“IL PIANISTA DI YARMOUK” E QUELLA SPERANZA DA CUI RIPARTIRE, di Francesca Girani

yarmouk

 

Quando ho iniziato a lavorare e fare ricerca sulla tesi di Laurea triennale, la pandemia da Coronavirus era in corso da qualche mese e c’era nell’aria un barlume di speranza che presto tutto sarebbe finito. Ora, a distanza di oltre nove mesi, questo virus globale continua a minacciare tutti senza distinzione e tutta la fiducia sembra essere svanita. Si vive con il sentimento di rassegnazione, come se non ci fosse nessuna alternativa credibile e ragionevole per affrontare le circostanze.

È proprio nella lettura della storia di Aeham Ahmad “Il pianista di Yarmouk”, quartiere alle porte di Damasco che, al contrario, si impara a vivere in tutto quello che accade. Dentro le circostanze.

Quando ho iniziato a leggere la storia di  Aeham Ahmad non nascondo di aver pensato di interrompere la lettura o distogliere il pensiero da quelle immagini forti e desolanti, di estrema violenza e brutalità, raccontati in prima persona, per evitare quella seppur minima sofferenza che si impone senza cleavages. Quello che la sua storia continua a testimoniare con tanto stupore e commozione è il fatto di aggrapparsi e quindi fidarsi di uno sguardo di qualcuno che ti vuole bene e che investe la vita totalmente. Si parla di un giudizio profetico e scomodo allo stesso tempo perché da una parte, “costringe” a prendersi sul serio di fronte alle proposte della vita, e dall’altra rende la vita una corsa intensa.

Infatti, Aeham dice che “[f]urono persone coraggiose […] a rendere possibile la vita a Yarmouk. Senza di loro sarebbe stata ancora più desolante.” (P195) una di queste è il rapporto con suo padre, Abu Ahmad, guida fondamentale nonostante la sua cecità. Caparbio al punto da non mollare mai suo figlio e educarlo al suo talento. Talento per la musica che diventa strumento personale con cui affrontare la disperazione e la tragedia della Rivoluzione siriana, simbolo di un grido di speranza senza colore né schieramento politico, senza odio bensì pieno di vita. Abu Aeham, è paradossalmente la guida di Aeham, come scrive fin dalle prime pagine “[a]vanzavo con passo tranquillo, sicuro. Ero io il cieco che lo seguivo senza vedere niente.” (p19). Il padre Ahmad è il primo che vede nel figlio un talento che deve essere scoperto da lui ed educato. Combatte contro la sua ingenua ribellione tipica degli anni più acerbi lasciandogli il tempo e lo spazio per maturare dentro di sé. Infatti, colpisce fin da subito che il padre ha a cuore il destino del figlio più di quanto l’abbia chiaro Aeham. Ed è nel passaggio in cui il padre compra il primissimo pianoforte al figlio, spendendo tutti i risparmi e sacrifici di una vita, che Aeham, forse inconsapevolmente, capisce che il suo talento è un affare da prendere sul serio. (p.45) La storia di Aeham è interessante descriverla come un susseguirsi di acceleratori vocazionali, ovvero persone, come suo padre, che contribuiscono a formare la sua persona. Come il rapporto con le molteplici insegnanti di pianoforte con le quali poi capisce cosa significa conquistare la musica, che equivale a “[…] costruire un’enorme casa con dei piccoli ciottoli di ghiaia.”(p.75)

Questa strada della musica non gli fu però sempre chiara anzi, è proprio attraverso un periodo di ribellione che intuisce, attraverso la stima del padre, che l’unica cosa che viene chiesta dalle circostanze tutte è essere fino in fondo sé stessi. La dimensione che rende possibile questa intuizione è quella del Tempo, e man mano che passano gli anni, acquista un’eccezione sacra perché legata al destino. La forza generazionale di questo rapporto padre-figlio non si esaurisce una volta che Aeham decide, personalmente, che la musica per lui è ragione di vita, bensì continua nel Tempo.

L’invito che Aeham rivolge a ciascuno è nascosto in questa semplice constatazione:  “[…]a me non piaceva suonare, fino ai miei 16 anni abbiamo combattuto, lui [il padre] spingeva, io frenavo. Alla fine ho capito che avevo in mano gli strumenti per cambiare la mia vita […]” come ammette in una intervista recente in occasione del Contest X-Factor Italia. Il rendersi conto di essere in intimità con ciò che si ha davanti: “[i]l mio mondo, in cui potevo scoprire me stesso. […] A volte suonavo per ore e ore, solo per me”(p.95) riferito a quando fugge dalla superficialità della scuola superiore; oppure quando capisce dopo che la guerra è scoppiata, “[…] che senza quelle ore di pace in negozio, senza questo periodo di semina”(p.99) non sarebbe mai stato in grado di comprendere il suo genio. Aeham è la testimonianza che per scoprire la propria identità, per individuare il proprio talento e affinare il proprio genio, c’è bisogno di una vita intera. Un detto siriano insegna, incarnando l’esperienza di Aeham: “ il tè deve tirare. Solo se uno ha la pazienza di lasciare le foglie dentro la teiera per un po’ diventerà un tè perfetto. (ibid) come riporta un detto siriano.

I primi momenti in cui suona a colpi di granate e bombardamenti sono la dimostrazione di questa consapevolezza maturata negli anni: “Io sono un pianista. Non ho mai sventolato bandiere. La mia rivoluzione è la musica. Quel giorno capii che doveva essere questa la lingua della mia protesta. Anche se nessuno mi avrebbe ascoltato. Era il 28 Gennaio 2014” (p.215) ; e ancora quando scrive: “[m]entre spingevamo [Aeham e quei pochi amici disposti a rischiare la vita] il piano tra le rovine dimenticavamo gli stomaci vuoti e ci sentivamo forti. Non eravamo più soli. Era la nostra rivoluzione, la nostra missione: mostrare al mondo cosa stava succedendo nel nostro paese. Quanto ci stesse torturando Assad. E che noi ci stavamo ribellando.”(p.229) È chiaro che la musica è una costante sempre presente nella vita di Aeham, capace di trasformarsi nello strumento attraverso cui affrontare pure la tragicità più infima del suo viaggio. Infatti, “decide di affrontare la realtà con l’unica arma rimasta a sua disposizione, la musica.”(E. Sanzone, Zero Positivo, 2018) È proprio grazie a questo suo talento che Aeham: “[…] diventa simbolo di una popolazione stremata ma al tempo stesso che cerca di “cantare” la sua presenza, per evitare di essere completamente dimenticata.” (ibid).

Ed è per questo grido sincero, sofferto che si rende conto che la musica ha rivoluzionato prima sé stesso, poi il mondo. “Sono un pianista. Non ho mai sventolato bandiere. La mia rivoluzione è la musica. E il miracolo accadde: il mondo ci ascoltò.” (p.243). Ha ragione Aeham quando afferma che il mondo è cambiato attraverso la sua musica, ma perché primo fra tutti è cambiato lui: dalla ribellione adolescenziale di un ragazzino che non sa, non ha la percezione del valore del suo talento, a fidarsi di una guida che è suo padre, fino a educare le sue inclinazioni e metterle al servizio dell’umanità. Rendersi conto di possedere gli strumenti per orientare la propria vita è il valore più significativo che lascia ai lettori., perché la sua testimonianza cambia la vita di chi si imbatte nella sua storia. Un uomo lucido che ha da insegnare a tutti noi: “[…] non potei fare a meno di pensare alla prima volta in cui avevo suonato il piano con i bambini per strada, […]. Non riuscivo a separare le cose belle da quelle brutte.” (p.289).

Probabilmente questa lucidità nel tenere la vita unita, che sia piena di fatti opprimenti, tremendamente sofferti e bui, o di momenti più felici, propria di Aeham, è il tratto distintivo di questa persona. Uomo che, attraverso la musica, ha convertito non solo sé stesso ma anche gli altri. Un uomo che solo Dio sa quanto abbia sofferto ma che è ancora capace di dire: “C’è speranza. C’è sempre speranza.” Affermare una speranza significa ricordare che c’è una promessa, che non si è soli: “il pianista delle macerie […] non è solo. Non è un solista. È l’opera di molti: di chi gli ha passato le poesie, di chi ha spinto il pianoforte con lui, […] di chi si è fatto torturare al posto suo.” (p.339).

Aeham Ahmad è la testimonianza che quando le circostanze costringono a risposte essenziali, le melodie più significative si fanno strada. Ed è questo l’invito ad andare in profondità, non fermarsi alla famosa foto di lui fra le macerie, invita a guardare tutto il quadro e scorgere i dettagli, imparare che da soli non si è niente e che un futuro c’è, ma deriva già da quello che si va cercando ora.

Girani

Francesca Girani ha conseguito la laurea triennale in Lingue e Letterature straniere a Settembre 2020, presso l’Università Alma Mater Studiorium di Bologna, con la tesi “Quale umanità per la Siria. Il caso siriano come testimonianza di r-esistenza”, relatrice: prof.ssa Sana Darghmouni.

 

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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