José de la Cuadra
Traduzione di Raul Schenardi, postfazione di Federica Arnoldi
Gli Eccentrici, Edizioni Arcoiris, 2018
L’origine
Nicasio Sangurima, il nonno, era di razza bianca, quasi pura.
Era solito dire:
«È che io sono figlio di un gringo».
Aveva una chioma simile a quelle dei mulatti, con ricci scuri intricati, come se la testa fosse sempre sconvolta da un ciclone irriverente; ma erano capelli fini, di un tenue colore rossiccio, come quello del miele maturo.
«Una chioma che sembra quei fidelini “capelli d’angelo” che vendono nelle drogherie, amico. Una bellezza!».
Non c’erano capelli bianchi in quella matassa di fili intricati. E lì, in quell’assenza, annunciava la sua remota presenza la razza africana.
Ma don Nicasio vedeva le cose in un altro modo:
«Perché mai capelli bianchi? Li ho avuti da bambino. Adesso no. Io sono di un legno incorruttibile. Guachapelí[1], perlomeno».
Dietro le palpebre gonfie, arrossate, gli occhi a mandorla di don Nicasio apparivano davvero belli. La pupilla era verdastra, cristallina, della morbida tonalità dei primi germogli della canna da zucchero. O come l’erba appena nata fra gli alberi di mango.
Quegli occhi guardavano con una lenta dolcezza. Sereni e felici.
Una volta, molti anni prima, a Santo Domingo de los Colorados un’india fattucchiera aveva detto a don Nicasio:
«Hai gli occhi giusti per un incantesimo».
Don Nicasio ripeteva la frase, vera o falsa, che gli avrebbe detto l’india fattucchiera a chiunque andasse da lui per guarirlo da un male sconosciuto.
Si vantava:
«Voi mi vedete così, prostrato, rovinato, che quasi non posso alzarmi dall’amaca, ma quando ero giovane facevo strage di sottane… Mettevo gli occhi addosso a una donna, ed era fatta… Non poteva fare a meno di eccitarsi a letto… Ero imbattibile, amico!… Avevano paura di me… Altro che la malattia del cacao!… Io ero peggio…».
Dove si notava di più la razza bianca di don Nicasio era nel colorito della carnagione e nella linea regolare del profilo.
Malgrado il sole e i venti ardenti, la sua pelle conservava un fondo di candore, che si percepiva sotto le croste e le macchie come si può percepire, nelle acque torbide di fango, il fondo sabbioso pulito.
E dove il naso guascone incontrava il profilo, disegnava un angolo quasi retto all’altezza della fronte.
«È che io sono figlio di un gringo, non ci credete?».
«E allora come mai si chiama Sangurima, don Nicasio? Sangurima è un nome montuvio, non è un nome gringo. I gringos si chiamano Juay, si chiamano Jones, ma non Sangurima».
«Ma voi che ne sapete! Chiaro, chiaro. Il fatto è che io porto il cognome di mia mamma. Mia mamma si chiamava Sangurima. Dei Sangurima di Balao».
«Ah!…».
Gente tosta
«Gente con le palle, amico. Ce le avevano proprio dove devono stare. Con i Sangurima non si scherzava».
Fissava nel vuoto lo sguardo degli occhi screziati, malinconici, come per richiamare un ricordo perduto.
E insisteva:
«Gente tosta, amico. Non mollavano il machete neanche per dormire. E per una cosa da niente, lo sfoderavano!».
Imitava vagamente il gesto.
«Erano del partito di García Moreno. Se ne andavano sempre qua e là con il dottore. Al tempo della guerra contro la Colombia, erano in prima fila».
[1] Albero diffuso in Ecuador e in altri paesi sudamericani. Per la dura fibra del suo legno se ne fa largo uso nell’industria delle costruzioni. Resiste agli attacchi di termiti e tarli.
José de la Cuadra (1903-1941) ha fatto parte del Gruppo di Guayaquil, un movimento artistico che ha rinnovato profondamente la letteratura ecuadoriana negli anni Trenta del XX secolo. “Fra tutti gli scrittori ecuadoriani di questo periodo, de la Cuadra fu forse quello maggiormente preoccupato dell’aspetto artistico del racconto e del romanzo, e il meno interessato alla problematica ideologica”. (Jean Franco, Introduzione alla letteratura ispanoamericana). Tra le opere più importanti di de la Cuadra: El amor que dormía (1930), Repisas (1931), il suo capolavoro Los Sangurimas (1934), El montuvio ecuadoriano (1937), Guasintón (1938).
Per la trama e i personaggi Los Sangurimas (1934) è stato considerato un precursore di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez e del real-meraviglioso di Alejo Carpentier. È stato anche interpretato come un’opera di denuncia dell’arretratezza della zona costiera dell’Ecuador. Entrambe le letture sono possibili, ma non esauriscono la ricchezza di un libro magmatico, in bilico tra tradizione e avanguardia, e sfuggente (da decenni i critici discutono sulla sua forma: è un romanzo? Un’epopea parodica? Un unico racconto costituito da tanti racconti? Una nouvelle?). Los Sangurimas ha resistito magicamente al trascorrere del tempo per meriti esclusivamente artistici, per la tecnica compositiva che sorprende ancora oggi, per il ritratto indimenticabile del sinistro don Nicasio, patriarca di una famiglia altrettanto sinistra.
La produzione letteraria di José de la Cuadra è stata dichiarata Patrimonio Culturale dell’Ecuador nel 2003.