Il corpo migrante (Kweli Jaoko)

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“la produzione di un corpo meno esausto, alienato e intorpidito”

Elizabeth Povinelli, Economies of abandonment

 

“no eye focus, no body focus”

-Fred Moten, The Feel Trio

 

Volevo scrivere sulla mia lettura de “il” corpo migrante, ma non ne sono stato e non ne sono capace. Tutto quel che ho sono frammenti e non li posso cucire con punti di sutura in un unico blocco. Per esempio, come i pantaloni da yoga e le tute atletiche diventano strategiche quando sono adornate dal corpo migrante. O come “consumato” si trasforma in “formoso” sotto l’indumento di Lycra quando la donna delle pulizie, parlando spagnolo, bussa alla porta sbagliata di una camera di hotel. O ridurre alla parola Swahili ufundi (maestria dell’artigiano) i corpi bianchi desiderabili, che indossano pantaloni da yoga e jeans stretti, come ha fatto il mio amico (al bar davanti alla birretta artigianale “Snake Eyes”), sfruttando quelle memorie di artigiani poco onesti che gli veniva del proprio paese d’origine. O come sono arrivato a capire come un corpo possa diventare monolingue, cosa che mi facilita perdonare Nabokov. Oppure, come i corpi che desideriamo spariscano svoltato l’angolo mentre cerchiamo di ricordare di non considerare i benestanti attraenti. O la boria del documento – il sogno che la gamba claudicante di un “clandestino” diventi il passo saltellante di gioia una volta acquisiti gli agognati documenti. Così come la guarigione dalla tendinite dell’iliaco nell’anca destra e dello psoas della destra, provocati entrambi da un lavoro che odiamo. Oppure l’indennizzo per infortuni sul lavoro che non abbiamo mai ricevuto. O i denti che non ci possiamo permettere di curare o i nostri corpi epilettici che si lasciano andare a piccole scosse. O l’altro mio amico che vuole far venire sua madre dalla Nigeria in aereo per controlli medici. O le nostre battaglie per trovare vestiti di taglia giusta. Nel frattempo la commessa fa battutine su Veneri Ottentotte, ma non parla di Sarah Baartman. O i corpi morti che non si sono potuti rimpatriare abbastanza in fretta o mai perché “è successo qualcosa” e il nostro essere apolidi che continua ad essere il nostro segreto di Pulcinella. O le sedute di agopuntura a prezzi ribassati per cui non abbiamo mai fatto appuntamento anche quando i nostri amici ci scongiuravano di farlo. O la delusione quando la diagnosi è di “malattia cronica” ma non terminale, tipo un’ulcera da stress piuttosto che “cancro allo stomaco”. O uno pseudo- accento americano. O usare l’acido kojico per “trattare” l’iperpigmentazione della nostra pelle nera. O il corpo nero che disfa la disposizione del desiderio “perché è proprio lì davanti ai nostri occhi ma fuori dal nostro campo visivo”. O il “Di dove sei, originariamente?” O il “Non sei nero sei Africano” – una razza sottocoperta, infatti sotto il mare, nelle profondità marine. O il corpo nero che attraversa il Mediterraneo nella stiva (più scura la pelle, più in fondo ti mettono nel barcone o nella nave sgarrupata). O i corpi neri morti che galleggiano sull’acqua. O il fatto che ti toccano il corpo perquisendoti a tutti e 4 gli aeroporti. O la viscosa resistenza aerodinamica del corpo nero immigrato che precipita attraverso lo spazio bianco, incapace di assumere la velocità terminale. Oppure il corpo che dimostra il confine, è il confine, lo sfonda, lo fa esplodere, lo moltiplica, ci si aggira dentro come uno spettro, lo deride, lo dichiara opinabile e immutabile, lo cavalca, lo sfrega, come un palpatore di quantum sanguinei che ci porta fino al limite fino a quando siamo vicini – il confine: il corpo che diventa bersaglio per milizie. O l’affermazione “sono libero da droghe e malattie” espressione vernacolare che non si applica ai corpi provenienti da ‘lì’. O lo stress post traumatico di un corpo che non riesce mai a finire di trasferirsi perché “la mappa non è il territorio”. O il corpo leso più volte dalla sovranità assente della ferita. O la perenne ipoglicemia del corpo che trova il cibo ‘qui’ insapore. O il corpo il cui disincanto diasporico si manifesta come incapacità di alzarsi dal letto. O il corpo esausto che non si rappresenta come resiliente, perché sente il peso. O la mano che scrive questo articolo—

 

Dal post https://kweligee.wordpress.com/2015/12/28/the-migrant-body/ Bring me the African guy, 2015

 

 

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Kweli Jaoko è uno scrittore che abita aPortland, in Oregon. Molto apprezzato come blogger, seguitelo su https://kweligee.wordpress.com 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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