Il punto cieco (Julio Monteiro Martins)

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Sono l’occhio della Storia. Ho la fama di sapere tutto di tutti, di conoscere nei dettagli ciascuna delle loro azioni. Ma informalmente vi dico: non è vero. A volte uno di loro, cioè uno di voi, nel vostro incessante movimento, attraversate degli spazi che non riesco a vedere, scomparite momentaneamente dalla mia vista per ricomparire più avanti in un altro punto, ormai trasformati, diventati esseri diversi da quelli che eravate prima. Così, grazie a questi punti ciechi, anch’io, l’onnisciente occhio della Storia, riesco a sorprendermi ogni tanto e a divertirmi con queste inaspettate e veloci metamorfosi.

 

Marcia Costa era lì come promesso. Parcheggiò la macchina davanti al palazzo, dall’altro lato della strada, uscì e vide Julio Cesar alla finestra del dodicesimo piano, che l’aspettava. Lei fece un cenno con il braccio chiedendogli se voleva che salisse. Lui fece segno di aspettare che stava per scendere e scomparve.

Marcia aprì la bauliera e si sedette al volante in attesa dell’amico. Sarebbe stata forse quella l’ultima volta che l’avrebbe visto? Questo pensiero la fece trasalire per un attimo e subito lo scacciò via. Come a tutti i brasiliani, o quasi, a Marcia non piacevano le cose definitive, irreversibili, la crudezza delle rivelazioni esistenziali o qualsiasi idea drammatica. La vita avrebbe dovuto oscillare sempre tra il comico e il noioso, e ogni emozione avrebbe dovuto rendersi in qualche modo ballabile. Il senso del tragico lei l’avrebbe lasciato volentieri alle opere liriche straniere o ai romanzi russi che non riusciva mai a finire. Non aveva ancora capito che nemmeno i brasiliani sono immuni alle trame del destino, alle reti pesanti, fradice di dolore, che avvolgono prima o poi ciascuno di noi.

Marcia aveva 23 anni. Due anni più tardi si sarebbe laureata in ingegneria ambientale (ma non avrebbe trovato un lavoro in quel campo). Nelle ore in cui non era all’università, militava nel movimento ecologico carioca. L’anno precedente il suo mentore, quello stesso Julio Cesar che ora si accingeva a portare all’aeroporto da dove sarebbe partito per l’esilio, era stato espulso dalla cupola del nascente Partito Verde per essersi opposto pubblicamente alla sottomissione del partito ai giochi politici tradizionali. I suoi dirigenti invece, proprio per aver tradito gli ideali fondanti del Partito Verde, sarebbero stati ricompensati con incarichi ben remunerati nella pubblica amministrazione. Tutti, tranne lui, rimasto invece fedele a quei principi fino alla fine, fino all’aperta sfida alle decisioni della cupola con la sua conseguente esclusione: come nei partiti totalitari vecchio stampo, anche lì i dissidenti, dopo un breve processo interno e segreto, erano fatti fuori e poi cancellati anche dalle foto e dagli archivi, come se non fossero mai esistiti.

Lo stesso giorno dell’espulsione, ancora prima di sera, una manciata di giovani militanti, che non si rassegnavano con la resa del partito alla macchina politica, si erano “autoespulsi” e Marcia Costa era una di loro. Con un rito goliardico offrirono un vaso da notte traboccante di monetine al segretario del Partito a mo’ di beffardo trofeo. Poi se ne andarono, insieme a Julio Cesar, per creare nelle settimane successive un nucleo di difesa dell’ambiente senza scopi elettorali, lontano stavolta dalla disgustosa politica dei partiti.

Ma ormai era tardi. Per quei ragazzi, già ventenni, cominciavano a imporsi le diverse strategie della sopravvivenza, il bisogno di trovare un lavoro, di trasferirsi con la fidanzata in un posto diverso dalla casa dei loro genitori, la voglia di viaggiare prima che gli obblighi lavorativi rendessero impossibile la conoscenza delle spiagge di Bahia, di Machu Picchu, delle cascate, delle valli e dei laghetti in fondo ai canyon della Chapada dos Veadeiros. Per il loro vecchio leader si spalancavano nondimeno le porte dell’esilio, in verità iniziato un anno prima, con “l’esilio in patria” che seguì all’espulsione.

– Eccomi. Mi dai una mano con l’altra valigia che è rimasta nell’ingresso?

Marcia sussultò. Immersa nei suoi pensieri non vide Julio Cesar che aveva appena attraversato la strada con un borsone in mano. Era una calda giornata d’inverno a Niterói, e all’arrivo a Roma Fiumicino avrebbe trovato l’estate europea. Almeno dal punto di vista climatico, non ci sarebbero stati per ora grossi traumi.

Caricarono nella bauliera l’enorme valigia di cartone grigio che imitava le venature di un blocco di granito, facendola sembrare ancora più pesante, e partirono verso il lungo ponte che, attraversata la baia, li avrebbe portati a Rio e all’aeroporto Tom Jobim, che si chiamava ancora con il vecchio nome do Galeão.

Dopo un’ora di ritardo, sui panelli centrali comparve la chiamata per l’imbarco immediato. I bicchieri erano già vuoti da un bel po’. Uscirono dal bar. Marcia prese con sé il bagaglio a mano e lo portò fino alla transenna dell’imbarco. Con questo voleva forse fare un’ultima gentilezza all’amico, o forse suggerire con quel gesto che avrebbe preferito se lui non partisse, che il suo posto era ancora lì, insieme ai suoi veri amici, ma non aveva la convinzione o la forza di dirlo, e così non poté fare altro che portare la sua borsa per alcuni metri e riconsegnargliela davanti alla cabina dove un poliziotto controllava i passaporti e i biglietti.

Julio Cesar si lasciava alle spalle un mondo, un intero paese, un futuro impossibile, parenti ostili o assenti da molto tempo e le poche vestigia ancora visibili del paesaggio della sua infanzia.

Marcia lo baciò sulla guancia, lasciando una piccola macchia di umidità, una lacrima schiacciata, sotto il suo occhio sinistro, e indietreggiò di due passi. E allora l’agente lo vide e gli chiese di sbrigarsi.

In seguito a un breve colloquio e a un timbro, Julio Cesar sarebbe scomparso dalla vista di Marcia e lei non l’avrebbe rivisto mai più. Non sarebbe più tornato in quella città silenziosa, indifferente, ormai coinvolta in tutt’altre vicende, dopo averci vissuto i suoi primi quarant’anni di vita (si fa per dire, perché probabilmente non ci sarebbero stati altri “secondi” o “terzi” quarant’anni di vita).

Nel momento in cui il timbro del poliziotto brasiliano batté con un colpo sordo la carta del passaporto, Julio Cesar cessò di esistere per sempre.

Davanti alle vetrine scintillanti e ai balconi variopinti del Free Shop c’era un perplesso Julio, più straniero che mai, senza curiosità, senza soldi da sprecare in oggetti di lusso e senza più il Cesar del suo antico nome (e comunque Julio Cesar sarebbe stato trovato troppo magniloquente per gli standard europei).

Dentro l’aereo, l’enorme velivolo dell’Aeroflot quasi vuoto che era appena decollato, Julio, seduto accanto al finestrino, guardava la baia di Guanabara, spietatamente abbandonata, con le acque sterili e nerastre inquinate dagli scarichi industriali e dalle tonnellate di spazzatura che venivano gettate ogni giorno.

Era il Luglio 1994. I brasiliani non sapevano se piangere ancora per la morte pochi mesi prima del loro idolo, il pilota Ayrton Senna, o se ridere per il Mondiale di calcio appena conquistato negli Stati Uniti, e così ridevano e piangevano allo stesso tempo, come d’altronde avevano sempre fatto, mentre cercavano di capire, senza successo, se dovessero cancellare i dolori passati con le risate o preparare col pianto gli inevitabili dolori del futuro.

Dopo brevi soste a Capo Verde, a Cipro e a Mosca, Julio finalmente arrivò in Italia. Recuperò la sua enorme valigia granitica e passò la sua prima notte proprio lì, a Fiumicino, nei pressi dell’aeroporto. Dal ristorante popolare dove mangiò un piatto di spaghetti alle vongole, Julio salutò con lo sguardo quel nuovo mare, che a sua volta lo salutava con piccole onde quasi inudibili, che al posto di schiantarsi contro la sabbia scorrevano sopra di essa, carezzevoli, oppure stanche, e chissà se dopo tanti millenni non si erano davvero accordate con la spiaggia per recitare quella farsa così mite, in modo da rasserenare il viaggiatore appena arrivato da altri mari più selvaggi.

Ma il Cesar lasciato indietro, abbandonato alla propria sorte davanti alle sollecitazioni dell’agente doganale, cosa fece? Dove andò?

Rimase lì, imbambolato, con la guancia umida, mentre vedeva Julio che si allontanava a passi svelti verso l’area d’imbarco.

Poi si girò verso Marcia e le disse “non riesco a lasciare tutto così, a lasciarti sola, per emigrare”.

Lei annuì. Era proprio quello che in fondo voleva chiedergli senza averne il coraggio. “Ora cerchiamo di riprendere la valigia”, disse lui. “Altrimenti, me la rispediranno fra qualche giorno. Un passeggero ha o no il diritto di cambiare idea all’ultimo momento?”. “Certo che sì!”, rispose lei. E dopo aver riempito un formulario attraversarono il grande ponte per la seconda volta quel giorno, ora già vicini al tramonto, e dal suo punto più alto guardarono in silenzio la baia di Guanabara riflettere sulle acque gli stessi colori arancioni e viola delle nuvole basse. Quella visione sembrò loro gravida di buoni auguri, un paesaggio splendido e rassicurante.

Julio si sposò ed ebbe due figli in Italia, scrisse diversi libri in Italiano e insegnò per molti anni in un’università toscana. Nei primi tempi, spinto dalla saudade che subito si spiega come corposo paravento davanti a ogni dolore, fece un tentativo maldestro di ritorno in Brasile. Ma già dal primo giorno nel vecchio paese soffrì di solitudine e di frustrazione.  Provò a fare un bagno nella spiaggia dove aveva vissuto alcune delle giornate più belle della sua gioventù, Itaquatiara. Era appena arrivato e un vento fortissimo spinse dei nuvoloni neri sopra di lui, un vento che scagliava la sabbia sul suo corpo seminudo come cento fruste a lacerargli la pelle. Doveva tenere la bocca e gli occhi sempre chiusi. Non sapeva cosa fare. Si accasciò e si tappò le orecchie con le mani.

Ci fu qualche minuto di fuggifuggi generale, i teli e gli ombrelloni che volavano sopra le teste, e in meno di un quarto d’ora la spiaggia era totalmente deserta. Julio era sconvolto, non aveva mai visto un vento così, che venne giusto in quello che avrebbe dovuto essere il rincontro con la sua vecchia spiaggia, la stessa di allora ma al contempo diversa. Ora si presentava spaventosa, lugubre, mostruosa, unheimlich.  Una coincidenza? Forse. Ma lui lo prese come un segno, un chiaro messaggio: il Brasile per te è finito, non provarci più a tornare, non sei persona gradita da queste parti. E infatti, dopo quell’ultimo viaggio, decise di non tornarci mai più, di non scoperchiare mai più quella vecchia tomba, come confessò a un amico che alcuni anni più tardi voleva convincerlo a tornarci per la seconda volta, per un convegno universitario.

Nella vecchiaia molte parole del portoghese erano ormai svanite dalla sua memoria. Non era riuscito a rammentare come si diceva in Brasile il verbo “sprofondare” e il verbo “approfondire”. E quando uno è stato abbandonato dalla propria lingua madre vuol dire che ormai è diventato qualcun altro, che non gli resta altro che capire meglio questo “io” rimodellato , questo personaggio riscritto dagli anni.

Un mese dopo che Cesar si rifiutò di imbarcarsi sull’aereo per l’Europa, il padre di Marcia, un ufficiale della Marina militare, lo assunse come una sorta di tutore dei due figli più piccoli, che prendevano brutti voti a scuola. Così Cesar poté campare modestamente per un altro anno, fino a che non trovò lavoro come professore di Storia in un liceo di Niterói, o meglio, in diverse scuole private, pagato ad ore, e quindi forzato a saltare da una classe all’altra, da un quartiere all’altro della città, fino a tarda sera, quando arrivava a casa sconvolto e agitato, con il cervello in effervescenza, che si placava solo dopo le due di notte, in un sonno pieno di brividi e di sussulti.

Un sabato, durante quelle che avrebbero dovuto essere le sue vacanze di luglio, dopo aver tenuto un corso intensivo per l’esame di ingresso all’università, Cesar trovò un pomeriggio libero per sposarsi con Marcia Costa. Passarono la luna di miele di due giorni nella casa al mare del suocero, a Maricá, a pochi chilometri dalla città.

Non ebbero figli, ma il mondo così come gli si era presentato non gliene aveva fatto sentire troppo la mancanza. Adottato dagli amici di Marcia, invitato qua e là per brevi weekend in mezzo alla natura, Cesar ebbe una vecchiaia povera ma serena, umanamente protetta, costellata da piaceri borghesi concessi in prestito dai vecchi compagni della moglie. Ogni tanto, è vero, questa vita emotivamente pacata era scossa dall’amarezza, quando leggeva sui giornali della scalata politica trionfante dei suoi vecchi aguzzini al vertice del potere. In questi momenti, chiudeva gli occhi e rimaneva in silenzio per qualche minuto, fino a che la stretta al suo cuore si allentasse. Sapeva che non poteva farci niente, che le cose dovevano andare così sin dall’inizio, e che lui doveva imparare a darsi pace. Doveva esorcizzare dalla vita la sfera pubblica, era roba d’altri, cose che non lo riguardavano, e concentrarsi nel godere dei piccoli piaceri del quotidiano, il barbecue della domenica con gli amici ereditati, l’appetito eccitato dalla caipirinha e dal samba che cantavano e suonavano tutti insieme prima del pranzo della domenica. Non poteva lamentarsi delle ristrettezze del suo esilio gastro-intestinale: dalla bocca all’ano ogni materia seguiva alla perfezione il percorso giusto.

Julio e Cesar non si rividero mai più. E non sentirono alcuna nostalgia l’uno dell’altro.

È vero anche però che ogni tanto, nella stessa notte di cielo sereno, Julio e Cesar si mettevano a guardare le stelle – Julio dal prato della villa toscana, seduto accanto al cespuglio profumato di lavanda, e Cesar dalla terrazzina dell’appartamento, da dove si vedeva uno spicchio di spiaggia –, e si domandavano come sarebbe stata la loro esistenza se avessero preso scelte diverse. Ma non a caso lo chiedevano a costellazioni diverse, ciascuna esclusiva del proprio emisfero, in modo che la Croce del Sud non poteva conoscere quello che solo l’Orsa Maggiore sapeva. E così, a nessuno dei due è mai pervenuta una risposta.

Il tempo continuò a passare imperterrito, la fila fece un altro passo in avanti e Julio e Cesar, come accade per forza prima o poi, sono stati prelevati dai loro rispettivi scenari.

Julio non ha una lapide sulla terra di adozione. Secondo le sue volontà il corpo è stato cremato e le ceneri disperse nel vento tra le cime delle Alpi Apuane.

Cesar invece è stato seppellito nel piccolo cimitero della spiaggia di Charitas, insieme ai suoi antenati, come in un’inumazione che si rispetti. È sempre lì, in fondo a un rettangolo di cemento imbiancato ogni dieci anni, che reca sopra una targa con tre nomi di donne, il suo, e quello recentemente aggiunto di Marcia Costa.

Si sono separati a quel bivio irreversibile, Julio e Cesar, molti anni fa, davanti alla dogana dell’aeroporto, e poi ognuno ha seguito la propria strada, sempre più inaccessibile allo sguardo dell’altro.

Julio e Cesar, due vite. Fino a che la morte, nel suo clemente oblio, li ricongiungerà in qualche eternità.

Cioè, se mai riuscirà a farlo. Se le eternità non saranno diventate a quel punto anch’esse plurime e intraducibili.

 

(Racconto pubblicato in: Parole di frontiera. Autori latinoamericani in Italia, a cura di Maria Rossi, Salerno, ed. Arcoiris, 2014)

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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