Il NEGRO – di Francesco Ohazuruike (Edizioni Piemme 2018), recensione di Reginaldo Cerolini

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Una nave stilizzata in verde con la scritta troneggiante “Negro” è la copertina del più recente libro sulla tematica negri-migranti-meticciato in Italia ed Europa. L’incisiva copertina è di Nadia Morelli. Il messaggio è chiaro, si tratta di un approdo. C’è da non sottovalutare la scelta del colore, molto insolito per una nave, –verde- che suggerisce una chiave di lettura speranzosa. Il sottotitolo è persino più sfrontato ‘la verità è che non potete fare a meno di noi’. Credo proprio che quel noi significhi ‘noi negri e migranti’.

Ho visto questo testo nella stazione di Lambrate il 6 marzo e non mi sembrava vero, ho dato fondo ai risparmi (un libro a 16,90 euro, con copertina rigida, rilegato di questi tempi libreschi è una vera e propria occasione) e l’ho comprato. È un libro stampato appena a febbraio. L’ho letto in due ore tra treno e casa, anche perchè e scritto in modo scorrevole e i capitoletti brevi sono accattivanti (editoria docet!)

L’autore del libro è Francesco Ohazuruike, italiano di origini nigeriane (mai stato in Nigeria). Ad aiutarlo in questa impresa ci sono gli autori e consulenti editoriali Luca Crippa e Maurizio Onnis. Primo dubbio. Perché un autore italiano, nato e cresciuto in italia, ha bisogno di due altri autori? Per quale motivo questi autori non si limitano a fare i ghostwriter come è d’uso lasciando bellamente il nome all’autore del progetto o al prestanome? Viene un po’ da pensare ai primi libri anni novanta in cui le storie dei migranti venivano mediate da operatori sociali ed educatori col compito di tradurre e addomesticare l’italiano dello straniero. O altri casi editoriali anche molto interessanti come quello dello scrittore e libraio senegalese Pap Khouma autore di “Io venditore di elefanti”[1] insieme a Oreste Pivetti, mediati da rappresentanti di spicco della cultura.

Fatto sta che Ohazuruike ha scritto questo testo in un momento storico determinante. Mi riferisco ovviamente ai fatti di Macerata e di Firenze. Il fatto stesso che la stampa del libro li preceda di giorni o settimane, dà al testo uno sfondo completamente inimmaginabile. Apocalittico.

Il libro è una biografia mossa dal momento storico e, come abbiamo detto, è diviso in 8 brevi capitoli [2], ognuno teso a confutare la mitologia mediatica che esiste ormai su negri/migranti/meticci. Sono: 1. I negri ci rubano il lavoro, 2. I negri imbastardiscono la nostra razza, 3. I negri sono tutti criminali, 4. I negri violentano le nostre donne, 5. I negri portano le malattie, 6. I negri sono tutti terroristi, 7. I negri sono stupidi, ignoranti, inferiori, 8. I negri ci invadono.

Contro questo spauracchio mediatico sociale, lo scrittore usa la statistica ed il riferimento ai dati[3]. Si vede la tensione costante a riportare nella misura dei dati quanto sbandierato, spesso in modo inesatto se non falso, dai media e dal parlare comune, ovvero l’estetica della disinformazione.

Ohazuruike ha poi dalla sua parte 5 temi che sviluppa per creare e riportare di sé sostanzialmente l’immagine di un negro affidabile. Francesco smentisce con dati, con ironia, con pazienza e la sua verità autobiografica molti luoghi comuni. I cinque argomenti principali sono: la Fatica-Abnegazione, la Laurea, il Matrimonio Etnico, Buon-Lavoro, la Cattolicità.

Il libro è interessante perché prima di tutto testimonia la necessità di autoaffermazione[4] di un individuo, per la contingenza di fatti che superano la sua persona e la sua normalità esistenziale. Lo fa attraverso l’esperienza dislocata della propria pelle[5]. Ovvero esprime la necessità, il diritto di affermazione e legittimità.

Il testo oscilla costantemente tra l’inclusivo noi e il distinto e diverso voi. Può darsi siano solo errori editoriali dovuti alla pluralità degli autori e delle fasi di revisione, ma rimangono testimonianza in Ohazuruike di un’ambiguità del self comprensibile.

I limiti del testo, sono dovuti proprio alle sue qualità affabulatorie, simpatiche, razionali, pazienti domestiche[6] etc. Suo malgrado il testo risulta infatti lontano anni luce dal drastico mutamento del contesto italiano, mi riferisco sempre a Macerata ed a Firenze. Così l’idea di uomo di successo, con un felice matrimonio etnico e l’avvallo della cattolicità, possono invece diventare scenari distopici, perché sono ancora rarità e distanti dalla vita di centinaia se non migliaia di negri, migranti e meticci. Soprattutto si tratta di modelli storici del Buon Cittadino[7] canonizzati e imposti sempre in modo autarchico.

In ultima analisi è un buon libro sulla società italiana da un punto di vista negro.

[1] Delle molteplici attività culturali di cui Pap Khouma è artifice, come la rivista online El Ghibli, va detto anche che già nel 2010 scrisse un libro sulla tematica da titolo “Noi neri italiani”.

[2] In realtà anche il prologo è già un capitolo introduttivo “Io sono francesco”, insieme alla conclusione “Noi italiani e il razzismo”.

[3] Per la verità il testo, quando si riferisce agli articoli di giornale, manca di riferimenti e citazioni, divenendo così un pò vago e decontestualizzato.

[4] Io stesso, nel mio piccolo, come riferisco nel saggio “Nessuno conosceva il nostro nome … sì siamo negri!”, ho dovuto recentemente assumermi la responsabilità e la consapevolezza della mia umanità tramite l’esperienza della mia pelle.

[5] Sulle pagine delle trasmissioni “La7 Attualità”, appare il commento del presumibile hater Boss Boss che, dice “Sottotitolo del libro di questo invasore: “la verità è che non potete fare a meno di noi”………..e voi di La7 gli fate pubblicità???????!! Potete stare freschi assieme all’africano “italianizzato”. Il 4 Marzo gli italiani si riprenderanno il LORO paese.”. Qui il noi e il voi della distinzione è emblematico della percezione di sé e di ciò che è avvertito come altro da sé, tanto da imputare alla rete televisiva – che suppone italiana e quindi veicolo di autenticazione e certificazione dell’italianità, e conseguentemente alla difesa dell’italianità- onta traditrice di dare spazio o fare pubblicità a chi osa immaginare una dipendenza o fusione di quel noi&voi.

[6] Nel superbo capolavoro drammaturgico Dutchman di Everett LeRoj Jones, che ho avuto l’onore di vedere riproposto al National Black Theatre di New York, è ben tematizzato come la gentrificazione del negro, nell’America degli anni 50/60 passi per il necessario addomesticamento. La buona immagine di sé, deprivata di qualsiasi valenza aggressiva o problematizzazione socio-esistenziale. D’altra parte il contro-modello sembra essere un epigone del Superuomo, riproposto da sportivi e star cinematografiche e soprattutto della musica rap/trap (la musica rap/trap in realtà sono una contro estetica, che negli ultimi anni sposa una dialettica dello scazzo esacerbato a “fattanza costante” e disimpegno virale, che sono davero una curiosa forma di contro modello e resilienza, ben al di là di un giudizio di valore). Ovvero una distinzione marcata e corrosiva, secondo le leggi liberali della competizione, dell’eccellenza e della performance come fine.

[7] Tutta la questione sui negri e migranti, paure comprese, verte sulla questione cittadinanza o non cittadinanza, ovvero diritti (come quello di votare ed esprimere la propria voce) e non. E siccome i confini di questa appartenenza legale, non sono ancora definiti, la retorica politica/mediatica/opinionista con paternalismo vaglia la legittimazione su vaghi principi di efficienza, bontà, buon senso, addomesticamento, contenzione e misura. Cosa che ovviamente sarebbe scandaloso domandare ad un legittimato e legittimo italiano (qualsiasi sia il colore della sua pelle).

 

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Nato in Brasile nel 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e OmbraReligioni e Società, Il Foglio (AiBi)SagaranaEl Ghibli. Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale preso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrici, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

 

Immagine in evidenza di Tracy Allen.

Foto dell’autore di Melina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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