distanza, Shuprobha riesce a capire che indossa un sari bianco e che ha l’estremità tirata sopra la testa in un [8]‘ghomta’, il tradizionale copricapo delle signore della vecchia generazione. Qualcosa in lei è molto familiare. Con lo sguardo acuto di osservatrice, Shuprobha sembra perforare la distanza e gli strati di tempo che intercorrono tra loro riuscendo a stabilire un contatto: la donna in bianco si gira e la guarda. Il suo sguardo, seppur distante, è limpido. Il suo viso è illuminato da una radiosità familiare, gli occhi pieni di ilarità. Ma certo! è ma [9],  la Mamma, di quarant’anni fa. Mamma, che manca ormai da così tanto tempo.

Shuprobha afferra rapidamente un sari dal filo, se lo avvolge in un qualche modo intorno a un braccio e si precipita giù per le scale.  È strano che i suoi piedi si muovano in maniera goffa e insicura sui gradini familiari delle scale. Quel dolore infuocato alla bocca dello stomaco si presenta di nuovo in maniera intermittente. La sensazione di malessere che inonda il suo corpo è feroce e la nebbia della paura le  gocciola nei polmoni. Li riempie. Adesso riesce a malapena a respirare.

Dov’è il mio cellulare? Devo chiamare Reshmi in qualche modo! Ma il dolore esplode e scoppiando si diffonde come lava fusa,  e Shuprobha sente il bisogno di andare in bagno. È troppo tardi; avverte  che i suoi vestiti si stanno lentamente inzuppando anche se non riesce davvero a percepirlo. La sua mente cade nel vortice in preda al panico.

“Che cosa sta succedendo?! Somnath, perché non sei ancora tornato? Perché nessuno è tornato! Aspetta, sento il rumore di passi sulle scale… Lokhi! sei tornata? Qualcuno, QUALCUNO… per favore, venite! Prima che tutto diventi buio, qualcuno…!”

La sua vista inizia a offuscarsi e il suo corpo si piega verso il suolo. Si rende conto che ormai è ben oltre la possibilità di chiamare qualcuno e,  alle calcagna di questa realizzazione, arriva la comprensione. La paura che l’aveva paralizzata lentamente scompare.Sebbene i suoi sensi inizino a intorpidirsi, una chiarezza sorprendente le attraversa la mente, oltrepassando il terribile dolore che ancora le pulsa dentro,. A poco a poco, gli arti di Shuprobha cominciano a cedere e le sue articolazioni si sentono stranamente allentate.  Su di lei si posa un torpore inesorabile e definitivo.

Che fine ha fatto il dolore? Non riesco a sentire niente.

È così che si ritorna, allora?  Ci siamo già?

Capisco. Bene allora.

Shuprobha chiude gli occhi

Versione leggermente modificata, per gentile concessione di The Antonym, Bridge to Global Literature. Traduzione inglese di Chandreyee Lahiri dal bengalese e di Pina Piccolo dall’inglese all’italiano. Il racconto nella traduzione inglese si è classificato  al terzo posto  del Tagore Short Fiction Award, lanciato quest’anno dalla rivista digitale The Antonym- Bridge to Global Literature.

 

[1] Kodom (o Kadam) è un albero in fiore originario del sud e del sud-est asiatico.

[2] I monsoni sono un periodo di forti piogge che visitano l’India ogni estate, portando sollievo dall’intenso caldo estivo.

[3] In Bangla ‘Kaka’ è il termine per il fratello minore del padre.

[4] Uno strumento a corde simile a un violino utilizzato nella musica classica hindustani.

[5] Il “Dhoti” è un lungo pezzo di tessuto che gli uomini tradizionalmente drappeggiano intorno alla vita e alle gambe e il “panjabi” è una tunica.

[6] Deoghar è una città nello stato dell’Uttarakhand e una popolare destinazione di vacanza per i bengalesi.

[7] La traduzione letterale di ‘Mashima’ è la sorella della madre, ma è anche usata come forma di rispetto per rivolgersi a una donna anziana.

[8] Tradizionalmente ci si aspettava che le donne bengalesi sposate per pudore coprissero la testa con l’estremità del loro sari. È una tradizione per lo più arcaica che ora è ascoltata principalmente nelle comunità conservatrici e negli anziani.

[9] ‘Ma’ è il modo tradizionale di rivolgersi alla propria madre, simile a ‘Mamma/Mamma’ o ‘Mamma/Mamma’.

 

Mahua

Mahua Sen Mukhopadhyay , lavora come educatrice e vive nell’area metropolitana di Boston negli Stati Uniti. Scrive racconti e articoli prevalentemente in Bangla, che vengono regolarmente pubblicati su riviste letterarie, webzine e giornali in India e all’estero. La sua prima antologia di racconti, “Kaleidoscope” è stata pubblicata nel 2020. Inoltre, recensisce regolarmente racconti bengalesi contemporanei da Webzines per il sito web “Sera Galpo”. La sua storia è stata pubblicata su KalpaBiswa, un’importante rivista di fantascienza di Calcutta, e fa parte di un’antologia di scrittrici di fantascienza.

 

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Chandreyee Lahiri vive a Waltham, Massachusetts (USA) con il marito e il figlio adolescente e ha una lunga carriera nel settore della gestione ambientale. Il suo percorso letterario comprende anni di scrittura di blog, letteratura per bambini, racconti brevi e flash, narrazione di storie (nella tradizione di “The Moth”) e il suo libro di memorie. I suoi crediti di scrittura includono l’autrice di “One City One Story” di Boston nel 2021, una menzione d’onore nel concorso “Boston in 100 parole” nel 2020 e il terzo posto nel concorso di traduzione Tagore. Ha gestito alcuni gruppi virtuali di narrativa flash e attualmente cura uno spettacolo di narrazione per Waltham ( We are Waltham ) e crede che come lei, chiunque possa iniziare un viaggio per diventare scrittore. Per leggere i suoi scritti, o vedere i suoi spettacoli, si prega di contattarla su www.chandreyeelahiri.com .

 

Immagine di copertina: Opera di Mihaela Suman.

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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