I racconti della bestia, di Aleister Crowley

ridotto 3

I racconti della bestia

di Aleister Crowley

collana La biblioteca di Lovecraft, Edizioni Arcoiris, 2019lovecraft

 

Si è parlato e si continua a parlare spesso di Aleister Crowley, personaggio controverso e discusso, una figura enigmatica, ambigua e affascinante su cui si possono leggere e sentire i pareri più contrastanti. Fu un praticante di magia, un occultista, uno scrittore, un poeta, un pittore, un alpinista e persino un agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica.

La sua figura ha generato e continuerà a generare sempre pareri contrastanti, nel bene e nel male.

 

 

La violinista

La stanza era annebbiata da un incenso irrespirabile: zafferano, opoponax, galbano, muschio e mirra, con la purezza dell’ultimo ingrediente come una maledizione, la beffa finale; allo stesso modo in cui un degenerato insulterebbe Raffaello mettendolo in una stanza consacrata alla dissolutezza.

La ragazza era alta e di corporatura elegante, snella come una cacciatrice. Portava un vestito aderente di seta marrone con riflessi dorati che si intonavano, senza potervi rivaleggiare, ai ricci che le incorniciavano il viso – e splendevano e sibilavano come serpenti.

Il viso era di una delicatezza greca; ma cosa vi significava una tale espressione? La bocca di un satiro o di un diavolo. Era piena e forte, ricurva due volte, gli angoli all’insù, di un viola irato, con le labbra piatte. Il sorriso era come la smorfia di una bestia feroce.

Era in piedi, col violino in mano, davanti al muro, su cui si trovava un grande pannello a mosaico; molti quadrati e molti colori. Sui quadrati c’erano delle lettere in una lingua sconosciuta.

Iniziò a suonare, gli occhi grigi fissi su un quadrato al cui centro si trovava questo carattere: N. Era nero su bianco; e i quattro lati del quadrato era blu, gialli, rossi e neri.

Cominciò a suonare. La melodia era pesante, dolce, morbida e lenta. Sembrava che stesse ascoltando non la musica che suonava, ma qualche altro suono. L’archetto prese a muoversi più rapidamente; la melodia si caricò di tensione e di un’eccitazione rabbiosa; accelerò ancora sino a quando fu un impeto di fiamme che divora un covone; si addolcì sino a diventare una nenia.

Ogni volta che cambiava l’anima della canzone, lei sembrava essere esausta; come se tentasse di suonare una frase particolare, e ogni volta, perplessa, ricadesse indietro all’ultimo momento.

Né alcuna luce le illuminava gli occhi. C’era concentrazione, fatica, c’era pazienza e sforzo. E la stanza era stranamente silenziosa, indifferente al suo umore. Lei era la presenza più fioca in quella luce grigia. E tuttavia si impegnava. Si fece più tesa, serrò le labbra in una brutta espressione. Gli occhi le brillavano di – era odio? Il suono della canzone ora era tutto angoscia, implorazione, disperazione – e intimava continuamente qualcosa di irraggiungibile.

Sembrò soffocare in un singulto spasmodico. Smise di suonare; si morse le labbra, e una goccia rossa di sangue risaltò sul viola irato, come un tramonto e una tempesta. Le premette contro il quadrato, e uno sbaffo macchiò il bianco. Ebbe un sussulto, perché qualche strana fitta le aveva serrato il cuore.

Alzò il violino, e l’archetto lo incrociò. Avrebbero potuto essere le spade di due provetti spadaccini, entrambi accecati da un odio mortale. Avrebbero potuto essere i corpi di due amanti esperti, accecati da un amore eterno.

Sulle corde faceva a pezzi la vita e la morte. Su, sempre più in alto si librava la fenice della sua canzone; passo dopo passo sulla scala dorata della musica prendeva d’assalto la cittadella del suo Desiderio. Il sangue le imporporava e gonfiava il viso sudato. Aveva gli occhi iniettati di sangue.

La canzone crebbe, culminò – tracimò dai limiti, raggiunse la sua frase.

Lei si fermò; ma la musica continuava. Una nuvola si addensò sul grande pannello, orrenda e minacciosa. Ci fu un urlo lacerante che sovrastò la melodia.

Davanti a lei c’era un ragazzo che le cingeva i fianchi con le mani. Biondo era, rosse aveva le giovani labbra, e gli occhi blu. Ma aveva il corpo etereo come una pellicola di rugiada su un bicchiere, o la ruggine su un indumento leggero; ed era orribilmente macchiato di nero.

“Mio Remenu!” esclamò lei. “Dopo così tanto tempo!”

Lui le sussurrò all’orecchio.

La luce dietro di lei tremò e si spense.

Lo spirito posò a terra il violino e l’archetto.

La musica continuò – ansimando, melodia ribollente come aquile impazzite in combattimento mortale con le capre di montagna, come serpenti intrappolati negli incendi della giungla, come scorpioni tormentati da fanciulle arabe.

E nell’oscurità lei singhiozzò e urlò allo stesso tempo. Non se l’era aspettato: aveva sognato di un amore più tempestoso, e di una passione più violenta e bizzarra, di qualunque altra cosa mortale.

Ma questo?

Questa reale perdita di castità? Questa degradazione non del corpo, ma dell’anima! Questa fiamma bianca e scoppiettante – gelida intorno al suo cuore? Questo fulmine seghettato che la scuoteva? Questa tarantola viscida che le risaliva la schiena?

Sentì il sangue che le scorreva via dai seni e le schiumava alla bocca.

Poi di colpo le luci si accesero, e lei si trovò in piedi – sbigottita – con la testa abbandonata sul braccio di lui.

Di nuovo lui le sussurrò all’orecchio.

Nella mano sinistra teneva una piccola scatola d’avorio che conteneva un impasto nero. Ne strofinò un poco sulle labbra di lei.

E per una terza volta ancora le sussurrò all’orecchio.

Con un sorriso angelico – eccetto che per la sua sottigliezza – era sparito nel mosaico.

Lei si girò, soffiò sul fuoco che crepitò affabilmente, e si gettò su una poltrona. Pigramente pizzicava delle semplici vecchie melodie.

La porta si aprì.

Un ragazzo allegro entrò e si scosse la neve dalla pelliccia.

“Piccola mia, non ti sei annoiata troppo?” chiese allegramente, con sicurezza.

“Oh caro, no!” replicò lei, “ho soltanto strimpellato un po’.”

“Dammi un bacio Lily!”

Si chinò e portò le labbra alle sue; poi, come colpito da un fulmine, si accasciò, un cadavere.

Lei guardò in basso languidamente con gli occhi socchiusi e con quel suo sorriso che sembrava una smorfia.

 

Immagine in evidenza: Opera grafica di Irene De Matteis.

 

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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