Il labirinto e il cerchio sacro: l’opera di Mirella Crapanzano

Salt ponds south of Trapani

Il Labirinto di Mirella Crapanzano, Il Convivio Editore, Giugno 2018, note di lettura di Franca Alaimo

Il titolo, coincidente con il soggetto poetico, richiama immediatamente un mito antichissimo che ha dato vita ad una sterminata produzione letteraria ed iconografica, a partire dall’età neolitica fino ai nostri giorni, arricchendosi, via via, di significati ed interpretazioni diverse, quasi adattandosi al variare della percezione individuale e collettiva della realtà esteriore ed interiore.

La svolta più significativa è stata determinata, nel ‘900 da Freud, che con la teorizzazione dell’inconscio, ha svelato l’esistenza dei mondi infiniti che ci abitano parallelamente a quelli dell’universo teorizzati da Einstein, mandando all’aria l’ordine razionale di Cartesio per sostituirlo con il disordine labirintico della psiche.

In ogni caso sull’idea freudiana di questo “continente interiore”, che è uno dei nuclei fondanti del pensiero dell’autrice, dirò, spero meglio, successivamente. Quello che adesso mi preme di più è fare emergere lo stretto legame che la poesia di Mirella intrattiene con moltissimi architetti e soprattutto pittori dal Novecento ad oggi, i quali, più che dalla riflessione filosofica, sembrano attingere i propri contenuti dalle scienze occulte, come, per esempio, Balla.

Torniamo, dunque, indietro, prendiamo il libro in mano, e guardiamo la copertina che è la riproduzione di un dipinto della stessa autrice intitolato “The sacred circle” (per chi non conoscesse l’inglese: Il sacro cerchio) e ne deduciamo che Mirella Crapanzano dà al percorso labirintico il valore di una prova iniziatica: si tratterebbe, in altre parole, di un viaggio avente come meta il centro, ossia quel luogo sacro da cui ha inizio ogni nascita. Nel dipinto di copertina vediamo, fra l’altro, il motivo della spirale e il simbolo dell’utero, assolutamente complementari l’uno all’altro.

Il simbolo della spirale così frequente nella pittura di Balla, come scrive Verzotti, nelle scienze occulte ha una funzione simbolica vicina, o equivalente, a quella del labirinto. Il simbolo dell’utero, usato dall’autrice, non è nemmeno esso una sua invenzione, se già dalla preistoria il principale significato del labirinto sarebbe quello dell’utero, del grembo materno da cui si è partiti e al cui ritorno si anela in una sorta di annichilimento, dal quale, in seguito, ha di nuovo inizio la vita.

Tutto questo discorso non è una forzatura, in quanto Mirella Crapanzano, originale pittrice così come poeta affatto inquadrabile in qualsivoglia corrente o scuola, sottolinea con questo libro la perfetta coincidenza del suo personalissimo immaginario iconico con quello verbale, teso, attraverso invenzioni di difficile traduzione, alle altezze mitiche del soggetto.

Basterà, dunque, tenere presente quanto detto fino a questo momento per cominciare la lettura di questo itinerario labirintico che l’autrice traccia attraverso 31 testi, che, privi di titoli (rari, invece, i segni d’interpunzione), sono caratterizzarti da un ritmo poematico, come sottolinea il prefatore Giuseppe Manitta. stazioni di un itinerario verso il monstrum, l’ambivalente termine latino che indica tanto l’orrore che il prodigio.

E, visto che siamo passati a considerare l’immaginario verbale dell’autrice, mi sembra molto utile citare Bonito Oliva che in un saggio sul labirinto, scrive che ogni artista, come l’eroe Teseo, munito di spada, di gomitolo di filo e del proprio coraggio, esplora con il suo linguaggio il labirinto per eliminare la bestia e risalire alla luce.

Il lessico dell’autrice, in cui tutti i simboli del mito (il labirinto, in primis, che ricorre dodici volte, il gomitolo, il filo) accoglie molti altri archetipi, come la terra, l’acqua, il buio e la luce, che si caricano, però, di sensi ed emozioni personali.

Infatti, il percorso di Mirella non è una proiezione mentale, ma un reale inabissamento nel proprio continente, come prima si diceva, o labirinto interiore, sulle cui pareti la memoria personale e collettiva (quella specie di recipiente cosmico di cui parla Jung) hanno lasciato strani geroglifici e incisioni da interpretare perché dal confuso gomitolo del nostro essere ed essere stati possa venire fuori quel filo che lega insieme, che offra un appiglio, per quanto sottile possa essere, utile a non smarrire se stessi.

Le emozioni, anche se declinate attraverso metafore e archetipi, balzano fuori violentemente da questo narrato simbolico, caricandolo di una continua tensione (appena alleggerita dall’affioramento di qualche punto luminoso) che si scioglie solo nel testo finale.

È come se l’autrice tentasse di innervare la propria biografia, il proprio mondo interiore, in un sistema di metafore del profondo; per esempio, trovare nel suo labirinto l’acqua, elemento estraneo all’antico mito, se provoca da una parte un improvviso, forte stupore, dall’altra parte favorisce un salto interpretativo che rimanda (al di là delle acque dell’utero/uroboro, di cui, come si diceva il labirinto è simbolo) al territorio nativo che illumina i versi di Terracqua – titolo di un’altra raccolta del 2016 della Crapanzano – e a quel mare di Sicilia in cui il suo corpo bambino fu avvolto come da un lavacro sacro, mare culla e sposalizio: “la bambina ha squame d’oro/ abita voci di tartarughe/ le mani incrostate da unioni anfibie/ si confonde con i fondali verdazzurri” scrive in Terracqua e in Il Labirinto: “aspiro l’odore/ che fa la terra umida/ sempre ho il sentore/ di una dimora sconosciuta/ l’acqua allaga custodisce la memoria/ il tempo, la distanza…”

Ma sospendere il viaggio entronautico sulla soglia dello stupore infantile sarebbe una facile e infeconda soluzione per l’autrice, che, volendo invece raggiungere una qualche verità, accetta come Teseo, la sfida di accedere al centro, al monstrum della propria psiche adulta, indagandone coraggiosamente tutto il buio fra smarrimento e paura, tracce e presagi di morte.

Il filo rosso delle parole si sgomitola fra coppie oppositive, attraversa l’incandescenza del mistero, la stanza enigmatica dell’anima con i suoi indecifrabili oggetti, dà voce alle lacerazioni intime, privilegia il ritmo ripetitivo proprio dei simboli, tentando comunque un approdo.

Sembra, ad un certo punto, che le venga incontro una figura amorosa: è il “tu” che irrompe nei versi evidenziando il desiderio di un dialogo, di una relazione affettiva; e non importa che quest’ultima sia immersa nel fragile tessuto del tempo terreno, perché “che sia breve poco importa – si legge nel testo a pagina 33 – è un breve che ripaga d’ altre vite/ ad uscire da se stessi: la notte si fa chiara”.

In questo modo, l’io, dopo un rito di spoliazione e ridefinizione di sé, incontrando il tu e con esso l’amore, si apre verso una direzione salvifica. Già a partire, infatti, dal ventisettesimo testo si insinua una nuova chiarità: è il preludio a quel canto di guarigione che suggella l’ultimo testo, che dice: “il velo squarciato manifesta l’oltre/ un canto di guarigione/ a strapiombo sull’incertezza/ è un faro”. Non è certamente la fine del viaggio, ma l’inizio di una navigazione meno incerta ed angosciante, ora che il canto a strapiombo sull’incertezza è simile a un faro che squarcia la tenebra.

Né d’altra parte c’era da attendersi un esito diverso da parte della poeta: è la parola a traghettare ogni cosa dal pensiero alla materializzazione della scrittura; è la musica che fanno le parole accostate le une alle altre a generare armonia. Non per niente la poesia di Mirella Crapanzano suona e anche fortemente tra reiterazioni, rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, e altri legami che trasformano le parole quasi in un flusso acquoreo incessante.

È, insomma, quella della Crapanzano una poesia che scavalca se stessa, che genera echi, che spesso si sottrae ad una comprensione totale e diventa essa stessa segnale, oltre che insieme di segni, tensione evocativa piuttosto che definizione.

Franca Alaimo

I

torno al mio centro

all’isola senza confini

isola d’acqua fonda

che l’Essere conosce

torno e il mio tempo

diviene terra, materia

da plasmare

si srotola in un filo

un punto oltre l’orizzonte

oltre le ombre

tiene sgombra la mente

mi allena al vuoto

il mio tempo, la mia origine

dentro la terra

sta tutto in un gomitolo

VI

da quale distanza arriva

questo silenzio

replico l’oro, l’essenza

il gesto misurato

una combinazione alchemica

predispone la mia esistenza

a un richiamo

vi è forse una ragione

per indagare l’inquietudine

che sempre mi appartiene?

XXII

sono asimmetrica, imperfetta

una gocciola su terra nuda

scura, imbevo di sogni l’oro

dei miei occhi, il verde acqua

affiora, incessante, dalla pelle

cosa resta se non la brevità

un bagliore di bellezza

consapevole

in quel bagliore una visione

Immagine in evidenza: Foto di Marvin Collins.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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