IL GIORNO PIÙ LUNGO – Tullio Bugari

SANTO DOMINGO 2013

 

Dedicato ai Martiri del XX giugno

 

 

 

Il venti giugno del ’44 fu una notte di luna nera, o luna nuova. L’ho controllato sul calendario lunare. Non so se quella notte il cielo fosse limpido o nuvoloso. Ritengo probabile la seconda possibilità ma non so se sia per la suggestione di qualcos’altro, o per un frammento di racconto diretto udito da ragazzo.

Le suggestioni più nitide riguardano le urla dei ragazzi, udite da tanti quella notte. Anche dai familiari, o almeno quelli che abitavano nel quartiere. Due di loro, una madre e una sorella, le ho sentite qualche anno dopo che lo raccontavano a mia madre.

Ero nella stanza vicina e fui scosso dalla ripetizione di grida simili. O quasi, perché neanche il dolore di un familiare può riprodurle simili, anche se l’eco che risvegliano, quello sì, può essere davvero di nuovo lancinante. Poi mia madre me lo rinarrò, riproducendo per me quelle grida che avevano toccato le sue corde interne.

Il venti giugno fu una notte di luna nera, l’ho descritta così nella canzone a loro dedicata, sette lucciole perse nel grano, un inno alla leggerezza, come un sollievo tardivo su quelle ferite, perché i ricordi hanno bisogno di leggerezza per continuare a volare.

Il ventuno giugno fu il giorno più lungo, non solo per il solstizio d’estate ma per l’attesa, più straziante ancora della notte per la lacerazione indicibile già avvenuta, e nell’assenza dei corpi dei ragazzi, sottratti ai nostri sguardi dagli stessi omicidi, che si erano incanagliti a vicenda per infierire godendo del loro scempio, e poi grottescamente avevano ritratto la mano che li aveva eccitati. Ma non era una vergogna tardiva. Ho sempre creduto che sia il timore di una vendetta, perché quando loro si placano e vedono coi loro occhi di cosa è capace la ferocia cieca, iniziano a temere che il dolore della vendetta possa essere ancora più terribile. Ho sempre creduto che sia soltanto questo dubbio a insinuarsi in loro, e ritraggono la mano, cercano di camuffarsi.

Noi preferiamo la giustizia, che non dovrebbe essere meno implacabile, come quelle stesse menti vorrebbero farci credere, camuffando la loro mano, continuando a scommettere sulla nostra debolezza.

Noi non siamo deboli, loro hanno approfittato di una rappresaglia improvvisa. Sono venuti come un’orda pronta a razziare. Poi preferiscono nasconderlo. Hanno nascosto i corpi dei ragazzi.

Il ventuno giugno è il giorno più lungo ma si deve attendere di nuovo la notte.

Ho rivisto molte volte nella mia immaginazione quelle due donne, forse avvolte con uno scialle sulle spalle, che s’inoltrano nella campagna buia. Affondano nella terra umida, spariscono quasi alla vista una dall’altra perché la notte è di nuovo nera,  non trattengono il pianto e le lacrime che fanno vacillare il loro passo, mentre si cercano con le mani per darsi coraggio. Per ricordarsi che loro il coraggio lo hanno già, non sarebbero lì altrimenti.

Avanzano. Per orientarsi non possono fare altro che rievocare quelle grida e seguirne la direzione. Erano sette i ragazzi e le grida si moltiplicano, le sentono ovunque attorno che si agitano sgomente, non vorrebbero perdersi, tentano d’aggrapparsi al loro passo, le graffiano sulle orecchie gettano loro addosso la propria lacerazione.

Loro avanzano e resistono. Il passo affonda, il terreno nasconde buche e fossi, ora sembra scendere e scivolare giù poi sentono il gorgoglio di un’acqua che non si capisce se scorre o rigira su se stessa perché qualcosa la intralcia. S’aggrappano tra loro inciampano scendono scivolano arrivano sul fondo di quello che nel buio appare un burrone dal quale nessuno può risalire da solo: come potrebbe riuscirci un ragazzo ferito nei suoi anni più belli? Lo trovano così, riverso con la faccia in giù, scomposto nella posizione. Non lo hanno adagiato.

Lo guardano, all’inizio non vedono nulla, soltanto qualcosa che sanno già che cosa è, ed è già straziante così. Poi lo vedono davvero e non sanno più che cosa è. Ci dev’essere un’altra mente nascosta dentro noi stessi che ci aiuta comunque a trovare dei gesti, quando servono. Lo spostano un poco, lo girano, cercano un qualche conforto che non è più possibile, lavano via con delicatezza i grumi sul suo corpo.

Non so ricordare a distanza di anni le parole esatte di quel racconto, mescolate nel tempo con altre di rievocazioni e cronache, ho conservato soltanto il loro eco, che sento ancora bene ogni volta che ci ripenso. Intendo l’eco del loro racconto e non delle grida dei ragazzi, quelle, per quanto possa sforzarmi, continuo a immaginarle silenziose nel buio di quella notte nera.

*

Il racconto si è classificato secondo al concorso Letterario Nazionale “Inchiostro e Memoria” dell’Anpi di Rescaldina, 6^ edizione, 2020; ai Martiri del XX giugno abbiamo dedicato anche una canzone, “Sette lucciole nel grano”: https://youtu.be/L1thAnjxTCo

 

 

Immagine di copertina: Foto di en nico, Santo Domingo.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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