Non è facile fare narrativa sul tema della disabilità fisica o psichica senza cadere in luoghi comuni o in immagini di dolore o commozione che siamo abituati a frequentare attraverso articoli, tv o social media con diversi gradi di partecipazione, coinvolgimento o commiserazione. Silvia ha la capacità infrequente di leggere le vicende dei protagonisti dei suoi racconti con i loro occhi, con i loro muscoli tirati, con i loro pensieri, con la loro collera e la loro speranza e non solo con quelli del mondo intorno, mondo degli affetti più cari o mondo delle semplici comparse che attraversano la loro vita. Silvia restituisce ai disabili, dalla nascita o diventati tali a seguito di maledetti incidenti della vita, la loro voce per farcela udire forte e chiara. Ci racconta della rabbia riversata su genitori che incassano i colpi quotidiani e vengono messi alle corde nel ring di questa lotta continua che è il rapporto di amore con un figlio disabile. Ci racconta del desiderio tenerissimo di innamorarsi, di godere degli stessi godimenti corporali e degli stessi sobbalzi del cuore dei cosiddetti ragazzi “normali”. Ci racconta della cronica difficoltà delle famiglie ad orientarsi in un meandro di diritti negati e di sale d’attesa. In particolare ne L’idiota rassegnazione dei giusti l’autrice ci porta per mano a vivere il lungo calvario di una madre sola con il suo “fagottino” che non è come tutti gli altri. Sola in quanto presto abbandonata da un compagno insulso e immaturo che non l’ama e non l’ha mai amata e non prova nessun sentimento verso quella figlia, sola davanti alle difficoltà ciclopiche di coniugare lavoro e terapie per la sua piccola perché “Il nostro è un Paese strano, un Paese che si veste di modernità e si nutre di grettezza, che proclama la superiorità dell’uomo dall’alto dei suoi campanili, ma rispetta una sola regola: la sopraffazione. In questa nostra bell’Italia si vive di fortune e di sfortune, non di diritti e di doveri. Maria Teresa non aveva una voce possente, non conosceva leggi, conosceva la fatica, non arretrava mai di fronte alle necessità di sua figlia. Avrebbe affrontato qualsiasi cosa per la sua salute ma non poteva bastare in una nazione come la nostra. Ci vuole la tempra del condottiero, la rabbia che ti cambia i connotati, l’arroganza della pretesa del diritto. Ci vuole la cultura, quella che rende consapevoli dei propri diritti, quella che fa battere i piedi di fronte al sopruso. Maria Teresa non la possedeva, sapeva leggere, scrivere e far di conto ma si può ben dire che la scuola, per quello che dovrebbe essere il compito principale dell’istruzione, con Maria Teresa, come con larga parte della popolazione italiana, aveva fallito”.
La lettura dei cinque racconti di cui si compone il testo non può non farci riflettere sulla necessità di ripensare in ogni situazione del quotidiano, anche nelle più banali, ai diritti dei disabili troppo spesso ignorati o negati e al sottile confine che nel mondo passa tra le loro esistenze e quelle di noi “normali”. Mi auguro che le parole di Silvia possano indurci a vivere pensando che stare dalla parte “normale” del confine non è una situazione acquisita ed immutabile, ma che ognuno di noi può trovarsi improvvisamente dall’altra parte, a causa di quelle numerose disgrazie che il destino, il fato, la sfortuna disseminano tutti i giorni sul nostro cammino. Avremmo senza dubbio più pazienza, comprensione e compartecipazione per ogni essere vivente.
DAL RACCONTO: I pensieri di uno stolto
Le carte, oddio! Dove ho messo le carte! Il letto diventa una molla e salto su come un grillo, mi precipito lungo le scale e corro al mio cassetto. Dove sono…dove sono… Queste parole mi balzano davanti agli occhi a lettere cubitali, sono un incubo! Frugo, urlo, sì, urlo perché quella deficiente di mia madre non mi capisce. Cerca di distrarmi, la scema! Che me ne frega se faccio tardi, adesso ho le carte da cercare e poi succeda quel che succeda.
Più non mi capiscono più mi arrabbio, allora comincio a tirare lo straccio da cucina e poi se non basta butto a terra le sedie. Gli occhi di mia madre perdono la lucentezza e, nonostante finga di non aver paura, il terrore le fuoriesce da dentro come l’acqua da una bottiglia dimenticata sotto un lavandino aperto. Mi rendo vagamente conto di provare un piacere inspiegabile a torturare questi poveracci. Come se mi dovessero una sofferenza in cambio della mia insoddisfazione. Che soffrano e che crepino, non li sopporto. Mi menano perché si difendono e io urlo ancora più forte. Un’eccitazione selvaggia che non trova sfogo da nessun’altra parte. Sono incazzato, in questo momento mi mancano le carte… dove sono!
Alla fine le trova mio padre, ogni volta è così, lo so che mi vogliono fregare, cercano di buttare le cose che a loro non interessano, pensano che sono scemo, che mi dimentico. Chi, io?
Mi trattano come un handicappato e spesso mi mettono insieme ad altri, che loro dicono uguali a me. Puaf! Io amo le belle ragazze, mi piacciono i loro corpi, emanano un profumo che mi stordisce. Queste con le quali mi lasciano sono brutte, proprio non mi piacciono. È vero che, come dice mia madre, queste brutte mi baciano ma io voglio Martina, Giulia, Jessica, bionde o more, morbide, con gli occhi dipinti dal trucco, con le minigonne.
Rimango estasiato in loro compagnia, la bocca mi si apre e sbavo come un neonato! L’unica cosa che riesco a dire è “ti amo” e quelle ridono e mi baciano sulla guancia, ma alla fine mi lasciano lì a cullare il mio orsetto di peluche! Sono contento, il contatto con la loro pelle mi allarga il cuore. Ma perché non so dire altro che scemenze? […]
DAL RACCONTO: Come uno caduto in un pozzo scuro
Io correvo la mattina della domenica lungo la riva del mare, per tenermi allenato. Io saltavo sulle scale della scuola, era una sfida tra me e l’equilibrio e vincevo sempre. Io andavo in bicicletta, era il mio mezzo di locomozione preferito, la mia città sembrava fatta apposta perché pianeggiante, le gambe erano agili come quelle delle gazzelle. Io giocavo a basket ed ero pure molto bravo, per la squadra ero un elemento utile, perché avevo sempre il canestro che salva la partita.
Io non stavo mai fermo, il cervello correva sempre dietro ad un’idea, che le mie mani o le mie gambe realizzavano velocemente. Io studiavo, non con estrema passione. Frequentavo l’istituto tecnico con profitto medio, mi piaceva la nuova classe delle superiori, erano ragazzi simpatici, con i quali condividevo molti dei miei interessi. Io cominciavo a guardare le ragazze, che fino a quel momento mi erano rimaste indifferenti. Ricordo ancora che in quei tempi mi era simpatica Letizia. Il suo viso dolce ricordava le madonne del trecento, gli occhioni grandi e scuri mi davano un brivido insolito, quando appoggiavano il loro morbido sguardo sul mio viso, che leggermente arrossiva, senza il mio permesso.
Io vivevo la mia adolescenza, i miei timori e le mie certezze di quindicenne, felice dopo tutto. Un giorno tornai da scuola con un insolito mal di testa. Tanto insolito non era in verità, perché era da qualche giorno che sentivo pulsarmi le tempie. Mia madre non dette particolare importanza a questo mio malessere e così non ci pensai troppo neanch’io, del resto la maggior parte della popolazione vive e sopravvive con il mal di testa.
Il dolore aumentò e iniziai a vacillare. Poi saltò il quadro elettrico e calò la notte. Persi conoscenza. Un aneurisma era scoppiato nel mio cervello, un bubbone era esploso ed il sangue aveva mandato in tilt la mia fitta rete di neuroni. Il chirurgo tentò di salvare il salvabile, risucchiò tutto il sangue possibile. Mi salvò la vita… così lui credette, fedele al giuramento di Ippocrate; svolse il suo lavoro in maniera eccellente.
I miei genitori furono felici. Quando riaprii gli occhi incontrai quelli di mia madre e il suo volto si illuminò come un faro accecante, tanto che richiusi i miei con un pudore indecifrabile.
Tutti esprimevano in ogni loro gesto una gioia carica di apprensione. La percepivo ma non riuscivo a muovere un muscolo e richiudevo gli occhi, certo che di lì a qualche giorno mi sarei riaffacciato alla vita di sempre, la mia vita.
Trascorsi tre mesi dentro l’ospedale, poi fui ricoverato presso una clinica riabilitativa.
Un turbine di emozioni mi affastellava la mente, l’unica ancora in grado di essere indipendente.
Lottavo come un leone. L’entusiasmo di mia madre mi riempiva di speranza.
Ah, la speranza! Un’illusione che mi sono trascinato dietro per anni. L’illusione di poter tornare, se non proprio come prima, almeno autonomo, in grado di gestire la mia vita.
Affatto.
Dipendo dagli altri. Questo mi lacera al punto che odio il prossimo, a volte. Ne paga le conseguenze la mia famiglia. Sono pesante come un macigno, me ne accorgo benissimo, passo lunghe ore a fissare il vuoto che mi circonda, che mi ha ghermito, oscurando per
sempre il mio orizzonte. Mi sento come uno caduto in un pozzo scuro e profondo,
stretto tra pareti lisce e arrotondate sulle quali non ho appiglio alcuno.
Sono rigido in tutti i miei movimenti e questo mi rende nervoso, scatena in me una forza misteriosa che mi fa lanciare in aria tutto quanto mi capita a tiro e urlo ferocemente.
La mia famiglia impotente non può che guardare questo spettacolo indecente insieme a me, attore e spettatore di me stesso e della mia tragedia personale dalla quale non trovo vie d’uscita.
[…]Un pomeriggio di ritorno dalla terapia mio padre cambiò strada, sembrò casuale invece la cosa era stata studiata e pensata, ma questo lo capii in seguito.
Ci trovammo di lì a poco davanti al cancello di un canile: “Valerio guarda quanti cagnolini! Che ne dici se ne prendessimo uno piccolino? Ti ricordi che qualche anno fa ce lo chiedesti e noi… beh! Era un’altra vita Vale’”. Povero papà si sentiva quasi in colpa, forse, provai una tenerezza che mi lasciò scappare una lacrima, sorrisi e lo guardai intensamente negli occhi, lui si illuminò e quasi saltò giù dall’automobile. In quel momento
posai lo sguardo sulle sue gambe, che agili rispondevano ai comandi impartiti e seguii le linee dei muscoli, almeno di quelli che riuscivo a percepire attraverso la stoffa.
Come mi sistemò sulla carrozzina al di fuori dell’abitacolo dell’automobile, avvertii una carezza sottile regalatami dal vento, quello caldo e profumato di salsedine e sabbia, tipico della stagione estiva, ma era gennaio ed era tutt’altro che caldo. Camminammo per un po’ nel vialetto in cui si affacciavano i recinti, che ospitavano vari cagnolini in cerca di padrone. Ad un tratto mi girai, poco in verità ma di più non ci riuscivo, per parlare con mio padre: “Che dolci, papà, vero?”. Anche loro sono prigionieri come me, pensai ma non glielo dissi: “guarda che musetti eh?” mio padre era raggiante, non gli pareva vero di averci azzeccato. Aveva ed ha ragione poveretto, sono uno scontento e non accetto di sentirmi dire che sono esagerato! Sono una persona perbene e con il mondo mi limito a grugnire, annuendo con la testa alle paternali dei tanti bravi che mi circondano, che altrimenti tirerei la prima cosa che mi capita a tiro e forse così la smetterebbero di dire idiozie.
Il sole intanto, di fuori dai miei pensieri, nel mondo reale, sprofondava tra le braccia languide delle onde del mare, mi sembrava di vedere da lontano la striscia azzurra delle acque allargarsi per accoglierlo.
Illuminata dalla luce rossa del tramonto, faceva capolino la notte con le sue prime stelle e con l’aria sempre più frizzante e gelida. Girammo in lungo e in largo, passando e ripassando davanti a quei recinti e mi straziava sentire quel guaire sommesso o quel latrato disperato, non riuscivo a decidermi. Poi ad un tratto lo vidi, era un cagnolino di piccola taglia, il pelo quasi grigio, tanto il nero era sovrastato dal bianco. Era accovacciato in un angolo, il musino poggiato sulle zampine anteriori, gli occhi semichiusi, sembrava
non interessarsi affatto alla nostra presenza. Chiesi al gestore del canile notizie di quel cagnolino e seppi che era stato abbandonato già un paio di volte, ormai non si avvicinava più alla rete quando venivano ospiti, non si fidava, anche lui come me era stato tradito.
In quel momento decisi che doveva essere lui il mio cane, così chiesi di prenderlo.
Oddio che emozione quel corpicino caldo e palpitante!
Ci riconoscemmo, avevamo un odore comune, l’odore di terra battuta all’alba, quando la brina della notte ancora non è evaporata con il sole. L’odore di chi è schiacciato su un freddo pavimento.
Rudy, si chiama così il mio cane, il mio amico vero, l’unico a cui posso affidare la mia angoscia senza bisogno di tradurla in un linguaggio faticoso e complesso.
Il rapporto affettivo che si instaura tra un uomo ed un cane ha qualcosa di trascendente.
Il cane sembra conoscerti in profondità. Non puoi mentire al suo cospetto, non ti puoi nascondere dietro al paravento fragile del linguaggio. Il cane è essenza di pensiero, ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso. Sembrano sempre le solite pre-costruite, banali, frasi del piffero, non è così, ve lo posso garantire. Rudy ed io ci siamo scelti e da quel giorno siamo inseparabili.
Sa di essermi indispensabile e questa consapevolezza lo ha aiutato a non temere un nuovo abbandono. Giorno dopo giorno la certezza del mio amore gli ha acceso lo sguardo smorto e triste che aveva al canile.
Sicuramente prima di me ha trovato persone che non avevano bisogno di lui, anzi è probabile che lo ritenessero un impiccio, altrimenti non lo avrebbero abbandonato. Le mie enormi difficoltà, Rudy le ha percepite fin dal primo incontro. Non era un cucciolo, già conosceva il mondo e questo lo aiutava a fiutare al volo l’ambiente e le persone che lo circondavano.
[…] Ricordo che il primo mese volevo stare sempre con lui, e Rudy, con una pazienza inumana, sopportava i miei abbracci continui, senza emettere neppure un guaito per non dispiacermi. Rudy mi ha viziato con le sue coccole, i suoi sguardi amorosi, e ho scoperto con incredulità trasognata che si farebbe scoppiare la vescica pur di non lasciarmi solo.Un amore così grande è un’importante consolazione, è la brezza di quel venticello consolatore che giunge alle narici del prigioniero, che dal fondo del pozzo lo attende
per riempire i polmoni d’aria fresca…
Io però sono in fondo al pozzo, neppure l’amore di Rudy può tirarmi fuori. Nonostante il mio pessimismo, diventato un compagno di viaggio, che scoraggia mortalmente chi mi è vicino, Rudy non si è scoraggiato affatto. Per mia fortuna il cane non ha parole inutili da dispensare, dall’aria, piena di odori a noi sconosciuti, trae consiglio e conosce sempre in anticipo quello che è giusto che lui faccia per me. È incredibile, non ho parole sufficienti, non sono un letterato, sono solo un povero disgraziato a cui la vita ha voltato le spalle. Scrivo male con questa mia mano sinistra ma almeno per scrivere non voglio aiuti.
Rudy è l’unico che mi aiuta senza aiutarmi, il suo odore, il suo pelo morbido che mi solletica la faccia, mi induce a sorridere anche quando non vorrei e mio malgrado in quel sorridere, pur dimesso, libero una quantità immensa di tossine di rancore e mi sento più leggero per qualche secondo.
Attimi come frammenti di luce rifratti in un caleidoscopio, tanta è la mia vita
Io correvo, io giocavo, io ridevo, io ero libero…
DAL RACCONTO Lettera a un figlio che non leggerà
Scrivere per chi non leggerà, serve a poco; è solo un atto di vanità. Premesso ciò, scriverò ugualmente, forse perché mi fa bene o perché non serve a niente.
Non farò correggere a nessuno questa lettera, ve la tenete con tutti gli errori; così ognuno dirà la sua; quantomeno se non vi ha suscitato niente, avrà il pregio di avervi eletto “correttori di bozze per un giorno” di questa fallita scrittrice.
Ora torno a te figlio mio! Scusami mi sono persa in queste quisquilie inutili. T’ho abbandonato lungo questa strada sconosciuta; sono stanca, figlio mio, di questo fallimento che il tuo viso mi rammenta in ogni istante del mio giorno. Quanti sogni ho costruito per accattivarmi la tua attenzione, per motivare quegli sforzi impossibili che mi sono imposta, eautontimerumenos[1] di me stessa. Vedi, figlio ti tiro fuori anche termini che risalgono alla mia epoca gloriosa, quella in cui credevo in una vita diversa.
Tutto è stato spazzato via dallo tzunami della tua esistenza! Sono caduti, giorno dopo giorno, i pezzi di quel puzzle che non abbiamo mai completato.
[…]Tu, figlio mio, ennesimo maschio a cui offro i miei servigi, i miei pensieri più belli, la mia rabbia più assoluta; tu che ogni giorno diventi più bello e lontano, che non accetti il tuo quotidiano che t’opprime e m’opprimi col tuo lamento lacerante.
Davanti a un viso disperato, un verso lacerato, una nota dolente di una giovane vita un adulto si sente impotente, sembra che l’esperienza acquisita evapori d’un tratto, lasciando solo le impietose rughe come solchi aridi a testimonianza di una vita vissuta.
C’è in quel tuo profilo tutto mediterraneo l’ardente esuberanza della tua carne fresca di ventenne. Ci vorrebbe un vento forte per spazzare tutte le nuvole che hanno annebbiato la tua vista e il tuo pensiero. La tua mente sconvolta costruisce fantasie, che non trovano conforto oggettivo nella tua vita e questo ti causa solo dolore e io non posso aiutarti e questo mi fa male.
Potrò ancora costruire i tuoi sorrisi, la tua gioia?
Quali strumenti ho per scuoterti dalla tua angoscia, da quegli ideali più alti di te?
Non soddisferò più le tue aspettative, come nessun altro del resto!
[…]Tante fatiche mi gravano la schiena e non ho neppure la gioia dei risultati, ma l’amarezza del fallimento e delle consolazioni inutili di chi mi circonda; le stesse che farei io se i miei piedi non fossero affossati in questa palude, che cerco di tenere nascosta con un sorriso, che come velo pietoso asciuga e copre lacrime senza acqua.
Diventerai anche tu, figlio mio, come quell’uomo adulto, quasi anziano dai capelli canuti, con il sorriso di bambino e gli occhi azzurri scintillanti, che trascorre la sua giornata seduto su una panchina ad aspettare la sua mamma, chiedendo a chiunque passi lì davanti: “Arriva mamma?”.
Peggio della sua domanda, figlio mio, sono state le parole del medico dell’istituto:
“Non gli risponda, signora, lo chiede a tutti, purtroppo non viene mai nessuno”.
Questo giovane dottore, figlio mio, come un Virgilio dei giorni nostri, mi portava tra questi gironi infernali, cercando di illustrarmi la struttura dove in teoria avrei dovuto lasciarti.
Quanti volti come il tuo ho visto figlio mio! Volti a cui hanno strappato un sorriso d’avorio e hanno lasciato dei monchi denti ingialliti! Che orrore il tuo futuro, figlio mio; l’ho letto in quegli occhi allucinati! Davanti a questi spettri umani t’accorgi d’un tratto, casomai non lo avessi già capito camminando al fianco di tuo figlio, che il cordone ombelicale non si recide mai del tutto.
Sono le viscere immonde che rivendicano la tua felicità, la mia quiete dipende dal tuo sorriso. Siamo imprigionati dentro corpi che non si aiutano, figlio mio!
Tu infatti rivendichi continuamente di voler uscire, anche se ti trovi all’aria aperta vuoi uscire. Rivendichi la tua libertà con tutta la violenza del tuo corpo fiorente di maschio.
Sei la personificazione dell’ansia di vita che nutrivo da giovane. Sei l’incarnazione di un viaggio allucinante fatto di insoddisfazione e inutili si rivelano gli approdi nei quali cerchiamo riposo e conforto.
Davanti a te la letteratura si denuda e m’appare oscena, quando le tue grida si fanno più roche, come incitate da qualche diavolo che impossessatosi del tuo corpo, non ti dà tregua.
Non leggerai mai, figlio mio, queste mie lamentazioni, non ti aiuterebbero, servono piuttosto a giustificare le mie scelte.
Rincorrerò sempre il sogno di vederti felice… ma in questo sono banale, è il sogno banale di ciascun genitore.
Scrive di lei nel suo blog Terzobinario – Sono Silvia Leuzzi ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre vent’anni. Ho 51 anni, sono sposata con due figli, di cui uno gravemente disabile psichico. Attualmente lavoro al liceo Pertini di Ladispoli, sono impegnata in campo sindacale come RSU del liceo. Sono impegnata nella politica e nel sociale in quanto genitore di un portatore di handicap. Scrivo per diletto ed ho al mio attivo, pur avendo ripreso questa attività da pochi anni, quattro premi come finalista, un secondo posto per la poesia e una menzione d’onore per la narrativa.
[1] Heautontimorumenos (in greco Ἑαυτὸν τιμωρούμενος, Il punitore di sé stesso) è una commedia di Terenzio . L’opera è una rielaborazione dell’omonima commedia di Menandro, ambientata nei pressi di Atene, che deriva il suo titolo da un padre, Menedemo che ha deciso di punirsi (Il punitore di se stesso, appunto ) per aver provocato con la sua eccessiva severità l’allontanamento da casa del suo unico figlio , Clinia.
Foto in evidenza di Teri Allen-Piccolo.