In questa epoca incerta in cui il grande inconscio collettivo sembra essere una sommatoria di techno narcisismi incrociati, i Teatri di Vita, consacrati allo stare nelle cose, nella profonda natura dell’Umano, della Storia e naturalmente del Teatro da un punto di osservazione decentrato anche geograficamente e che sa vedere lontano, accettano la sfida di coniugare il tema del mito nella programmazione di questa stagione 2017/2018. Scelta coraggiosa, si diceva perché non semplice appare collocare il mito stesso dentro griglie antropologiche in questo momento convincenti.
Andrea Adriatico, non è regista e architetto-urbanista facile agli spaventi e allestisce così, con la sapiente collaborazione drammaturgica di Grazia Verasani, nutrita anche di fonti storico documentarie, una partitura tragica per un coro paradossalmente, ma non tanto, di assoli, in cui la violenza evocata o persino agita, stigma del ’77, si fa fuori scena, compreso lo sparo – colpo di teatro – tra le gradinate del pubblico. Sparo che ci precipita nell’epos appunto, settantasettino, considerato a partire dall’uccisione dello studente Francesco Lorusso, avvenuta ad opera delle Forze dell’Ordine, in discutibile regime di Legge Reale.
Uno dei miti, se vogliamo, più controversi della nostra storia recente per ragioni intrinseche alla natura costitutiva del mito stesso e cioè la sua capacità di elevarsi al di sopra del contingente e il suo perdurare nell’essenza straordinariamente fondativa di qualche categoria umana nel senso più elevato. Siamo infatti sicuri che la particolare memoria legata ai cosiddetti fatti del ’77 sia cosi leggendaria, imperitura, condivisa da assurgere all’universale? O invece non esista piuttosto una sorta di opaca reticenza su tutto ciò che riguarda i nostri anni ’70, la loro complessità tradotta in pesantezza plumbea del piombo per differenti ragioni opportunistico-semplificatorie? O addirittura siamo al cospetto di una sorta di damnatio memoriae per tutti i conflitti che non furono mai in fondo sciolti? Siamo altresì certi che la memoria di quegli eventi e i protagonisti degli stessi, vivi, morti, zombies del presente che siano, trascendano un periodo così circoscritto e anche geolocalizzato? Tutto da vedere poi, se ideali e martirologi d’antan siano stati di grande respiro e larga condivisione o se invece siano bagaglio ingombrante di ricordi di chi può dire: c’ero anch’io e tanto basti; lo scatto d’orgoglio del reduce oltre la consapevolezza.
Possiamo forse dire che la figura di Francesco Lorusso, tutto sommato sempre cosi statica e sullo sfondo, come accidente da pochi preventivato, possa assurgere alla esemplarità delle figure eroiche, in virtù dei tanti nostri “Francesco è vivo e lotta insieme a noi”, scanditi a squarciagola? Mantra propiziatorio di immortalità cui non abbiamo mai creduto, gridando più fiocamente in seguito e virando verso un altrettanto illusorio “No future”?
Dobbiamo forse inserire quella storia nell’eternarsi della vicenda dell’insepolto nella polis? Antigone che veste il sembiante del freak della giustizia conculcata in nome della legalità? Una storia di borders interdetti, di Cerchi di Gesso, di ciò che vorresti inscrivere e non puoi, un mito lontano di tribù indiane all’assalto dei Pascoli del Cielo? O, ancora, la trasgressione morale di una sola generazione che leggeva troppi fumetti, mito, poi nella vulgata pop, di vite spericolate e sfilacciate? Un mito forse di Dolce Ala della Giovinezza, come a decadi poi ricorre, un mito che è il sogno di una cosa e dunque quel volto tumefatto, quel clown triste, quel drago e quel funerale sfuggente fuori dalle mura e poi ancora no, eppoi ancora chissà: il mito sono tante parzialità persino stridenti tra loro ancora oggi, tanti miti che è come voler dire nessuno.
Il merito principale del lavoro di Adriatico, Verasani e un pool di attori motivati e magnetici, nonostante la prevalente e pregnantissima incorporeità, sollecitata dall’artificio drammaturgico dell’essere “on the air”, sta nell’affrontare di petto tutte questi interrogativi, asciugandoli in un unico quesito dirimente: se cioè non siamo davanti al dispiegarsi, nell’affabulare accavallato e frammentato delle voci, di tante mitologie individualizzate, a sottolineare la cifra di fine ciclo di storia collettiva e l’intravedersi di qualcosa a venire, interpretazione maggioritaria della rivolta fine anni ’70, da parte degli storici di oggi.
Per far questo, con asciuttezza esemplare, dopo gli spari fatali e mentre disegna uno spettacolo tutto in bianco, nero e grigio, Adriatico ci mostra con filmati d’epoca e voce oggettivante apparentemente fuori campo, la biografia né eroica né bohémienne di Francesco (troppo spesso obliata), che casomai ce lo restituisce come ultimo epigono di una Meglio Gioventù, quella sì, mitica e vittima designata di quello stesso Moloch che ne aveva del resto eliminato brutalmente il cantore poco prima. Una vittima non compatita tuttavia, cui la scrittura piana, ma non corriva e priva di facili ammiccamenti di Verasani, rende affetto e dignità individuale e corale: prima le persone, per i simboli e i portabandiera, poi vediamo, nonostante la filologica contestualizzazione di Francesco nei movimenti e nelle lotte.
Il lavoro prosegue senza sbavature e miracolosamente compatto nonostante la sua cifra espressiva risieda nella pluralità delle voci, nell’attraversamento di generi e generazioni, senza dei quali del resto, non si può neppure cominciare a parlare di Mito. La narrazione di ieri e dell’oggi si snoda credibile per gli spettatori tramite l’intercessione mediatica e medianica della speaker radiofonica e dei suoi programmaticamente randomici interlocutori, ed efficace perché in filigrana mette in gioco gli autori stessi: troviamo infatti nelle pieghe dei discorsi Pasolini, appunto, e anche Roversi, due maestri dei nostri tempi, cosicché il racconto che si vien facendo, tutelato da questi, è per noi ed è anche il loro, nello stesso tempo.
Del resto, l’attenzione che Roversi dedicò a caldo, nei giorni brucianti del post omicidio alla “città”, alla sua impotenza a gestire lutto e diversità, a coniugare, cortei e vetrine, centri e periferie, metaforici e non, fa certo parte dell’approccio umanistico alle discipline urbanistiche di Adriatico. Così, nello spettacolo, attraversamento territoriale, i mezzi di trasporto più o meno scalcagnati, l’immaginario filmico degli ultimi decenni, tantissima suggestione poetica tra Koltès e Leopardi, depositano un humus emotivo su cui si genera una disperazione: i nostri testimoni appesi alle cronache rapsodiche della speaker sembrano condannati ad essere veggenti accecati, cui per motivi opposti riesce di vedere i fatti ma non i nessi tra quel prima di cui si parla, per via della ricorrenza di quell’undici marzo, come del resto accade anche per i pensosi convegni di studio più blasonati, e questo oggi che non garantisce ad alcuno un ubi consistam. Non per caso, ma con rivelatoria intenzione, la notizia dell’oggi è quella relativa a fatti drammatici all’interno di un CIE per migranti che si conclude con il cupio? dissolvi di un incendio e che ci insinua il dubbio persistente di una inguaribile autoreferenzialità che rende i nostri miti così traballanti.
I nostri amici di viaggio, la ragazza degli anni ’70 in macchina, il “giovane di oggi” in motorino, fanno i conti con una realtà che dilatando i suoi confini spaziotemporali, come si sarebbe forse potuto intuire eppure non è stato ben afferrato, rende quella personale paradossalmente molto molto piccola, costretta al pendolarismo e dondolio beckettiani tra miserie quotidiane ed ossessioni.
Nonostante momenti brillanti e tanta musica accattivante sapientemente emanata dalla emittente novella Virgilio nei nostri inferni esistenziali (del resto Sartre è stata la fatica autorale di Adriatico antecedente a questa), il tono è complessivamente dolente. La Pietas sembra infine accarezzare i nostri personaggi e il pubblico con loro, preservandoli in qualche modo da sterili rimpianti e nichilismi languorosi.
Alla fine del “trip” in Borgo Panigale, vissuto ancora una volta da chi assiste, come la impropria realtà dei sogni, quando gli attori effettivamente motorizzati raggiungono il territorio del sacro, cioè lo spazio teatrale e si palesano in carne ed ossa, ribadendosi ombre dei tanti aspetti del mito, non possiamo che concludere come questa epica del ’77 e forse tante altre simili, siano in fondo lo spaesamento prodotto da una mancanza, dal nostro difettare originario. Tutte le cose che non abbiamo affrontato sono ancora là, ma quando la trasmissione finirà e la nuttata passerà, ci sarà tanto da ri-costruire o da rivedere, ci saranno ancora giustizia ed equità da richiedere con forza.
Chiedi chi era Francesco
uno spettacolo di Andrea Adriatico
drammaturgia di Grazia Verasani
con Olga Durano, Francesca Mazza, Gianluca Enria, Leonardo Bianconi
e con Francesco Martino e Davis Tagliaferro
scene e costumi Andrea Barberini
cura scenotecnica Giovanni Santecchia, Carlo Strata, Francesco Zanuccoli
cura organizzativa Saverio Peschechera
grazie a Stefano Casi, Franca Menneas, Beppe Ramina, Enrico Scuro
una produzione Teatri di Vita
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
Foto dello spettacolo di Michele Tornaiuoli.
Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo