“Siamo tutti uguali”. Non so quante volte l’avrò sentito dire o affermare; penso che se mi avessero dato una moneta ogni volta che l’ho sentita, oggi sarei milionario… beh non proprio milionario, ma diciamo che probabilmente avrei qualche centinaia di euro in più sul mio conto; il che non sarebbe un male… coi tempi che corrono… Anche se oggettivamente non è vero. È solo una di quelle frasi che usiamo tutti i giorni per far capire o per esprimere un numero abbastanza importante. Un po’ come la frase: “siamo tutti uguali”, che mi è sempre sembrata una di quelle frasi che viene usata per uscire da situazioni particolarmente imbarazzanti o quando non riusciamo a trovare una risposta giusta ad una situazione; insomma il suo uso mi ha sempre lasciato qualche perplessità; non perché sono particolarmente pignolo, ma semplicemente perché pensando a tutto lo sforzo che fa o ha sempre fatto la natura per creare, ogni volta, un individuo completamente (forse dire “completamente” è un po’ forzato lo ammetto) diverso dall’altro o dalla generazione precedente, mi sembra un po’ riduttivo o quanto meno incompleto pronunciare tale affermazione.
Diciamo che per renderla completa, preferirei aggiungere una piccola parte, e la frase diventerebbe: Siamo tutti uguali e siamo tutti diversi”. Sì, così suona molto meglio; almeno per quanto mi riguarda. Anche perché preferisco pensare che siamo tutti diversi in quanto individui e siamo tutti uguali in quanto Uomini.
A volte può risultare difficile rimanere oggettivo nel dover affrontare certi argomenti; soprattutto quando si tratta di argomenti che ci toccano a livello molto personale. D’altra parte, rimanere il più possibile oggettivo ci può permettere non soltanto di avere il giusto punto di vista ma anche e soprattutto di definire metodi e regole che saranno utili per noi stessi ma anche per eventuali altre persone… e perché no, per la società in generale.
Nel suo libro “Al di là del bene e del male”, Friedrich Nietzsche affermava che: “Chi combatte con i mostri, deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro.” Indicando così il fatto che a volte nella nostra volontà di combattere contro eventuali ingiustizie, esiste un rischio concreto di passare dall’altra parte della barriera e di diventare anche noi o di definire anche noi delle regole che siano ingiuste per gli altri. In questo caso dunque, diventa fondamentale riuscire a fare delle considerazioni giuste e soprattutto trovare un metodo in grado di guidarci passo dopo passo verso la ricerca di quello che può essere un sistema equo per tutti… o almeno per gli elementi che stiamo prendendo in considerazione.
Avendo già una certa predisposizione naturale per i dubbi, era ovvio che il metodo che avrei usto sarebbe stato quello cartesiano e che l’ultima cosa (e forse anche quella più importate) era scegliere quali potevano essere gli elementi da considerare e che per riuscire a farlo con uno spirito di “assoluto” discernimento, sarei dovuto “scendere sul campo”… insomma fare una sorta di “scuola della vita”(“scuola”, non “università” della vita semplicemente perché se l’università ci permette di scegliere quello che sarà il nostro percorso professionale, la scuola è quella parte del nostro percorso di crescita che ci insegna più o meno il saper vivere ed adattarsi nella società in generale) ; del resto, alcuni anni fa scrissi un testo che si intitolava “La scuola della vita”; testo che di libro aveva solo il nome e cioè “libro” per l’appunto; ma che, come sostanza, conteneva alcuni elementi molto interessanti che mi avrebbero accompagnato durante questo percorso. Devo ammettere che certe volte, mi sono più concentrato sulla sostanza più che sulla forma… anche se dall’altra parte posso anche dire che mi considero un discreto estimatore della bellezza; non come oggetto da desiderare o da possedere, ma piuttosto come concetto da studiare, analizzare e forse anche da approfondire.
“Scuola della vita” quindi nello scopo di cercare di capire una società che, forse, sta ancora cercando di capire come affrontare il problema dell’integrazione… e che quindi, era importante fare una sorta di diagnosi della situazione (cercherò in tutto questo articolo di usare il meno possibile altri termini medici… sì, avete indovinato; questo è un punto un pochino dolente… detto così può sembrare un eufemismo e infatti lo è).
Nel 2020, a seguito della tragica morte di George Floyd, nella città di Minneapolis, in Minnesota negli Stati Uniti, migliaia di persone scesero in piazza per manifestare contro l’ennesimo caso di violenza della polizia contro una persona nera; tra tutti quei manifestanti, c’era anche il movimento “Black Life Matter”; movimento nato qualche anno prima, nel 2013 nello scopo di “contrastare il razzismo sistemico nei confronti dei neri”. Successivamente, quelle manifestazioni “targate” “Black Life Matter” si estesero a livello nazionale, poi anche in altri paesi del mondo… Italia compreso.
Nato inizialmente come manifestazione per il sostegno a quello che stava succedendo negli Stati Uniti, il Black Life Matter (Italia) si è poi (in qualche modo) evoluto, cercando di diventare un movimento per la difesa dei diritti dei neri anche in Italia… il che non si è rivelato essere quello che si potrebbe chiamare una “mossa azzeccata”; forse nella forma poteva anche essere un’occasione per cercare di attirare l’attenzione sulle questione del razzismo e dell’integrazione in Italia ma sicuramente nella sostanza c’erano troppi elementi mancanti; e visto che, come detto prima, ho una certa preferenza per la sostanza, cerchiamo di capire un po’ la questione dell’integrazione in Italia.
Prima di tutto, bisogna dire che rispetto agli altri paesi come la Francia, l’Inghilterra o gli Stati Uniti, l’immigrazione (in generale) in Italia è molto giovane; basta pensare che è “solo” nel 1973 che l’Italia ebbe per la prima volta un saldo migratorio positivo (che era più che altro costituito in gran parte da emigrati italiani che rientravano nel paese), che la prima legge sulla regolarizzazione degli immigrati venne varata nel 1986.
Se prendiamo per esempio il caso della Francia, Aimé Césaire introduceva nel terzo numero della rivista “L’étudiant Noir” (Lo Studente Nero), il termine “Négritude” (Negritudine); termine col quale per la prima volta ad affrontare il problema dell’integrazione nella società francese. La Negritudine venne poi adottata e sviluppata da altri intellettuali Neri e non solo; in sostanza, la Negritudine fu un movimento letterario, culturale e politico avendo come scopo di riconoscere l’insieme di caratteristiche e valori culturali appartenenti al “popolo nero”.
Con quel movimento, si posero le basi di quello che sarebbe diventato il modello o il modo di affrontare la questione dell’integrazione in Francia. Ovviamente non tutti gli intellettuali furono d’accordo con la Negritudine (col termine non come concetto); lo stesso Césaire se ne allontanò progressivamente ed infatti nel suo testo : “Discorso sul colonialismo”, dice: “ Spero di non ferire nessuno confessando di non amare, almeno non sempre, il termine “Negritudine”, anche se sono stato io, con la complicità qualche altra persona, ad aver contribuito principalmente alla sua invenzione e al suo lancio.”
Gli Stati Uniti, che hanno una storia di immigrazione molto diversa da quella della Francia, ha anch’esso dovuto lottare negli anni per raggiungere il livello culturale sociale che abbiamo adesso; che, e bisogna riconoscerlo, non è perfetto, ma molto migliorabile; infatti, Black Live Matter, in un certo senso, può essere considerato una forma di proseguimento delle lotte per i diritti avvenute nel corso della storia. Basta pensare alle “ Marce da Selma a Montgomery” che furono tre marce di protesta del 1965, che hanno segnato la storia del “movimento per i diritti degli afroamericani” e che portarono alcuni mesi dopo, alla fine delle discriminazioni che impedivano agli afroamericani di iscriversi alle liste elettorali.
Si potrebbe anche citare il famoso discorso di Martin Luther King Jr, “I have a dream”, tenuto il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington alla fine di una manifestazione per i diritti civili nota come la “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”.
Per quanto riguarda l’Italia, partiamo dal principio che non si può ridurre una persona alla sua sola rappresentazione fenotipica; che si tratti di una persona anziana, di una persona diversamente abile, del colore della pelle o ancora dell’identità di genere; e come già accennato precedentemente, l’immigrazione è molto giovane e forse ha avuto una certa importanza anche il tipo di immigrazione che per la maggior parte è sempre stata lavorativa e quindi forse il fattore della lingua è anche stato un grande freno rispetto ai paesi come la Francia o l’Inghilterra in cui, avendo una storia di colonizzazione, gli immigrati che venivano conoscevano già la lingua e forse anche il modello societario. Basta pensare che forse il primo grande movimento sociale in Italia per quanto riguarda la questione dell’integrazione fu la “Rete delle seconde generazioni” nato all’inizio degli anni 2010.
Per questo motivo dunque, non penso che sia utile cercare di ricreare una sorta di “Negritudine” (non siamo più nella Francia degli anni 30) oppure copiare le lotte degli anni 70 o 80 negli Stati Uniti o anche certe lotte di oggi come “Black Life Matter”; semplicemente perché non è lo stesso tipo di società e non abbiamo lo stesso tipo di modello sociale. Sarebbe comunque utile prendere come esempio e trarre delle lezioni da quello che ha funzionato, quello che non ha funzionato (e il perché) e quello che non continua a funzionare in quegli altri paesi per riuscire, partendo da quelli, a definire delle strategie giuste e adatte alla nostra società; così facendo, riusciremo (forse) a creare una società giusta e adatta a tutti noi… questo semplicemente perché, al di là di ogni forma di considerazione filosofica, la verità è un percorso che ha bisogno di una sostanza per esistere, e quella sostanza siamo noi in quanto Uomini.
PS: Vorrei terminare questo articolo facendo qualche considerazione sull’espressione “ di colore”; ma prima di iniziare, permettetemi di soffermarmi su due parole che ho sempre trovato linguisticamente interessanti: “connotazione” e “denotazione”.
La denotazione può essere definita come l’elemento significativo stabile e oggettivo di una unità lessicale, indipendente da ogni elemento soggettivo o affettivo che essa può avere nel contesto di una frase; in pratica, possiamo dire che quando si parla della denotazione di una parola, si parla del suo significato “vero”, “autentico”. La connotazione invece per quanto riguarda una parola, è per esempio il significato accessorio, che consiste nelle sfumature di ordine soggettivo e cioè allusivo, evocativo, affettivo che accompagnano l’uso della parola… se prendiamo adesso la parola “Nero”, andando a considerare solo la denotazione, la maggior parte di noi penseranno solo al colore nero; ma viene usato in diverse espressioni tutte con connotazioni negative e forse questo è il motivo per il quale “è stato necessario” trovare un’altra espressione per indicare il colore della pelle delle persone Nere, e cioè “ di colore”, che, se vogliamo solo considerare la denotazione, non ha nessun significato; perché se vogliamo definirla, la sua definizione comincerebbe probabilmente con “espressione usata per…”.
Sorgono dunque, quasi automaticamente, dei dubbi sul perché sia meglio usare un’espressione priva di denotazione per indicare qualcosa di assolutamente normale quando, esiste già una parola con significato (denotazione e connotazione compresi) appropriato per indicarlo.
Gaius Tsaamo: Nato nel 1986 a Douala. Arrivato in Italia nel 2008 per studiare medicina. appassionato di letteratura e di poesia; il suo primo libro è uscito nel 2013 con il titolo: “L’école de la vie” dalla casa editrice (On demand) Lulu. collabora con “Multiversi” e ha partecipato alla realizzazione di ” Sotto il cielo di Lampedusa 2- Nessun uomo è un’isola”. Il suo primo romanzo in italiano “Maya, il mondo degli spiriti” è uscito nel 2015 per qudulibri.
Immagine di copertina: Opera di Enrica Luceri e Francesca Brà.