IL POPOLO “INVISIBILE”: GLI AFRODISCENDENTI D’ARGENTINA (Anna Fresu)

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“TANGO NEGRO, TANGO NEGRO / I TAMBURI HANNO SMESSO DI SUONARE”
STORIA DEGLI AFRODISCENDENTI IN ARGENTINA
a cura di Anna Fresu

Con la risoluzione 68/237, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il periodo 2015-2024 Decennio Internazionale degli Afrodiscendenti nel mondo (Popolo di discendenza africana: riconoscimento, giustizia e sviluppo), “come necessità di rafforzare la cooperazione nazionale, regionale e internazionale in relazione al pieno godimento economico, sociale, culturale, civile e politico di persone di origine africana e la loro piena e uguale partecipazione a tutti gli aspetti della società”. Gli obiettivi per il decennio sono: “promuovere il rispetto, l’impulso e l’adempimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali da parte delle persone di origine africana, come riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani; promuovere una maggiore conoscenza e rispetto del diverso patrimonio, cultura e contributo delle persone di origine africana allo sviluppo delle società; adottare e rafforzare i quadri giuridici nazionali, regionali e internazionali secondo la Dichiarazione di Durban e il Programma di Azione e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e garantirne la piena ed effettiva attuazione”.

Nel 2013, la legge 26.852 decreta l’8 novembre Giornata dell’Afroargentino e della Cultura Afro, in memoria di María Remedios del Valle, eroina afro- discendente dell’Indipendenza argentina, nata a Buenos Aires fra il 1766 e il 1767 e morta l’8 novembre del 1847, dopo aver combattuto nell’Esercito di Liberazione ed essere stata nominata capitana dal generale Manuel Belgrano; riconoscimento che giunse tardivo e non la compensò dei molti anni vissuti nell’indigenza nel paese alla cui indipendenza aveva valorosamente contribuito.

josefa tenorio

Ma anche quest’anno di questa ricorrenza non si è vista nessuna o pochissima traccia né sui social, sui giornali, o da parte delle istituzioni. Parrebbe che tutti vogliano dimenticare quei tre secoli e mezzo di schiavitù e tratta in vigore nell’epoca coloniale.

Fino al XIX secolo, lo sfruttamento minerario e l’agricoltura costituivano la principale attività economica in America Latina. La maggior parte di questi lavori era a carico di schiavi africani che, a differenza delle popolazioni native, offrivano ai conquistatori il vantaggio di essere già stati esposti, per prossimità geografica, alle malattie europee e di resistere facilmente ai climi tropicali delle colonie. Gli schiavi africani cominciarono ad arrivare alle colonie spagnole del Río de la Plata nel 1588, spesso attraverso il contrabbando, e il traffico prosperò attraverso il porto di Buenos Aires e anche all’Inghilterra venne concesso di introdurre schiavi attraverso questo porto. Per poter fornire schiavi alle Indie orientali i re di Spagna firmarono diversi accordi con compagnie spagnole e portoghesi finché nel 1713 l’Inghilterra, che era uscita vittoriosa dalla Guerra di Successione Spagnola, ottenne il monopolio del commercio di schiavi, fino alla proibizione della schiavitù nel 1784. Anche dopo l’abolizione della schiavitù, le classi dominanti creole continuarono a sfruttare gli afrodiscententi per il lavoro rurale, domestico e artigianale.

4f9e9af3211bd-660x330Un censimento del 1778 in diverse provincie del nord – Santiago dell’Estero, Cordoba, Salta, La Rioja, San Juan, Jujuy, San Luís, Tucumán, Mendoza – stabiliva che oltre il 50% della popolazione era di origine africana. Percentuali altrettanto alte si riscontravano in tutto il territorio nazionale, compreso Buenos Aires con una forte presenza in quartieri come San Telmo e Monserrat, il cosiddetto Quartiere del Tamburo, con 7.268 neri e mulatti su 15.719 spagnoli, 1.288 meticci e indios. Nel 1810 risultavano 22.783 bianchi, 9.615 neri e mulatti, e solo 150 indios.

Ovunque i discendenti di popoli africani conservarono la loro cultura, le loro credenze e le loro lingue e solo dopo molte generazioni cominciarono a meticciarsi e ad adattarsi al nuovo territorio. Spesso però danze, canti e ritmi del tamburo venivano censurati dalle autorità, proibiti o confinati in terreni con case di paglia e fango, chiamati tambo o candombe dove i discendenti d’Africa si organizzavano in nazioni – Conga, Cabunda, Africana Argentina, Mozambico, ecc…

Durante le guerre per l’indipendenza (1810-1816) e i successivi aggiustamenti, molti vennero usati come carne da cannone e solo raramente o molto tardi il loro contributo venne riconosciuto e valorizzato. Nelle “Memorias” di Manuel Olazábal, ufficiale dell’ Esercito delle Ande agli ordini del General San Martín, si riferisce quanto il generale, l’eroe dell’indipendenza argentina che aveva sognato la liberazione e l’unificazione dell’America Latina, affermava:

I ricchi e i proprietari terrieri si rifiutano di mandare i loro figli in battaglia, mi dicono che manderanno tre servi al posto di ogni figlio, solo per non dover pagare la multa, dicono che a loro non importa di continuare ad essere una colonia. I loro figli restano a casa grassi e comodi. Un giorno si saprà che questa patria è stata liberata dai poveri e dai figli dei poveri, i nostri indios e negri che non torneranno ad essere schiavi di nessuno”.

Una delle tante utopie di quell’uomo onesto che era San Martín. Forse i sopravvissuti non sono tornati ad essere schiavi, ma poveri e dimenticati hanno continuato e, troppo spesso, continuano ad esserlo.

obra-de-mirta-toledoLa Costituzione Nazionale abolì la schiavitù nel 1853; abolizione che però divenne ufficiale e completa solo nel 1860. Dal 1864 al 1870 ebbe luogo la Guerra del Paraguay, in cui Argentina, Brasile e Uruguay combatterono contro il Paraguay e in cui gli afro-discendenti furono reclutati in massa, in modo sproporzionato e, probabilmente, intenzionale. A questi eventi, alla terribile epidemia di febbre gialla a Buenos Aires nel 1871, all’emigrazione verso l’Uruguay in cui la popolazione nera era più numerosa e godeva di un clima politico più favorevole, viene storicamente attribuita la sparizione in massa degli Afro-argentini.

In realtà questa “sparizione” è solo apparente. Si è trattato piuttosto di un processo di invisibilizzazione della popolazione di origine africana che non corrispondeva al nuovo modello di europeizzazione che i nuovi governi e i loro progetti economico-sociali si prefiggevano, attraverso l’immigrazione di massa dall’Europa fra il 1850 e il 1950. L’immigrazione di europei verso l’Argentina dalla fine dell’ottocento al dopoguerra, fu in parte anche determinata dalla scelta del modello europeo come riferimento per lo sviluppo della società, cancellando dalla storia dell’Argentina sia i popoli originari che gli afrodiscendenti. Va anche considerato il fatto che la maggior parte dei primi immigrati era costituita da uomini soli che spesso si univano a donne di origine india e africana favorendo il meticciato.

La Argentina está en el suelo
Porque la história negó
Ocultó su sangre índia
Y los negros del galpón 

L’Argentina sta a terra
Perché la storia negò
Nascose il sangue degli indios
e dei negri delle stive

……..

Nunca hubo negros decían
Qué verguënza, señor
Los negros se avergonzaron
De su própia condición

I neri non ci sono mai stati dicevano
Che vergogna, signore
I neri si vergognavano
Della loro condizione

(Guariló – Juan Carlos Cáceres)

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Secondo l’ultimo censimento del 2010, in Argentina esistono 149.493 persone che si autodefiniscono afrodiscendenti. Di questi 137.583 erano Afro-argentini (il 92%), e gli altri 11.960 (8%) provenivano da altri paesi. Si continua intanto a ignorare la storia dei “libertadores” indios e afrodiscendenti; si continua a negare il contributo che queste comunità hanno dato alla cultura, alla letteratura, all’arte argentina.

Tango negro, tango negro,
te fuiste sin avisar,
los gringos fueron
tu manera de bailar.

Tango negro, tango negro,
el amo se fue por mar,

Tango negro, tango negro
te ne sei andato senza avvisare,
cambiando i bianchi hanno cambiato
il tuo modo di ballare.
Tango negro, tango negro,
il padrone se ne andò per il mare,


se acabaron los candombes
en el barrio ‘e Monserrat.

Más tarde fueron saliendo
en comparsas de carnaval
pero el rito se fue perdiendo
al morirse Baltasar.

Mandingas, Congos y Minas
repiten en el compás,
los toques de sus abuelos

sono finiti i candombe
nel quartiere si Monserrat.
Più tardi sono riapparsi
come comparse del carnevale
però il rito si è ormai perso
quando è morto Baltasarre.
Mandinghi, Congo e ragazze
ripetono nel compasso
i suoni dei tuoi antenati


…………

Tango negro, tango negro,
los tambores no suenan más
los reyes están de luto
ya nadie los va a aclamar.

Tango negro, tango negro
i tamburi hanno smesso di suonare
i re sono in lutto
Più nessuno li acclamerà.

(“Tango negro” di Juan Carlos Cáceres)

I processi di invisibilizzazione passano attraverso molte strade. Fra queste anche sostenere che un ritmo africano come il candombe si sia estinto in Argentina con la febbre gialla del 1870 e con la guerra del Paraguay. I tamburi continuarono a suonare, lontani dalle strade di Buenos Aires, ma dentro le case, nelle periferie. Questa privatizzazione permise la preservazione non solo di ritmi, canti e strumenti tradizionali ma anche di lingue – come per esempio il Kikongo, di cui si trovano ancora tracce nel castellano- di sistemi di organizzazione comunitaria e della cucina tradizionale.

autoritrattoPer le stesse ragioni si è negata per anni l’influenza e la partecipazione della cultura africana alla nascita del tango, considerato normalmente solo come creazione degli immigrati (italiani, tedeschi, polacchi). Dimenticando che la stessa parola “tango” deriva dal termine in lingua africana “tangós” che indicava i luoghi in cui i discendenti di africani si riunivano per discutere, cantare e ballare. Solo recentemente si stanno ampliando gli orizzonti e la reintroduzione di percussioni e ritmi africani, oltre a studi musicologici, ha dato o restituito al tango il suo vero volto.

In un paese orgoglioso di essere una nazione bianca, è stato facile cancellare dalla memoria anche i notevoli apporti di libertadores, come María Remedios del Valle, già citata, o il capitano Andrés Ibáñez e il sergente José Cipriano Campana e Josefa Tenorio… senza contare che il famoso esercito con cui il generale San Martín attraversò le Ande per liberare il Cile era composto da 2500 soldati di origine africana sui 5000 totali e che a Buenos Aires ci furono almeno undici afroargentini con il grado di colonnello o tenente-colonnello, pur essendogli stato negato il grado di generale per restrizioni di tipo razzista; e tanti tanti altri. Si dimentica che era di origine africana Bernardino Rivadavia, primo presidente dell’Argentina, che gli oppositori politici chiamavano “Dottor Cioccolato”. Si rimuove l’esistenza e l’importanza di intellettuali, musicisti, scrittori e poeti di origine africana. Musicisti come Rosendo Mendizabal (1847-1871) Gabino Ezeiza, Higinio Cazón e il grande Horacio Salgán.

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Si tende ad ignorare la considerevole produzione poetica di autori africani fra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, naturalmente esclusa dal canone letterario argentino, la maggior parte pubblicata su giornali e riviste, il cui intento era soprattutto affermare la propria identità, denunciare la situazione miserabile in cui vivevano gli afroargentini e le loro sofferenze. Come nella poesia “Redenzione” di Mateo Elejalde, nato probabilmente nel 1862:

Suonò infine l’ora annunciata
in cui una razza oppressa
comincia a entrar nella vita
di sublime redenzione.
Finalmente… la pallida notte
che il nostro cielo copriva,
un bel giorno ci annuncia,
di dolce resurrezione.

 

Sì, solleviamo la fronte,
riceviamo i suoi fulgori.
E dai suoi cangianti colori,
traiamo ispirazione.
Che temprino le nostre idee,
i raggi che il sole invia.
E riscaldino l’anima fredda
Le scintille delle sue tempie.”

O Horacio Mendizábal (1847-1871) che morì molto giovane, durante la famosa epidemia di febbre gialla che contrasse assistendo gli altri malati e esaltando la solidarietà anche attraverso la sua poesia che considerava un’arma per la riforma. Uno dei volumi di poesia da lui pubblicati Primeros Versos (1865), contiene una bella poesia dal titolo “La libertad”. Una delle sue strofe dice:

Quella che con la sua nobile pianta calpesta
il despota, solleva l’oppresso.
Quella per cui si versa tanto sangue
si chiama Libertà. Caro nome!

Il grido di libertà è rivolto a tutti gli schiavizzati e i colonizzati, indipendentemente dal colore della pelle e dalla provenienza sociale. Nei suoi versi il poeta sogna un mondo ideale dal quale i neri non siano esclusi:

Lì, il nero che nasce
sulle spiagge di sabbia bruciante,
senza che catene di ferro
di un vile trafficante, brutalmente minacci,
gode di una placida fortuna
gode, come tutti, senza alcuna disdetta!

E in un’altra poesia, Horas de meditación (1869), aggiunge:

Poeti, voi che cercate la libertà, che rendete culto alla giustizia, difendete questa razza disgraziata e sarete benedetti”.

E anche Casildo Thompson (1856-1928) che a poco più di vent’anni pubblicò parti di “Canto al África”, una poesia che tratta della crudeltà del traffico degli schiavi, che condanna il colonialismo e il razzismo e rivendica i valori africani, gli stessi che anni più tardi avrebbero portato al movimento della negritudine, esaltando la sua razza “martire della storia/ razza degna di gloria/ perché nobile e altera come il leone nella selva oscura

……

Ah! maledetto, mille volte maledetto
tu sia bianco senza fede,
La tua crudele memoria
sia eterno marchio della tua storia
che disonori i figli dei tuoi figli
E portino sulla fronte
la macchia della tua infamia
come porta eternamente l’uomo nero
le ferite dell’anima da te aperte.
Che tu sia maledetto, sì, che pur ti rifuti
il seno della terra,
perché aborto sei stato
segno di dura e fratricida guerra.

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Fra gli autori più recenti che hanno lasciato tracce della loro identità originaria, ricordiamo anche Gabino Ezeiza (1858-1916), García Morel (1875-1961) e Higinio Cazón (1866-1914). Cazón, per esempio, rese omaggio ai combattenti per la patria in “Recuerdos históricos: Tucumán y Salta” e Ezeiza, autore di un’opera poetica vasta e di tematiche varie, riproponendo la figura leggendaria e forse mitica del nero Falucho, che salvò la vita a San Martín durante una battaglia, riflette sul ruolo importante degli afroargentini:

Sono della razza di Falucho
privato di eredità,
ingranaggio della ruota
che trascinò il carro trionfale;
vecchio scudo che ha salvato
la vita a chi lo conduceva
e con disprezzo lo buttò giù
per non esser disturbato.

Artisti afrodiscendenti sono stati anche l’attrice e cantante Rita Montero, nata nel 1928 e il cineasta Enrique Nadal che fu anche uno strenuo oppositore della dittatura militare e per questo dovette esiliarsi in Svezia. E tanti, tanti altri, artisti, compositori, pittori, giornalisti, umanisti…

000-afro-argentinoIl riconoscimento della loro storia, del loro contributo alla costruzione della nazione argentina, del loro ruolo e della loro influenza sulla società e sulla cultura dell’Argentina anche attraverso le modifiche dei programmi scolastici, assieme al riconoscimento dei loro diritti e al miglioramento delle loro condizioni sociali è ciò che gli afro-argentini rivendicano oggi, anche attraverso organismi come l’Istituto Nazionale di Affari Afro-argentini e diverse associazioni. Rivendicazione che si spera porti a un processo di revisione e di riparazione storica.

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foto Anna FresuANNA FRESU Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza a Roma. Ha seguito numerosi corsi di teatro, tra cui il Teatro Studio, partecipando alla creazione del teatro Spaziozero. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane. Ha condotto numerosi laboratori teatrali nelle scuole di ogni ordine e grado. È presidente delle associazioni culturali “Il Cerchio dell’Incontro” e, fino al 2016, di “Scritti d’Africa”. Nel 1975 ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale nella cooperativa agricola Torrebela. Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e diretto, col regista e giornalista Mendes de Oliveira, il “Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù” realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Il suo lavoro in Mozambico è stato premiato al Festival del Cinema per lo Sviluppo a Genazzano nel 1991. Sempre nel 1991 ha curato e tradotto dal portoghese con Joyce Lussu le poesie del poeta mozambicano José Craveirinha (Voglio essere tamburo, Centro Internazionale della Grafica, Venezia). Nel 1996 è tornata in Mozambico come collaboratrice RAI per una serie di servizi televisivi e ha realizzato un laboratorio teatrale con i “meninos da rua”, bambini-soldato e vittime della guerra. Nel 2013, ha pubblicato il suo libro di racconti “Sguardi altrove”, Vertigo Edizioni. Sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie. Collabora con alcune riviste on line e blog. In Argentina è stata docente di Lingua e Cultura Italiana presso la Società Dante Alighieri e l’Università di Mendoza e ha partecipato a congressi sulla letteratura italiana e  realizzato diversi spettacoli teatrali. Nel 2018 pubblica il suo più recente libro di poesie “Ponti di corda“, Temperino rosso Edizioni e ha curato l’antologia poetica “Molti nomi ha l’esilio“, Kanaga Edizioni.

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I quadri qui riprodotti sono opera di Mirta Toledo (Buenos Aires, 25 dicembre 1952) pittrice, scultrice, scrittrice, di origine ispanica e afro-guaranì, che dice: Attraverso le mie opere, voglio celebrare le differenze che esistono fra gli esseri umani … La diversità è uno dei tesori dell’umanità”. In copertina foto dell’

 

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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