Miguel Duarte ha 26 anni e viene da una piccola città dell’entroterra portoghese. In uno degli innumerevoli messaggi di solidarietà che ha ricevuto negli ultimi mesi, un’anziana signora gli ha chiesto: “ma perché gli italiani sono venuti a portare la guerra in questo angolino tranquillo del mondo?”. Già, di guerra un po’ si tratta, perché Miguel è il primo portoghese a rischiare 20 anni di prigione in Italia per aver preso parte ad una missione di “recupero marittimo”[1] nel Mediterraneo, con una ONG che è entrata nel mirino della procura di Trapani – al tempo codice Minniti prima e del governo Salvini poi. In un paese come il Portogallo, in cui le retoriche nazionaliste non sono ancora entrate nella quotidianità e dove la xenofobia muscolare di cui sembra nutrirsi buona parte d’Europa non è stata del tutto normalizzata, ci si trova davanti al sincero stupore dei più per la sua vicenda. E, mentre i molti italiani che vivono qui vengono ancora fermati per strada da persone incredule che pongono la basilare domanda “ma cos’altro avrebbe dovuto fare?”, un crowdfunding per le sue spese legali ha raccolto 52.000€ – più di dieci volte la cifra necessaria – facendo rimbalzare dappertutto l’hashtag #eufariaomesmo – “farei lo stesso”. Miguel, nel frattempo, fa un dottorato di ricerca in Matematica ed ha fondato il collettivo HuBB – Humans Before Borders. Ci incontriamo per parlare di come è lontana oggi l’Italia, vista da un bar di Lisbona.
La narrazione ricorrente sulle ONG le rappresenta come lobby di reclutamento di persone ricche, privilegiate e con doppi fini. Come ti sei avvicinato al lavoro della ONG Jugend Rettet?
Da un certo punto di vista quello che dicono è vero: io sono una persona ricca, se mi si mette a confronto con tante altre nel mondo; è vero che fare aiuto umanitario è un privilegio e che non tutti possono permettersi di farlo: io posso; sono giovane, non ho grandi responsabilità – figli di cui occuparmi, conti da pagare – e per questo lo faccio.
Nel 2016, con la cosiddetta “crisi dei rifugiati”, stavo finendo l’Università e, come chiunque, ero scioccato da quello che succedeva alle frontiere. Uomini, donne, bambini che attraversavano il mare su delle barche piccolissime, e stavano male tanto in mare quanto nei campi sulla terraferma. Ho sempre pensato che chi aveva la responsabilità di fare qualcosa fossero i governi europei; ma il tempo passava e nessun governo faceva niente di buono. Ho cominciato a sentire che, se i governi non rappresentavano niente in cui potessi riconoscermi, allora era la società a doversi organizzare in un altro modo, anche se con mezzi molto inferiori. Ho sentito parlare del recupero marittimo, delle Ong che lo facevano, della nave Iuventa che aveva cominciato la sua missione da una settimana: con 15 persone a bordo avevano già recuperato circa 1000 persone. Mi è sembrato un numero enorme; li ho contattati e mi sono unito a loro.
L’Italia sembra ossessionata da una domanda: perché non ve ne state a casa vostra?
È facile: non ce ne stiamo a casa perché possiamo non starcene a casa.
Questa non è una cosa particolarmente altruista, non si tratta di buonismo o di aiutare “dei poveretti” per sentirsi migliori: una volta che le mie necessità primarie non sono a rischio, si tratta di avere il privilegio di poter pensare a che tipo di società è quella in cui voglio vivere. Facevo recupero marittimo perché fa parte della mia idea di una società migliore. È piuttosto semplice: se io stessi affogando, vorrei che qualcuno mi tendesse una mano. Vorrei vivere in una società in cui lo facciamo tutti, senza dover temere di passare per un processo penale per questo.
Che ne pensi della divisione che spesso viene fatta tra “rifugiati” e “migranti economici”, che molte volte viene presentata come quella tra chi merita o no di essere aiutato?
Se incontro qualcuno che sta affogando in mare non gli chiedo se scappa da una guerra o se è alla ricerca di un lavoro. In mare questo non ti passa nemmeno per la testa. La ragione per cui una persona è lì e sta cercando di passare la frontiera è completamente irrilevante.
Quanto tempo hai passato sulla Iuventa?
Un anno, ma non continuativamente. Non possiamo fare molte missioni di seguito, a causa della pressione psicologica; quando non ero a bordo, normalmente stavo nei campi per rifugiati, in Grecia e Turchia – dove comunque la pressione emotiva è forte. In pratica ho fatto quattro missioni di recupero, che solitamente durano ognuna tre settimane.
Quale era il ruolo dell’Italia?
Esiste un organo del ministero italiano delle infrastrutture e dei trasporti, il Maritime Rescue Co-ordination Centre (MRCC): ogni Stato ne ha uno, e ha l’obiettivo di coordinare il recupero marittimo in una determinata zona che è sotto la sua responsabilità. La maggior parte del Mediterraneo centrale è sotto la responsabilità dell’Italia: tutto il lavoro che facevamo era completamente svolto in coordinazione con le autorità italiane. La maggior parte dei casi d’emergenza con cui abbiamo avuto a che fare ci venivano comunicati dell’MRCC, che contatta le Ong e chiede loro di recuperare le persone in mare. Dopo aver fatto salire a bordo le persone comunicavamo all’MRCC il numero e le condizioni di salute; nella maggior parte dei casi loro inviavano la marina militare o la guardia costiera ed erano questi organi a portare le persone sulla terraferma. La Iuventa è arrivata in un porto italiano non più di tre-quattro volte e quando è successo è stato perché siamo stati obbligati dall’MRCC. Spesso di pensa che le ONG recuperino le persone in mare e poi le abbandonino clandestinamente sulle spiagge italiane, è assurdo.
Che è successo poi alla nave?
È stata sequestrata nell’agosto 2017, quando era ministro Minniti. Non dobbiamo correre il rischio di lasciar passare l’idea che il governo di Renzi fosse pro-immigrazione o che appoggiasse il recupero marittimo. La criminalizzazione delle ONG è cominciata con il governo del Partito Democratico: semplicemente il discorso xenofobo e anti-immigrazione non era così chiaro e diretto come quello di Salvini, ma i risultati sono simili.
All’epoca del sequestro siamo stati avvisati che c’era un’indagine in corso che coinvolgeva alcuni membri dell’equipaggio: le accuse erano di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, traffico di esseri umani e possesso di armi da fuoco. 50 poliziotti hanno perquisito la nave per due volte, ovviamente non hanno mai trovato armi. Quasi un anno dopo, a Giugno 2018, 10 di noi, tra cui io, hanno ricevuto l’avviso di garanzia: siamo ufficialmente indagati per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, perché nel frattempo le altre due accuse sono cadute nel vuoto. Questo crimine, secondo la legge italiana, può portare fino ad un massimo di venti anni di prigione.
Ti aspettavi una accusa da parte della giustizia italiana?
Ho vissuto in Italia alcuni anni fa – ho fatto l’Erasmus a Padova – però poi, durante la missione non ci ho praticamente mai messo piede. Eppure, ci stavamo accorgendo dell’affermarsi di retoriche anti-immigrazione e del clima di ostilità crescente rispetto al tipo di lavoro che stavamo facendo – non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa – nonostante fosse un lavoro che gli Stati sarebbero obbligati a fare.
Detto questo, l’ipotesi che potessero essere usati mezzi legali e giudiziari per farla finita col nostro lavoro è una cosa che non avevamo mai creduto possibile: quello che facevamo, in fondo, non è molto più che un tentativo di difendere e applicare il diritto marittimo internazionale. Se non avessimo recuperato le persone, una volta in mare, avremmo violato quelle leggi marittime. Forse era ingenuo da parte nostra, ma non abbiamo mai pensato che potessimo essere oggetto di una indagine criminale ai nostri danni: la nostra prima reazione era di incredulità. Solo con il tempo, comprendendo anche come il caso veniva descritto nei mezzi di comunicazione italiani, abbiamo capito senza ombra di dubbio che si trattava di un processo politico e non giudiziario: qui non c’è niente che abbia a che fare con la legge o il tentativo di farla rispettare, qui c’è una manovra per raggiungere un obiettivo politico molto specifico, che è quello di concretizzare una narrativa politica che purtroppo è andata crescendo in Italia e nel resto d’Europa negli ultimi anni. Dal punto di vista giuridico, il nostro caso è ridicolo, non c’è un altro modo di vedere la cosa.
Come è stato vivere questa vicenda in un paese – il Portogallo – in cui non c’è (ancora?) una egemonia discorsiva di estrema destra e dove non sono stati normalizzati determinati discorsi di odio razziale e nazionalismo?
È stato prima di tutto estremamente emozionante sul piano personale. È spettacolare vedere le persone non solo indignarsi, ma unirsi: ci sono state così tante offerte di supporto, così diversificate e così immediate, che credo che il modo in cui la società portoghese si è manifestata rispetto alla criminalizzazione del recupero marittimo sia un esempio per il resto d’Europa. Nessun altro Stato europeo si è manifestato così chiaramente in appoggio a queste pratiche.
Anche nella stampa – per lo meno in relazione al caso dello Iuventa – ho visto una netta differenza tra Italia e Portogallo. All’epoca del sequestro della nave, sono usciti moltissimi articoli sui media italiani; ha funzionato più come una campagna di diffamazione che di informazione: un motivo in più per pensare che fosse una guerra politica, più che una operazione giudiziale. In Portogallo di tutto questo non si parlava molto fino a poco tempo fa, perché io sono la prima persona ad essere indagata per un “crimine di solidarietà” in questo paese: credo che la narrazione mediatica che si sta facendo qui sia relativamente più soddisfacente.
Come vivi il paradosso del “salvatore bianco”? Ti capita di sentire che la tua figura è quella che attrae l’empatia e che alla fine invisibilizza i/le migranti che attraversano il Mediterraneo e scompaiono dalla nostra narrazione?
Anche a me, qui in Portogallo, è un po’ capitato di essere trasformato in questo tipo di figura eroica. Il problema della figura del “salvatore bianco” è che è bianco (o bianca) per ragioni storiche molto ben definite: possiamo andare indietro nella storia fino al colonialismo, per spiegare perché esista una egemonia dell’Europa che mette le persone europee nella condizione di avere il privilegio di fare lavoro umanitario. Invece, fuori dalle narrazioni eroiche, non è così ben definito chi salva chi. Vorrei raccontare una storia a questo proposito: durante una operazione notturna molto complicata in acque internazionali, nel 2016, abbiamo trovato un gommone forato, c’erano già decine di persone in acqua. Abbiamo cominciato a issare le persone a bordo, ma è sempre un processo piuttosto lento: quindi, per prima cosa, abbiamo cominciato a lanciare dei giubbotti di salvataggio per dare alle persone che erano in acqua qualcosa a cui aggrapparsi. C’era una persona che non era ancora caduta in acqua perché era sulla parte della barca che galleggiava: appena ci ha visti lanciare i giubbotti di salvataggio, si è immediatamente tuffata, ha cominciato a raccoglierli e distribuirli a nuoto a tutte le persone sparse nell’acqua, senza indossarne uno. Li ha distribuiti a tutti ed è stata l’ultima persona ad essere recuperata. Lì ti fermi e pensi: chi è il “salvatore”? Il bianco? No: noi siamo solo quelli che hanno le barche, i giubbotti di salvataggio, l’equipaggiamento e se per caso ci succede qualcosa, immediatamente appare un elicottero e ci viene a prendere. Loro no.
Come vedi oggi l’Italia e l’Europa, viste da qui?
Non vedo un tentativo di garantire la cosa più basilare: il diritto alla vita. Questo è molto triste. Però dall’altro lato si vede anche una risposta, una risposta spettacolare. C’è una lotta molto dura davanti a noi, e dobbiamo farla uniti, perché in realtà, in fondo, siamo tanti. Dobbiamo solo capire in che Europa vogliamo vivere.
Ci sono persone e anche istituzioni, in Europa, che sono perplesse quanto al mio caso e alla situazione dell’Italia in generale e non sono d’accordo con questo processo di criminalizzazione. È importantissimo che esista questa contro-narrativa. Il mio caso ha un aspetto estremamente positivo: ci dà una piattaforma per essere ascoltati. Solo il fatto di essere “noi” oggetto di questa ingiustizia – noi che siamo bianchi, europei, cittadini – ci dà il privilegio di portare l’attenzione su delle questioni; possiamo essere il sintomo di problemi molto più grandi: la mancanza di solidarietà, l’individualismo, questa narrativa xenofoba, anti-immigrazione; in altre parole, il nazionalismo. In questo momento, noi siamo dieci persone che rischiano 20 anni di prigione: ci sono migliaia e migliaia di persone che negli ultimi anni hanno rischiato e rischiano la vita, la propria e quella dei propri figli. Anche così, anche con vent’anni di prigione come rischio massimo, noi siamo i privilegiati di questa storia. Chi davvero deve essere aiutato sono queste persone che rischiano la vita tutti i giorni, che sono vittima della violenza delle frontiere d’Europa. Quello che io vorrei davvero da tutto questa situazione è che serva ad attirare l’attenzione su questa catastrofe umana, non su di noi.
Insomma, non ti penti di quello che hai fatto?
No, in nessun modo. Se potessi, tornerei sulla nave anche domani.
[1] Nota di traduzione: ho scelto, nel titolo e nel corso del testo, di utilizzare l’espressione “recupero marittimo” per tradurre il portoghese “resgate marítimo” che Miguel usa per l’intera intervista e che corrisponde piú o meno letteralmente all’inglese “maritime rescue”. In italiano l’espressione non è altrettanto familiare, poiché piú comunemente si utilizzano locuzioni come “salvataggio in mare” o derivati vari del verbo “salvare”. Mi è sembrato opportuno recuperare l’espressione tecnica del linguaggio marinaresco – “recupero marittimo” – proprio perché, benché poco comune, è quella piú adatta a restituire una dimensione meno “eroica” e “mitizzata” dell’atto e di chi lo compie – se parliamo di “salvataggio”, infatti, implichiamo sempre l’esistenza di “colui che salva”, ovvero, del “salvatore”: mettere in discussione questa figura, come si vedrá nel corso del testo, è uno degli obiettivi espliciti dell’intervista e dell’intervistato
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